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Il Mostro A Tre Braccia E I Satanassi Di Torino
Il Mostro A Tre Braccia E I Satanassi Di Torino
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Il Mostro A Tre Braccia E I Satanassi Di Torino


Ricordando che non avevo un mandato, m’ero contenuto e avevo replicato con calma: "Sono il vice brigadiere Velli. Mi facciano salire: devo parlare con la signorina Mariangela. È per l'aggressione."

"Ah... sì: primo piano, scala B come Bologna."

Stavo per entrare quando un uomo sulla cinquantina se n'era uscito dal palazzo lesto guardando per terra. Era grosso, calvo, alto e aveva un accenno di gobba. Un lampo e l’avevo bloccato, mostrando il tesserino: "Documenti!" Forse avevano tardato ad aprirmi per consentirgli d'uscire?

M’aveva chiesto spontaneo, in accento siciliano stretto: "Pe'cché mai, che fici?! Niente di niente fici!"

"Non discuta: documenti!" Prudenzialmente, posando la destra su di un fianco, sotto la giacca, l’avevo avvicinata alla pistola che tenevo alla cintola mentre con la sinistra avevo preso la carta d'identità dell'uomo.

Era risultato un commerciante ambulante, domiciliato nel palazzo. Il cognome, Gargiulo, non corrispondeva a quello di Mariangela; ma poteva trattarsi d'un parente d’acquisto.

"Mi conduca nel suo appartamento."

"...ma commissario..."

"Sono vice brigadiere. Non si preoccupi, stiamo conducendo un'indagine… Insomma, interroghiamo tutti nella zona."

S’era calmato: “Guardi che noi siamo brava gente.”

Secondo i dipendenti del Benvenuto, l'aggressore pronunciava con accento piemontese; ma sapevo ormai per esperienza quanto le testimonianze, tante volte, fossero fallaci, sia pur involontariamente. D'altronde, il picchiatore aveva detto pochissime parole. Oltretutto avevo notato una cicatrice sulla fronte dell'uomo, anche se molto corta e verticale, sopra il naso, non lunga e orizzontale.

Non avevo alcun diritto di comportarmi così: avrei potuto solo controllare i documenti dell'uomo e lasciarlo poi andare per la sua strada.

Avevamo preso l’ascensore fino al sesto piano.

Una volta nell’alloggio, avevo chiesto di radunare tutti i membri della famiglia perché avevo qualche domandina da fare. I Gargiulo dovevano passarsela piuttosto bene; infatti un apparecchio televisivo, e addirittura di 21 pollici e non di 17, roba da ricchi nel 1959, faceva bella mostra nel tinello dove c’eravamo riuniti: io, il padrone di casa, la moglie, signora bassa e sfasciata sulla cinquantina, e tre ragazzi dai quindici ai vent'anni, coadiutori del padre nei mercati.

"Ci siete tutti?"

"Sì", aveva risposto la madre.

"…e dei vostri parenti, quei Ranfi del primo piano, cosa mi sapete dire?"

"Parenti?!" s’era stupito l'uomo; "ma se non li conosciamo neppure!"

"Non mi vorrà mica dire che abitate nella stessa casa e non li avete mai visti?!"

"Sì, visti sì", aveva risposto per lui la moglie, "ma così, buongiorno e buonanotte; ecché, male ficero?"

"Prima, dove stava andando?" avevo chiesto al capofamiglia senza rispondere alla domanda.

"Eh! e dove avevo da andare?! Dagli amici al bar, come sempre. Così... per quattro chiacchiere amichevoli e un aperitivo prima di cena."

Avevo abusato anche troppo e avevo deciso di congedarmi. Avevo ancor detto, rivolto alla signora: "A proposito della sua domanda, i Ranfi non hanno fatto alcun male." Avevo ringraziato e avevo preso a scendere a piedi verso l'appartamento di Mariangela.

"Scassaminchia", avevo sentito giungere dall'alloggio, ormai chiusa la porta: era la voce della donna.

Era stato Nicola, il padre di Mariangela, a rispondere al citofono: grasso ma dall'aspetto sofferente, occhi segnati e viso esangue, era senza gambe e si spostava su di una seggiola a rotelle. Non appena sua moglie, Annachiara, m'aveva introdotto in cucina, l'uomo, ch'era ancora accanto alla pulsantiera, m’aveva detto in un fiato, come se non avesse aspettato altro in vita sua: "È la fabbrica che mi ridusse così: un incidente sul lavoro che si poteva evitare, se solo avessero..."

"…son cose che al signore non interessano", l’aveva zittito la moglie, una donna piacente, alzando brevemente gli occhi al soffitto; poi, rivolta a me: "Possiamo offrirle un caffè, brigadiere?"

"No, grazie: non ho ancora cenato."

"Allora, un aperitivo." Aveva messo un'altra sedia a tavola e guardando per un attimo il marito m’aveva detto: "Se permette, brigadiere, adesso lui va di là a sentire la radio. Lei invece, si segga qui tra noi"; e senz'altro aveva preso la bottiglia dalla ghiacciaia, un aperitivo dozzinale, e aveva cominciato a versare mentre il coniuge iniziava ad allontanarsi, farfugliando: "Meno male che m'hanno dato la pensione d'invalidità! Se no, chi sa come farebbero qui in casa."

"Meno male che mia figlia lavora e che io faccio le ore tutto il giorno", m’aveva sussurrato la padrona di casa, senza curarsi che il consorte, appena oltre la porta, potesse udirla; e porgendomi il bicchiere: "Modestamente, ce la passiamo abbastanza da signori."

M'ero accomodato, dopo aver stretto la mano a Mariangela che sedeva a tavola. Dovevano appena aver terminato cena perché i piatti coi resti della frutta erano ancora lì.

"La famiglia è tutta qui?" avevo chiesto alla ragazza, mentre la madre si sedeva a propria volta.

"Sì."

"Altri parenti, qui a Torino?"

"L'unico parente è mio marito", era intervenuta Annachiara.

"Non capisco."

"No, non nel senso ch'è mio marito, ma in quello che siamo lontani cugini. Venimmo su tanti anni fa."

"Avevamo fatto il guaio!" s'era intromessa dall'altra stanza la voce di Nicola che, evidentemente, stava ascoltando tutto: "Io avevo solo tredici anni, modestamente! e lei pure. Era il '41. Eravamo scappati dalla Puglia qui a Torino. Volevano ammazzarci, i suoi e i miei! Lei aveva già Mariangela nella pancia, capisce?" Era seguita una risatina stridula.

La moglie era divenuta paonazza: "Non gli dia retta: dopo l'incidente è diventato un po'... strano."

"Almeno", era di nuovo arrivata la voce del consorte, "non s’era poi dovuto pagare per i festeggiamenti: matrimonio qui a Torino, una volta raggiunta l’età di legge. Matrimonio da poveri!"

Annachiara aveva voluto precisare: "Tanti sacrifici, brigadiere. Dato che molte braccia erano al fronte, Nicola aveva trovato posto da un artigiano, senza contributi, naturalmente, e per poche lire. Io ero stata presa come cameriera della sua signora, soli vitto e alloggio. Quando s’erano accorti ch'ero incinta, avrebbero voluto mandarmi via; poi avevano avuto compassione e…"

"…no! gli conveniva continuare a sfruttarci": questa volta il tono di voce dell’uomo era adirato.

"Insomma, la padrona m’aveva aiutata a partorire, lasciando che tenessi con me la bambina invece di farmela affidare a un orfanotrofio. Nicola dormiva sopra una branda in un angolo del laboratorio, io con Mariangela nella soffitta di casa; ma c’era la guerra, di notte era quasi più il tempo in cantina per gli allarmi che quello a letto. L’abbiamo potuta riconoscere come nostra, la bimba, solo dopo il matrimonio. Per le pratiche ci aiutò l’avvocato d’un sindacato, perché c’erano complicazioni, dato che non avevamo denunciato la nascita: s’era basato su cose come la guerra, i bombardamenti e le famiglie divise."

S'era intromessa ancora la voce del marito: "La guerra era finita appena in tempo, se no finivo soldato."

"Eravamo stati dall’artigiano ancora per molto, finché nel 1949 avevano preso mio marito nell’industria; e lì, quattro anni fa, gli è successa la disgrazia." Qui Annachiara era venuta al dunque: "Brigadiere, doveva chiedere qualcosa a Mariangela?" e s’era messa senz'altro a sparecchiare: "Mi scusi, lavo subito i piatti e poi me ne vado a dormire, perché oggi è stata una giornata..."

Sapevo ormai quanto m'interessava, ma per giustificare la mia visita avevo rivolto qualche domanda alla ragazza; e ne avevo avuto una sorpresa.

"…dunque", avevo chiesto, "cosa sa dirmi, più di preciso, del suo datore di lavoro?"

"Ch'è... un santo."

"Addirittura", m’ero meravigliato: "Pare che i suoi colleghi non siano molto d'accordo con lei."

"Stamattina non ho osato dire niente: loro ce l'hanno con lui semplicemente perché è il padrone, e anche con me perché gli tengo un poco le parti."

"Lo ha in simpatia?"