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La Tragedia Dei Trastulli
La Tragedia Dei Trastulli
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La Tragedia Dei Trastulli


“Quattro.”

“Continui, signora.”

“Il telefono del primo ha squillato…”

“…nome e indirizzo?”

“Mario, Mario Rollini, abita in corso Francia, vive solo, almeno secondo il foglio di famiglia che i dipendenti ci rilasciano per gli eventuali assegni familiari. Non so a che numero abiti, in ditta l’abbiamo, ma a memoria non ricordo, so che è quasi in piazza Bernini.”

“Va bene, non importa, lo troviamo noi. Quindi?”

“Dicevo che il suo telefono ha squillato a vuoto.”

“Gli altri?”

“Ho chiamato per secondo Cesare, Cesare Chiodi di preciso. Abita in via Don Bosco con la moglie. C’era, ma mi ha detto di non aver fatto caso a quale direzione avesse preso mio marito. Il terzo commesso, Amilcare Nobis, invece lo sapeva, l’aveva visto dirigersi proprio verso corso Valdocco e io avevo capito che aveva preso la solita strada. Nemmeno Umberto c’era, intendo Umberto Ronzi di Valfenera che è figlio del generale amico di mio marito: Marta, la sua mamma, era a casa da sola e m’ha riferito che il marito sarebbe rientrato tardi, perché aveva dovuto trattenersi al suo comando di brigata e, quanto al figlio, l’aveva chiamata da un bar informandola che non sarebbe rincasato subito.”

“Motivo?”

“Perché avrebbe mangiato in pizzeria con un compagno dell’ultimo anno delle superiori incontrato per strada, uno ch’era stato suo amico e s’era trasferito a Milano dopo il diploma: era solo di passaggio a Torino e avevano deciso, sul momento, di fare una breve rimpatriata mangiandosi assieme la pizza.”

“Quel vostro Umberto ha un diploma di maturità, a quanto ho capito.”

“Sì, è ragioniere, l’assumemmo tre anni fa per un favore al padre.”

“Come contabile?”

“No, come commesso. La contabilità la tiene mio figlio” – aveva indicato Clemente –: “Umberto ha il diploma ma preso col minimo dei voti a ventidue anni, dopo diverse bocciature, per cui non solo non aveva poi superato l’esame per l’ammissione all’Accademia Allievi Ufficiali di Modena, come suo padre avrebbe voluto, ma non gli era riuscito nemmeno di trovare un qualsiasi impiego ad altezza diploma. Bisogna però dire che come venditore è bravo, ha una buona parlantina.”

“Chi sa che delusione, per il padre, non vederlo indossare la divisa come lui.”

“Senza dubbio, brigadiere, conosco bene il generale, mio marito e io cooperammo con lui nella lotta di Liberazione.”

“Lei era partigiana, signora?”

“Sì. Il generale aveva chiesto a mio marito se avesse un posto da commesso per il figlio, e allo stupore d’Aristide che lo sapeva ragioniere, gli aveva rivelato come stavano purtroppo le cose: Umberto, fallito il concorso d’ammissione all’Accademia, aveva dato quello interno d’una banca, un istituto di diritto pubblico, per cui per entrare si deve superare un concorso, ed era stato bocciato. Così pure alle Poste. Alla FIAT, poi, non era stata presa nemmeno in considerazione la sua domanda scritta d’assunzione, nemmeno gli avevano risposto. Così…”

“…così il generale aveva pensato a voi. L’indirizzo preciso di quella famiglia?”

“Vivono in via del Carmine, in un bel palazzo quasi di fronte alla chiesa, l’appartamento è di loro proprietà, molto grande, coi soffitti alti quattro metri, al piano nobile, io non ci sono mai stata ma lo so da mio marito ch’è invitato sovente a cena dal generale e dalla moglie. Comunque, in ditta abbiamo il numero della via: il nostro Umberto abita coi genitori.”

“Lo troviamo noi. No, piuttosto, hanno ancora qualche notizia utile al ritrovamento?”

“No”, avevano risposto all’unisono i tre.

“Mi dicano però in che stato d’animo fosse lo scomparso oggi e negli ultimi giorni.”

Aveva parlato la signora Iride: “Diciamo… che non era molto in forma.”

“Più precisamente?”

“Era agitato e si sentiva debole: siamo inquieti.”

“Cause dell’agitazione e dell’astenia potrebbero essere preoccupazioni sul lavoro?”

“Oh, no, il lavoro va benissimo.”

“Pure in casa tutto bene?” aveva ancora chiesto: “Scusi la domanda, è necessaria: litigi?”

“No, no, ci mancherebbe altro” Va tutto bene.”

“Quindi non hanno idea dei motivi dell’inquietudine del loro congiunto?”

Assieme: “No”. “No. “No”.

Anche le sparizioni erano di competenza della nostra Sezione omicidi e reati contro la persona, potendo implicare fatti di sangue, perciò il giorno seguente, prima di smontare, il brigadiere Pitrini aveva portato, secondo la prassi, nell’ufficio del commissario capo D’Aiazzo e mio l’esposto dei Trastulli, insieme a un paio d’altre denunce della notte, perché all’arrivo il superiore li smistasse a commissari suoi dipendenti.

Io ero già in ufficio e il collega, lasciata sulla scrivania di Vittorio la sua pila di cartelle e indicatami con l’indice destro quella in cima, m’aveva detto: “Questi qua stanotte hanno denunciato la scomparsa del marito e padre, però non mi sembravano granché tesi. La moglie ha affermato ch’erano inquieti, e può anche darsi, ma a me non è parso che lo fossero granché. Non so, forse è stata solo una mia impressione falsa, in effetti c’è gente che sa trattenersi esternamente, mentre dentro soffre moltissimo. Però penso sia bene dirlo al capo. Io sto smontando, glielo riferisci tu?”

“Sì.”

Aveva ancor voglia di parlare: “Sarò forse maligno, ma mi sa che quelli sono interessati ai loro affari d’oro più che alla scomparsa del famigliare.”

“Te l’hanno detto loro che fanno affari d’oro?”

“Più o meno, con altre parole.”

Quando il collega era uscito, avevo aperto la pratica distrattamente. M’era saltato agli occhi che la famiglia abitava all’indirizzo del mio amico e che si chiamava Trastulli, e m’era dunque tornato alla mente quel Natale del 1961 in cui l’avevamo incontrata al ristorante.

FOTOGRAFIA FUORI TESTO

Vecchio centralino e sala operativa della Questura anni ‘50-60 del XX secolo, Archivio fotografico della Polizia di Stato


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