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L’ira Dei Vilipesi
L’ira Dei Vilipesi
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L’ira Dei Vilipesi


I poliziotti fedeli a Mussolini, un commissario e una decina fra agenti, graduati e sottufficiali, sotto il diretto controllo del questore erano stati disarmati e rinchiusi, rispettosamente ma sotto scorta armata, nelle camere di sicurezza. Il Pelluso s’era informato se ci fossero già altri reclusi in quelle stanze e aveva saputo che l’unico in guardina era un certo, vero o presunto, Gennaro Esposito, sospettato dell’assassinio d’una prostituta di nome Rosa Demaggi. Sul volto del questore era apparso gran disappunto.

Negli stessi minuti, Vittorio D’Aiazzo stava uscendo di caserma attraverso il passo carraio, al comando d’una vecchia, obsoleta autoblindo della Questura. Egli si considerava in pectore un demoliberale cristiano anche se, gettata la tessera fascista il 25 luglio, non aveva aderito né al partito cattolico né a quello liberale e, a differenza del questore Pelluso, non aveva preso contatti con uomini della neonata Resistenza; d’altro canto, era stato così per la gran maggioranza di quegl’italiani che avrebbero poi combattuto il nazifascismo, per oltre un anno e mezzo, sino alla fine della guerra.

Con Vittorio D’Aiazzo era salito sull’autoblindo, anche se provato come lui per la notte insonne, il brigadiere Marino Bordin, uomo animoso benché rozzo il quale, pur non avendo idee politiche, nutriva profondo astio per i tedeschi a causa della loro boria sprezzante verso gl’italiani. Erano inoltre montati sul corazzato due agenti, tali Tertini e Pontiani, e alla guida s’era posto il maresciallo ordinario Aroldo Bennato, capo meccanico dell’autofficina della Questura, tutti e tre freschi, dopo una notte di riposo, e appena montati in servizio.

L’autoblindo, o precisamente autoblindomitragliatrice com'era catalogata, era un arnese della 1a guerra mondiale Ansaldo Lancia IZ dotato di tre mitragliere pesanti da 7,92 millimetri Maxim. Solo questo blindato e due consimili non erano stati confiscati alla Questura dagli occupanti, essendo stati giudicati non più utilizzabili perché obsoleti, a differenza delle più moderne autoblindo 611 FIAT 1934/35 e AB FIAT 1940/43 che i carristi teutonici avevano incamerato ben volentieri fra i loro mezzi corazzati. L’Ansaldo Lancia IZ era un modello lento e mal manovrabile. Aveva però una notevole potenza di fuoco, tanto che, entrato in servizio alla fine della 1a guerra mondiale, aveva fatto immediati sfracelli tra gli austriaci; inoltre, contrariamente a quanto dovevano aver pensato i tedeschi, le tre auto corazzate gemelle erano state tenute in perfetta efficienza grazie a revisioni periodiche del capo officina e dei suoi meccanici e, per le mitragliatrici, degli armieri.

Coi cinque poliziotti a bordo, il blindato era entrato fracassone e fumante nella via Medina, a una settantina di metri alle spalle dei tedeschi, sempre intenti a tirare sui rivoltosi per riceverne colpi di fucili Garand, mentre il mitragliatore BAR dei patrioti ormai taceva col suo addetto accasciato sopra bocconi, morto. Il numero degli attaccanti vivi s’era ridotto a meno della metà, ché i tedeschi disponevano d’una cosiddetta sega di Hitler, una tremenda mitragliatrice MG 42 da 7,92 millimetri, la migliore al mondo per efficacia e leggerezza, tanto che, ancor oggi negli anni 2000, il modello è in dotazione alla NATO

; e ogni dieci proiettili inseriti nei nastri dai mitraglieri teutonici, uno era di tipo perforante, capace di far breccia nei muri diroccati e nei cumuli di macerie delle due case bombardate, al cui riparo sparavano i patrioti. Anche alcuni tedeschi erano a terra morti, piccola parte del loro plotone.

Vittorio D’Aiazzo aveva ordinato al maresciallo di fermare il mezzo e agli agenti di mettersi a due mitragliatrici, mentre egli stesso si sistemava dietro alla terza. Il trio aveva armato, mirato ai granatieri nemici e, all’ordine del superiore, aveva fatto fuoco: senza sosta nonostante il rischio d’inceppare le armi. I tre mitraglieri improvvisati avevano eliminato il plotone avversario, i cui uomini non avevano fatto in tempo a voltare contro la blindo italiana l’MG coi suoi proiettili perforanti, che avrebbero potuto aver ragione della sottile copertura del mezzo italiano, e non erano riusciti, soprattutto, a lanciargli una bomba anticarro con un Panzerfaust che avevano in dotazione.

Dopo la strage di teutonici, l’autoblindo aveva ripreso la marcia, lentamente, e aveva oltrepassato, serpeggiando, i morti e gli automezzi nemici; per lo spazio insufficiente aveva scostato di forza una camionetta. A una quarantina di metri i patrioti superstiti, solo più sei persone di cui nessuna colpita, erano sbucati dalle macerie ed erano venuti allo scoperto andando incontro al blindato: erano cinque uomini e una donna esile e piccolina che dimostrava non più di diciott’anni e aveva sul volto un’espressione di spregio. Giunto il blindato a una decina di passi dal gruppetto, Vittorio aveva ordinato di sostare. Era sceso con tre dei suoi, lasciando a bordo il maresciallo presso la radio. I poliziotti e i partigiani s’erano occupati degl’italiani a terra, sedici, nessuno dei quali dava più segni di vita: sei di loro erano in condizioni agghiaccianti, quattro quasi segati in due da proiettili della MG, il quinto mancante del volto, sostituito da una cavità sanguinolenta, il sesto privato della calotta cranica onde si poteva vedergli il cervello mentre materia cerebrale gli era uscita dal naso e s’era rappresa su bocca e mento; la ragazza, avendo avuto quest’ultimo accanto durante il combattimento, aveva riferito al D’Aiazzo che il cerebro dell’uomo aveva pulsato per un po’ dopo aver subìto quei colpi devastanti; impassibile, ell'aveva così concluso il raccapricciante rapporto: “Non so se fosse ancora cosciente, perché era immobile, ma io credo proprio di sì.”

“Io spero proprio di no!” le aveva rimandato il vice commissario con malgarbo, infastidito non tanto dalla descrizione macabra, ma dalla freddezza che la giovane aveva mostrato.

Uno degli italiani uccisi aveva ad armacollo una piccola borsa in iuta con una radio statunitense Motorola Handie-Talkie SCR536 a una via, leggera ma non potente; la ragazza, sempre senza mostrare sentimenti, l’aveva tolta al defunto e se l’era messa a tracolla; aveva poi passato in rassegna, uno a uno con grande attenzione, i cadaveri dei tedeschi e, al termine dell’ispezione, il suo viso s’era incupito.

Vittorio aveva ordinato di togliere dal treppiede e prelevare la micidiale mitragliatrice MG coi suoi nastri di proiettili e aveva spiegato che, una volta smontata dal supporto, quell’arma poteva rendere assai bene come fucile mitragliatore, grazie al suo peso non eccessivo, appena una dozzina di chili, e a un suo bipiede sollevabile ripiegato sotto la canna. Era stata la ragazza, abbandonato il proprio fucile Garand, ad appropriarsene, dicendo che sapeva come usarla. S’era messa due nastri di proiettili della MG incrociati a bandoliera e aveva posato la mitragliatrice sulla propria spalla destra, tenendola bilanciata per la canna con la mano.

Il D’Aiazzo aveva afferrato il funesto Panzerfaust e aveva chiesto: “Qualcuno di voi sa usare quest’affare?”. Aveva avuto un sì da uno dei sei che, pur se in abiti civili, s’era dichiarato granatiere precisando ch'era stato “sorpreso qui a Napoli dall’armistizio.”

Un attimo dopo il maresciallo s’era sporto dallo sportello del blindato e aveva comunicato al superiore d’aver captato, dalla sala radio della Questura, la notizia che, via telefono, una voce femminile aveva chiamato il loro centralino denunciando che tedeschi stavano mitragliando le case di piazza Carità.

Vittorio aveva deciso d’intervenire. Dato che l’autoblindo poteva ospitare fino a sei persone, aveva offerto alla giovane d'entrarvi. Lei aveva rifiutato e, data l’urgenza, lui non aveva ripetuto l’invito, aveva dato l’ordine di salire ai propri uomini e, entrato per ultimo, aveva comandato al maresciallo di dirigere sull’obiettivo.

Molti altri poliziotti stavano uscendo intanto dalla Questura per affrontare tedeschi: c’era chi sortiva appiedato dal portone o da una porta secondaria, chi dal passo carraio sopra camion, camionette, motocarrozzette o a bordo delle due restanti autoblindomitragliatrici; i più imbracciavano ottocenteschi moschetti ‘91, qualcuno aveva ad armacollo un moderno mitra MAB

, molti portavano nei tascapane bombe SRCM o granate lacrimogene. Le destinazioni di tutti quei poliziotti erano le più diverse; in particolare, dietro preciso ordine del questore Pelluso, un plotone, di cui alcuni uomini vestivano abiti borghesi e la maggioranza la divisa, s’era diretto, sopra un autocarro lungo marca OM, verso piazzetta del Nilo, distante solo un chilometro da via Medina: su quel camion, nella cabina di guida accanto all’autista, c’era anche il presunto sergente maggiore Gennaro Esposito.

L’autoblindo al comando del D'Aiazzo era ripartita, sferragliando e scoppiettando, con dietro i sei patrioti a piedi. Il maresciallo Bennato la conduceva ad andatura lenta, non solo per la vetustà del veicolo, ma perché i partigiani appiedati che se ne facevano un po' baluardo potessero, senza stremarsi, seguirne l’andatura. Dopo il primo centinaio di metri uno dei sei, avendo considerato la complessione minuta della giovane donna, le aveva offerto di scambiare la pesante MG col proprio fucile, ma lei s’era rifiutata con fastidio emettendo, a bocca distorta, “Naah” il che, nelle intenzioni, doveva significare no.

Nell’avvicinarsi a piazza Carità, gli undici patrioti avevano cominciato a udire le ripercussioni di raffiche di mitragliatrice. Passati due minuti, erano giunti ai loro orecchi echi di mitra seguiti da una detonazione. Dopo un altro paio di minuti, erano risonate raffiche di mitragliatrici il cui crepitio era divenuto, via, via, più forte all’avvicinarsi della blindo, giunta adesso quasi alla piazza: era ormai fuor di dubbio che proprio là si stava sparando.

Vittorio aveva comandato al Bordin e ai due agenti di mettersi alle mitragliatrici e di armarle restando preparati a sparare al suo comando; da parte sua s’era messo dietro a una feritoia a prua per osservare fuori, pronto a ordinare il fuoco.


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