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Personale Sanitario In Tempi Di Pandemia. Una Prospettiva Psicologica.
Personale Sanitario In Tempi Di Pandemia. Una Prospettiva Psicologica.
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Personale Sanitario In Tempi Di Pandemia. Una Prospettiva Psicologica.


Sebbene quanto sopra non ci consenta di stabilire delle distinzioni in termini di criteri di efficienza, qualità delle cure offerte, facilità di accesso o soddisfazione degli utenti rispetto al servizio ospedaliero in ciascun paese e in particolare in Spagna, ciò offre una panoramica della forza o, al contrario, della debolezza che dipendono dal materiale e dalle risorse umane disponibili prima dell’inizio della crisi sanitaria globale.

Per quanto riguarda la qualità delle cure, si deve tenere presente che di norma quando una persona è ospedalizzata, vuoi per un’operazione imminente o per riprendersi da un trauma o da un intervento, rimane nella struttura per giorni o addirittura settimane. In questo “breve” periodo di tempo, viene seguita dal personale sanitario al completo, con un primario specialista che supervisiona i progressi del paziente.

Sebbene sia accertato che l’assistenza può essere buona in ospedale, a volte i pazienti e i familiari possono lamentarsi della “freddezza” del personale, in quanto fanno sì il loro dovere ma a volte interagiscono il meno possibile con il paziente e i parenti.

Ciò perché un tale rapporto è interpretato come superfluo e in alcuni casi addirittura dannoso per il corretto funzionamento dell’ospedale, che considera prioritariamente i progressi fisici del paziente a scapito di quelli emotivi. Tuttavia, in alcuni centri sanitari si lavora a stretto contatto con gli psicologi clinici, che addestrano il personale sanitario a relazionarsi e comunicare in modo appropriato con i pazienti.

Soprattutto nel caso in cui è necessario dare “cattive notizie”, bisogna agire con cautela e sapere come affrontare le reazioni negative dei pazienti, che possono oscillare tra la depressione e gli scoppi d’ira.

Ma sebbene sia vero che sapere come comunicare è importante, tuttavia ciò non è sufficiente per una relazione medico-paziente di qualità, quindi cosa si dovrebbe fare per migliorare l’assistenza ai pazienti?

Questo è ciò a cui si è cercato di rispondere attraverson uno studio condotto dal Nursing Care Research Center, la School of Nursing and Midwifery, insieme all’ospedale Firoozgar dell’Università di Scienze mediche dell’Iran; il Centro di ricerca e medicina cardiovascolare Rajaie dell’Università dell’Iran di scienze mediche; e Teheran University of Medical Sciences (Iran) (Khaleghparast et al., 2016).

Si è trattato di uno studio di tipo qualitativo in cui sono stati intervistati 51 utenti ospedalieri, tra pazienti, parenti e personale sanitario.

L’argomento del colloquio semi-strutturato riguardava le politiche di visita medica del centro, prestando particolare attenzione al confronto tra politiche restrittive e politiche aperte.

Per quanto riguarda le politiche restrittive per l’assistenza ai pazienti, esse sono regolate da una pianificazione prestabilita per la visita del personale sanitario, in cui sono fissati sia l’ora della visita sia l’ora della visita.

Nel caso delle politiche aperte, invece, non esistono orari di visita, né vi è alcuna restrizione sul tempo trascorso con il paziente.

Le risposte di tre gruppi, pazienti, parenti e personale sanitario, sono state classificate e poi analizzate. Quindi, per quanto riguarda le politiche restrittive i risultati evidenziano il vantaggio di evitare il caos, di garantire visite mediche anche a pazienti che non desiderano essere visitati, un maggior controllo delle infezioni, una maggiore stabilità e regolarità del personale; tra gli svantaggi, si rileva una mancanza di “connessione” emotiva, una scarsa conoscenza dii informazioni sulle condizioni del paziente e tempi dii visita specialistica molto brevi.

All’opposto, nel caso delle politiche aperte, tra i vantaggi si annoverano la riduzione dello stress nel paziente e l’aumento del suo senso di sicurezza, un’assistenza alle famiglie durante la cura del paziente, nonché una migliore informazione ai parenti e al paziente stesso e la creazione di un clima migliore nella relazione medico-paziente. Tra gli svantaggi, la violazione della privacy del paziente e l’interferenza esterna durante il trattamento sanitario

Come sottolineato dagli autori, sono necessarie nuove ricerche prima che si possano trarre conclusioni a riguardo, principalmente a causa del numero ridotto di partecipanti allo studio e della metodologia qualitativa utilizzata. Nonostante ciò, va notato che le politiche restrittive garantiscono la visita di un medico una volta al giorno; qualcosa che viene percepito come insufficiente sia dai i pazienti che dai familiari. Allo stesso modo, il personale sanitario si sente più a suo agio nelle politiche aperte, in quanto senza perdere la propria dignità professionale può offrire ai pazienti un’assistenza più personalizzata e di migliore qualità.

Nonostante i vantaggi esposti dell’uno o dell’altro sistema, bisogna tenere presente che l’applicazione di questi risultati a un centro sanitario dipenderà molto dalle sue dimensioni; quindi le politiche aperte sembrano più adatte a un centro sanitario di dimensioni medio o piccolo dove il personale può concedersi un “tempo di qualità” con i propri pazienti senza l’obbligo di rispettare un programma rigoroso, mentre in centri più grandi, dove il numero di pazienti per medico è elevato, il sistema migliore sarebbe quello delle politiche restrittive, affinché venga garantita l’assistenza minima ad ogni paziente.

Malgrado ciò dovrebbe essere tenuto nel giusto conto la richiesta espressa da parte dei pazienti e dei loro familiari che il personale sanitario non perda il “calore” delle relazioni umane durante il periodo di assistenza, siano esse restrittive o aperte. In altre parole, e tornando al senso originario di questo paragrafo, questi sono i dati riguardanti le risorse umane del personale sanitario, intese come medici e infermieri, nonché le risorse materiali, intese come il numero di posti letto disponibili, indipendentemente da altri fattori come la qualità dell’assistenza sanitaria o la presenza o meno di sofisticate attrezzature tecnologiche.

Per conoscere questi altri aspetti, è necessario utilizzare l’Health Consumer Powerhouse Ltd, che pubblica annualmente l’Euro Health Consumer Index, che tiene conto di 46 indicatori raggruppate in settori specifici, come i diritti dei pazienti o le informazioni ricevute, stabilendo da ciò una classifica dei sistemi sanitari presenti in Europa. In base ai dati raccolti sembra che il miglior punteggio nella classifica del 2018 lo abbiano avuto la Svizzera, i Paesi Bassi e la Norvegia, mentre il peggior punteggio è stato assegnato all’ Albania, alla Romania e all’ Ungheria (Health Consumer Powerhouse Ltd, 2018) (vedi Figura 4).

Anche con tutti i dati in nostro possesso, non è possibile stabilire a priori quale paese resisterà meglio ad una crisi.sanitaria, poiché in tali circostanze le risorse disponibili in termini di personale e numero di posti letto possono essere più rilevanti rispetto ai risultati in termini di soddisfazione dei diritti del paziente o delle informazioni che essi ricevono…

Foto 4 Ranking Sistema Sanitario in Europa

Inoltre, e insieme a quanto sopra, si deve tenere presente che i governi stanno implementando una serie di misure che fanno sì che il numero di pazienti che necessitano di assistenza arrivi gradualmente ai servizi sanitari, in modo che l’avanzamento “controllato” di una malattia possa essere gestito coerentemente da un’assistenza sanitaria con risorse “adeguate” Tuttavia un “picco” di contagio, e quindi di pazienti che richiedono il ricovero in ospedale, può causare il collasso di qualsiasi sistema sanitario, non importa quanto sia ben strutturato.

Riguardo il COVID-19

Nonostante si tratti di un nuovo virus, si sa già abbastanza su COVID-19, a partire dalla famiglia di appartenenza e dalle caratteristiche di questo Coronavirus (@CSIC, 2020) (vedi Figura 5)

Informazioni che sono state ottenute grazie al coinvolgimento di numerosi laboratori di ricerca e delle università in tutto il mondo , e al fatto che per la prima volta si è riusciti a mappare la sequenza genetica del virus , informazione poi offerta ufficialmente dalla Cina al fine di trovare un trattamento efficace per controllare la malattia.

Questi due fattori hanno permesso di condurre diverse sperimentazioni in tutto il mondo al fine di rallentare l’avanzata del virus e, soprattutto, per ridurre il tasso di mortalità.

L’ O.M.S. ha fornito molte risposte riguardo la natura del COVID-19, quali sono i suoi sintomi, come si diffonde o qual è il tasso di guarigione e di mortalità tra i pazienti infetti. (O.M.S., 2020b).

Nonostante ciò, molti aspetti per i quali non abbiamo risposte sono oggi ancora in fase di studio, in particolare quelli concernenti un trattamento efficace della malattia, sia preventivo che terapeutico.

Foto 5 Il nuovo #coronavirus si chiama SARS-COV-2 e causa la malattia denominata COVID-19 (Coronavirus Disease 2019)

Nell’immagine, il virus della famiglia dei Coronavirus di cui fa parte il nuovo coronavirus. (Foto presa dal virologo Luis Enjuanes (@CNB_CSIC)

La denominazione del COVID-19

Uno dei problemi degli psicologi sociali è raggiungere la fedeltà dei clienti nei confronti di un marchio, che è quello che comunemente utilizziamo per identificare una determinata persona, prodotto o azienda.

Normalmente quando pensiamo a un’azienda come la Coca-Cola, McDonald o l’Ikea, di solito lo facciamo in relazione ai prodotti che vendono. Se guardiamo ad altri marchi come U.P.S., Iberia o Microsoft, lo facciamo sui servizi che offrono.

Un qualcosa che influenzerà in modo decisivo l’acquisto del prodotto o del servizio in questione, non solo sulla base dei nostri criteri, ma anche in merito all’opinione altrui e del condizionamento dei media attraverso la pubblicità.

Allo stesso modo, quando pensiamo a Stephen Hawking, Barack Obama o Rafael Nadal non lo facciamo più in base ai prodotti o ai servizi, ma per il loro marchio personale, che hanno sviluppato grazie alle loro carriere scientifiche, politiche o sportive; ciò significa che gli aspetti emotivi ad un marchio possono essere riferiti anche a una persona, a un’ azienda e persino a una località.

Bene, la stessa cosa accade quando si deve dare un nome alle “calamità naturali”, ad esempio quando si tratta di appellare i cicloni tropicali che ogni anno tormentano gran parte dei Caraibi e del Nord America.

Come riportato dall’Organizzazione meteorologica mondiale (2020), questi nomi seguono elenchi prestabiliti che ruotano, lasciando però nel nome molti degli effetti disastrosi dell’uragano Katrina del 2005 o di Ike del 2008.

Quindi, in linea di principio, questi nomi non hanno alcuna relazione con la data in cui il fenomeno si verifica, la sua violenza o le aree più colpite, non ci sono motivi specifici per cui possono venire chiamati in Inglese o in Spagnolo (ad esempio, rispettivamente Barry o Gonzalo), oppure con nomi maschili o femminili (ad esempio, Lorenzo o Laura). Tuttavia, può il nome dei cicloni tropicali avere qualche tipo di impatto sulla popolazione?

Questo è ciò che si è cercato di capire attraverso un’indagine condotta dal Dipartimento di Amministrazione e Società, in collaborazione con il Dipartimento di Psicologia, il Communications Research Institute e l’University of Illinois Research Laboratory per la ricerca su donne e genere, e al Dipartimento di Statistica dell’Arizona State University (USA) (Jung, Shavitt, Viswanathan e Hilbe, 2014).

Lo studio ha analizzato le conseguenze climatiche degli uragani negli Stati Uniti avvenuti negli ultimi sei decenni, differenziandoli in base ai nomi maschili e femminili. Ciò che si è scoperto è innanzitutto che quelli a cui erano stati dati nomi femminili erano quelli che avevano causato maggiori effetti distruttivi e morti tra la popolazione.

Si ricordi che l’elenco dei nomi è prefissato e che quindi la modalità per appellarli è di tipo consecutivo, così a priori non c’è relazione tra il genere maschile o femminile del nome e la sua violenza. E’ quindi estremamente sorprendente il risultato dello studio, in cui sono stati sottoposti a 346 partecipanti una lista di nomi di uragani, 5 maschili e 5 femminili, per valutare, con una scala tipo Likert da 1 a 7, fino a che punto ciascuno degli uragani sulla lista fosse considerato violento.

I risultati mostrano che gli uragani a cui era stato dato un nome maschile tendevano a essere classificati come più distruttivi degli uragani a cui era stato dato un nome femminile, indipendentemente dal sesso dei partecipanti.

Ciò ha permesso di capire perché a volte gli avvisi delle autorità e i nomi che vengono assegnati alle misure preventive, se maschili o femminili, condizionano più o meno la popolazione.

D’altra parte, il nome delle malattie coniato in ambito sanitario deriva da abbreviazioni che sono correlate ad alcune caratteristiche identificative del sito, della sintomatologia o delle sue conseguenze. Così, già nell’ambito della famiglia dei coronavirus, ci sono stati in precedenza vari focolai, come il SARS-CoV che si è manifestato in Cina nel 2002, le cui iniziali indicano il Coronavirus della sindrome respiratoria acuta grave sualla base della sua sintomatologia; il MERS-CoV emerso in Arabia Saudita nel 2012 e le cui iniziali in inglese si riferiscono alla sindrome respiratoria del Medio Oriente Coronavirus, quindi con chiare indicazioni della sintomatologia e del luogo di origine del suo esordio; mentre per il COVID-19 che sembra sia nato in Cina nel 2019, il suo acronimo in inglese indica solo il nome generico del ceppo del virus, senza fare alcun accenno alla sua sintomatologia o al luogo geografico in cui esso si è manifestato la prima volta.

Si tenga presente che il termine COVID-19 non è stato il primo ad essere utilizzato per questa malattia, ma è il termine modificato e reso pubblico quasi due mesi dopo il primo caso segnalato all’OMS, il che ha portato alcuni ad affermare che le motivazioni di questa modifica, col fine di dare al virus un nome “ufficiale”, nascessero dalla necessità di evitare le conseguenze economiche negative dell’associazione del nome alla malattia nei confronti di una regione o una popolazione. (@radioyskl, 2020) (vedi Figura 6).

Foto 6. Tweet Denominazione del COVID-19

Foto 6 il Presidente dell’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS) Tedros Adhanom Ghebreyesus, che annunciò il cambiamento di nome della malattia in COVID-19. Un morbo che aveva già causato la morte di 1.000.000 di persone.

“Il primo vaccino ”potrebbe essere disponibile in 18 mesi.”

L’obiettivo è evidente: quello di eliminare i termini “virus cinese” o “virus Wuhan”, che indicano chiaramente l’epicentro dell’infezione.

Un atto di deferenza verso la Cina che alcuni operatori sanitari osteggiano, in quanto non è stato utilizzato uguale rispetto nei confronti di altre popolazioni, come nel caso della sindrome respiratoria mediorientale Coronavirus.

Nonostante sia stato dato al virus il nome ufficiale di COVID-19, la popolazione ha continuato a usare i nomi di Virus Cinese e in particolare Coronavirus per informarsi sui sintomi, sulle misure di prevenzione o sulla diffusione della malattia, e probabilmente è ancora troppo presto per capire il motivo per cui il tentativo di dare un nome ufficiale è “fallito”.

Va tenuto presente che per creare un nuovo marchio e farlo aderire ad esso, è necessario affrontare una serie di variabili, come riscontrato in uno studio condotto dalla Taylor University (Malesia) (Poon, 2016.) che aveva l’obiettivo di comprendere le motivazioni del maggior successo di un marchio rispetto agli altri. Per fare ciò è stato selezionato un elenco di cinquanta prodotti giornalieri tra i più venduti di due principali società di marketing, per verificare l’impatto del marchio.