Франческо Доменико Гверрацци. Осада Флоренции / Francesco Domenico Guerrazzi. L’assedio di Firenze
© Куняева А. В., адаптация текста, комментарии, словарь
© ООО «Издательство АСТ», 2015
* * *Дорогие читатели!
Вашему вниманию предлагается роман Франческо Доменико Гверрацци «Осада Флоренции». Написанный в период активной освободительной борьбы итальянцев за национальную независимость, этот роман не только ярко отражает патриотические тенденции своей эпохи, но и представляет собой выразительную и универсальную иллюстрацию народного героизма и любви к родине. Хронология повествования в романе связана с событиями 1530 года в итальянской истории – года осады независимой Флорентийской республики императорскими войсками и ее последующего падения и превращения в наследственную монархию. Выразительно изображенные на страницах романа защитники родной республики движимы не только любовью к своему городу, в образе республики Флоренции угадывается вся Италия, страдающая от гнета иностранных захватчиков. Поэтому именно обращение к героическому прошлому Италии, по мнению автора романа, должно было воскресить в итальянцах национальную гордость, помочь раздробленной Италии обрести единство и независимость. Помимо сцен поединков и сражений романе представлена ключевая любовная линия, изображающая любовь храброго защитника республики, сына Никколо Макиавелли Вико и самоотверженной флорентийки Анналены. История чувств главных героев, показанная на фоне событий осады Флорентийской республики, проходит через весь роман, достигая своего логического завершения в финале произведения.
Данная книга соответствует четвертому уровню сложности, то есть максимально приближена к оригиналу. Чтобы ее прочитать, потребуется знание таких времен, как passato remoto, congiuntivo, condizionale. Для облегчения чтения в начале книги комментируются некоторые устаревшие формы, проставлены ударения. Но по мере углубления в текст романа пояснений становится меньше. В последних главах перед вами будет уже настоящий итальянский роман XIX века. Отдельно стоит отметить такие особенности авторского стиля, как, например, использование настоящего и прошедшего времен для описания событий в прошлом. Этот прием как бы погружает читателя в повествование. Во многих случаях используется непрямой порядок слов, что делает слог необыкновенно поэтичным. Данный текст представляет интерес не только с точки зрения истории итальянского языка и культуры, но также может весьма пригодиться при общении с итальянцами, говорящими на каком-либо диалекте.
Безусловно, словарь в конце книги окажет вам большую помощь в чтении. Ударения в нем обозначены черточкой под буквой[1].
Приятного чтения!
Автор-составительCapitolo Primo
Niccolò Machiavelli
Sceso il ponte, il pellegrino camminò per gran parte della via chiamata dei Guicciardini: già era prossimo alla fine del suo pellegrinaggio, quando gli parve vedere, e vide certo, una figura immobile davanti alla casa dell’amico. Si fa più appresso, più appresso ancora: quelle forme non gli sembravano ignote; esita nel ravvisarle, le ravvisa, e con tale una voce che svelava una piena immensa di affetto, una speranza adempita, forte sclamò: “Buondelmonti!”
Lo sconosciuto anch’egli, quasi desto per forza, balzava indietro gridando: “Alamanni!”
E l’uno nelle braccia dell’altro precipitava e sentiva sopra il suo cuore palpitare il cuore dell’amico col palpito più generoso che mai fosse concesso ai nati della creta. “E già tardammo anche troppo”, – soggiunse Luigi Alamanni; e così favellando[2] prese pel braccio il Buondelmonti e salirono. Non incontrarono nessuno nè udivano muovere passo o articolare parola: una lampada appesa alla volta della sala ardeva solitaria e prossima a morire. Percossi dallo insolito silenzio, si avvolgono per lunga serie di stanze prive di lume; alla fine giungono in parte dove vedono scaturire una striscia di luce; si accostano all’uscio ed aprono.
Niccolò Machiavelli giace[3] vicino all’ultima sua ora. Ora solenne nella quale l’anima, non bene uscita dalla spoglia mortale né ancora volata alle dimore celesti, sembra soffermarsi sopra la soglia dello infinito, esitante tra le gioie promesse e gli effetti goduti; colloquio misterioso fra il Creatore e la creatura che nessuna mente possa comprendere, nessuna lingua descrivere, forse di amore, forse di rabbia, ma certamente pieno d’ineffabile amarezza.
Un giovane di vaghe sembianze, genuflesso a canto il letto, si cuopre il volto con la destra abbandonata del moribondo e la bacia e tacito vi sparge sopra largo rivo di pianto: un dolore senza fine amaro si ostina a prorompere[4] urtandogli impetuoso le fauci; la pietà del moribondo stringe il giovane a comprimerlo, sì che si ripiega fremente a spezzargli sul cuore, e il corpo si agita tutto di scossa convulsa. A capo del letto, dalla parte diritta, sta un frate di volto severo, stringe le labbra tra i denti, guarda il moribondo e non fa atto di pietà o d’impazienza; se non che la fronte, con vicenda continua, ora gli si corruga ed ora gli si spiana; come i nuvoli sospinti dalla bufera davanti al disco della luna, tu puoi scorgere i pensieri procellosi che l’attraversano. Appié del letto occorreva un’altra figura vestita di corazza d’acciaro, con ambedue le mani coperte di manopole di ferro soprammesse al pomo della lunga spada; anche il suo volto rendeva decoroso largo volume di capelli cadenti, le guance rase e le labbra, la fronte purissima, dove avrebbe potuto, come sopra il santuario, deporre un bacio l’angelo della innocenza; e lui stesso sembrava un angelo che i credenti affermano vigilare intorno i letti dei giusti moribondi a respingere gli assalti dello spirito infernale. Lui, onde[5] cara e onorata cadesse la patria tra noi, disposero i cieli ad essere il martire della libertà, l’ultimo dei generosi Italiani. Machiavelli mosse le labbra e favellò:
“Io vi aspettavo: silenzio! Parole ho a dirvi degne che per voi si ascoltino, per me si favellino, né alla umanità né alla patria inutili affatto e per la mia fama necessarie. La natura mi chiama, ed io sto disposto a rispondere. Perché piangete? Chiamerà anche voi; e poichì la vecchiezza precede la morte, considero la morte pietà; io però bene devo ringraziarla di questo, che ella non volle chiudermi gli occhi, se prima non avessi contemplato il giorno della risurrezione; adesso sì che mi sento capace davvero d’invocare col cuore il nome di Dio, poiché la mia bocca, sopra la piazza della Signoria, davanti la faccia del cielo, ha gridato: Viva la libertà!… Silenzio! onde il senno dei tempi non vada disperso. Le schiatte umane passano come ombre; se non che, prima di ripararsi sotto il manto di Dio, nelle mani delle schiatte sorvegnenti consegnano la fiaccola della scienza: a guisa del fuoco sacro di Vesta, quantunque ella muti sacerdoti, pure arde sempre e cresce nei secoli nì ormai più teme vento di barbarie. Accostatevi e raccogliete le estreme parole, però che vi aprirò il mio pensiero come se fossi davanti al tribunale dell’Eterno. Voi, giovani, nei quali tutta speranza di salute riposa, restringetevi insieme; voi, Zanobi e Luigi, consigliate i nobili; voi, Dante da Castiglione (e il membruto della lunga barba rossa, sentendosi rammentare, si scosse come destriero al suono della battaglia), adoperatevi fra i popolani; badate a non lasciarvi sedurre dalle antiche rinomanze; a’ casi nuovi convengono uomini nuovi: se anima vive che valga a salvare Firenze, è certamente quella di Francesco Carducci; a me giova indicarvelo come il nostro palladio: molto mi conforta il pensiero che al nostro scampo basta non perdere, mentre ai nemici bisogna vincere.
A voi, carissimi, affido il mio nome; difendetelo voi; e se da alcuno udiete parola che rechi oltraggio alla mia memoria, più generosi di san Pietro, non vogliate negare il vostro maestro: dove il vitupero muova da uomo invidioso, tacete, imperocché all’odio della mia virtù si aggiungerebbe allora l’odio che nasce dal sentirsi dichiarato iniquo; ma dove comprendiate lui essere ingannato, ditegli animosi in mio nome: Nicolò Machiavelli non insegnò ai ricchi la roba, ai poveri l’onore, a tutti la vita: sappiate volersi un gran cuore per intendere un cuore grande”.
Piangevano tutti. I circostanti, il voto del moribondo adempiendo, si allontanarono dalla stanza; se non che ora l’uno, ora l’altro senza mostrarglisi, gli resero gli uffici estremi, finchì, aggravandosi il male, il giorno appresso 22 giugno 1527, quando pare che la campana pianga la luce scomparsa dal nostro emisfero, spirò la sua grand’anima Nicolò Machiavelli.
Capitolo Terzo
Il papa e l’imperatore
Seduti entrambi, Clemente VII da un lato, Carlo V dall’altro di una lunga tavola coperta di velluto cremesino a frangie d’oro, con le insegne della Chiesa ricamate in oro; e sovr’essa carte e pergamene di ogni maniera, brevi, diplomi e capitoli quivi spiegati, quasi museo e satira delle scambievoli loro insidie, alcuni col suggello di Spagna, alcuni colle armi dell’impero, parte con le palle dei Medici, parte ancora con la immagine di san Pietro che pesca e invano rammenta al superbo pontefice la povertà della chiesa primitiva di Cristo. L’imperatore continuava dicendo:
“La Francia è giglio fragile, e la mia aquila lo ha già sfrondato; se non m’ingannava un mal genio, tu a quest’ora saresti, o Francesco, uno scudiero nella mia corte imperiale; la mezza luna non tanto scintilla sublime nei cieli che non valga a raggiungerla il volo della mia aquila: leopardo inglese, dacché lasciasti comprarti le branche, apparecchiati a darmi la tua corona in cambio dei miei ducati; e tu, san Pietro, sappi che la mia testa ì capace di portare ancora… la tiara… Perché no? Massimiliano imperatore voleva farsi papa…”
“La morte! la morte!” – gridò più alto il pontefice negli orecchi all’imperatore.
“La morte! ” – proruppe Carlo V, – “che fa a me la morte? I codardi soccombono a questo pensiero, gli animosi lo portano come una corona di fiori. È meglio lasciare l’opera interrotta che non incominciata… I monumenti più grandi che il mondo conosca si devono al pensiero della morte – parlo delle Piramidi. La morte sta nelle mani di Dio, l’uso della vita in quelle dell’uomo. La mia anima abbisogna che la testa del suo corpo si posi nella vecchia Europa, il tronco in Africa e in Asia, i piedi in America. Io non anche percorsi la curva ascendente della mia vita, non giungo ancora a trent’anni; e se in questo punto mi toccasse la morte, come Cesare Augusto potrei domandare ai miei amici, ai miei nemici, a voi stessi: parvi ch’io abbia ben sostenuta la mia parte nel mondo? Le imprese da me fino a questo punto operate, se non possono la mia fama a quella di Alessandro Magno anteporre, bastano ad avvilupparmi in un sudario che mi salvi dal verme dell’oblio. Se adesso io morissi, il cuore mi assicura che gli uomini direbbero: meritava vivere di più. Papa Clemente, se voi moriste adesso, che cosa pensate il mondo fosse per dire di voi? Lui è vissuto troppo poco, o è vissuto anche troppo?”
Clemente tacque. Guardato prima con molta diligenza un taccuino che si cavò dal seno di sotto alla mezzetta, rispose:
“Più nulla”.
“A quando l’incoronamento?”
“I vostri ufficiali di cerimonie possono concertarne il tempo e le forme col maestro del sacro palazzo”.
“Addio, dunque, Beatissimo Padre”.
E Carlo disparve, le porte si chiusero, Clemente si trovò solo nella stanza. Allora, declinato il capo sul camino, meditò per lunghissima ora: all’improvviso si muove e si pone davanti alla sedia che occupò l’imperatore durante il colloquio:
“Carlo d’Austria!” – cominciò a dire alzando il dito e comprimendolo sopra l’angolo della tempia destra, “le libertà dei comuni di Spagna, i privilegi delle città dei Paesi Bassi, le prerogative degli Stati Germanici ti avviluppano dentro rete validissima. Tu ti sforzi con ogni ingegno per divorarli; bada, Maestà, il tarlo rodendo si scava la tomba. La tua potenza non uguaglia il tuo orgoglio, i vasti concetti della tua mente non posano sopra anima in proporzione vigorosa; se pieno di forza rassomigli al sole di estate, come quel sole ogni giorno il tuo spirito tramonta. Maestà, tu mi hai supplicato per ottenere dalle mie mani una corona; ah semplice che fosti! io sarei venuto in capo al mondo per offrirtela; prostrati, Maestà, umiliati, Perché mi tarda importi questa corona sul capo; io la circonderò di punte invisibili e angosciose, le quali ti penetreranno nel cranio scompigliandoti il pensiero, turbandoti del continuo la coscienza. Io ti adatterò la corona sul capo come il collare al collo dello schiavo; che importa a me di cingertene il collo, la mano, il piede o la testa? Non per questo tu diventi meno servo alla chiesa romana! Affrettati a prostrarti, Maestà: io m’innalzerò tanto, quanto tu l’abbasserai; e allorchì, Maestà, avrai baciato la polvere dei miei calzari, ti travaglierai indarno per dominarmi sul capo. Rendimi grande con la tua viltà e in processo di tempo se vorrai abbattere l’idolo che tu stesso avrai fatto grande, o non ci riuscirai, o rimarrai infranto sotto la rovina di quello”.
Capitolo Quarto
La incoronazione
Finalmente il santo padre cinse a Carlo le chiome della corona imperiale. Carlo allora, giusta le formalità, si prostrava curvandosi al bacio dei piedi santi. Era però convenuto che il papa non gli lascerebbe compiere l’atto, e rilevatolo a mezzo, lo avrebbe stretto tra le braccia e baciato nel volto. Ma come resistere alla compiacenza di vedersi innanzi prostrato un signore di tante provincie? Non tutti i giorni si trovano imperatori da rinnovare tale ossequio; e poi, Clemente lo aveva già detto, si sarebbe di tanto rialzato il sacerdozio quanto abbassato l’impero. Si dimenticava pertanto del convenuto: il coronato stette lunga pezza nell’attitudine dello schiavo: in quel punto la corona gli pesò sul capo come se fosse stata una montagna; allora gli parve che il mondo, poc’anzi da lui sorretto nella mano, adesso di tutto il suo peso gli gravitasse sul corpo: come il serpente della Scrittura, lui si nudrì di cenere e la sentì amara, senza misura amara; sicché il suo cervello, compresso dal pentimento, dalla umiliazione e dalla rabbia, stillò una goccia di sudore, la quale, come quella dell’anima dannata dello scolare apparsa al suo maestro di filosofia, secondo che racconta frate Jacopo Passavanti[6] nello Specchio della vera penitenza, avrebbe avuto virtù di traforare da una parte all’altra con insanabile piaga i piedi del pontefice, se per avventura ci fosse caduta sopra.
Fuori del tempio il popolo urlava, insaniva, fremeva a guisa di baccante scapigliata; Perché nessuna scintilla d’intelletto gli balenasse su l’anima, qui ì pane, qui copia di vino, camangiari e giullari. Sopra una colonna di marmo stava l’aquila imperiale; la quale da uno de’ suoi becchi versava vino rosso, dall’altro vino bianco, e giù intorno alla base della colonna vedevi prostesi uomini deturpati da oscena ubbriachezza. Sicché l’Alamanni[7] a questo spettacolo ebbe a dire: Ecco l’aquila imperiale rende oggi a spiluzzico alla gente italica il sangue che loro bevve a lunghi sorsi in tanti anni e le lacrime che le fece in copia versare; ma gliele rende stemperate nel veleno della stupidità.
Ahi! popolo, io che ho viscere di umanità e sono parte di te, conosco le tue miserie e le compiango. Bevi, procurati un sonno uguale alla morte; le tue gioie consistono nel non sentire i tuoi dolori. Ora tu sei condotto in piazza, come l’orso ammansito, per sollazzare i tuoi sovrani padroni.
Dalle finestre, dai terrazzi lui ordina che ti siano gettati pane e carne. Potessi cibarti per un anno e approvigionarti lo stomaco, come la cittadella che teme l’assedio, saresti meno infelice; ma domani l’insolito cibo ti recherà molestia, forse anche la morte. Feste, forni e forche; ecco la somma dei paterni argomenti con i quali ti governano i tuoi signori. Domani tornerai a logorarti nelle consuete officine, a bagnare di sudore i solchi dei campi; quivi travagliati da mattina a sera, e l’opera delle tue mani, il sudore della tua fronte devotamente consegna ai re e ai sacerdoti tuoi. Questi ti lasceranno la vita, ti lasceranno un pane, il cielo che ti copre e il sole che ti scalda… o che non basta? Indiscreto! Via, ti lasceranno tanto spazio di terra da riporci dentro le tue ossa, perché non le rodano i cani, ed ancora perché morto tu col fetore non gli offenda dopo che vivo tanta recasti loro gravezza e molestia.
Capitolo Quinto
Papa Clemente VII
Clemente papa ora se ne sta ridotto nella stanza più riposta del suo palazzo: essa[8] era di forma ottagona con bellissime colonne di ordine ionico. Da quattro lati ci fanno capo altrettante porte di rare modanature come sapeva condurre la eccellenza dell’arte così comune in quei tempi; gli altri sodi appariscono ornati di quadri rappresentanti martiri di santi, membra segate, capi fessi, brindelli laceri, che infondono, piuttosto che riverenza, ribrezzo; intorno all’architrave superiore si innalza una parete che gli architetti chiamano tamburo, e sul tamburo una cupola elegante a imitazione delle forme immaginate dal divino Brunellesco. Il servo andasse ad aprire la porta, dicendo:
“Ecco gli oratori fiorentini.”
Si apersero le porte, e comparvero Nicolò Capponi, Luigi Soderini, Jacopo Guicciardini e Andreuolo di messer Otto Nicolini, oratori del comune di Firenze. Giunti appena che furono al Pontefice, e si prostrarono al bacio dei santi piedi: ma Clemente, rilevandoli con la voce e con i gesti favellava:
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Примечания
1
В электронной версии книги ударные гласные выделены жирным или жирным курсивом (в словаре) – прим. верстальщика
2
= così dicendo; favellare = dire.
3
giacere = stare (лежать)
4
prorompere = dire (воскликнуть)
5
onde = affinché
6
Jacopo Passavanti (1302–1357) – uno scrittore e architetto italiano
7
Luigi Alamanni (1495–1556) – un poeta, politico e agronomo italiano
8
essa – la stanza
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