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Il Metro Dell'Amore Tossico – Romanzo
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Il Metro Dell'Amore Tossico – Romanzo


"Ran, domani mattina mi vieni in Questura per la denuncia; però tu capisci che sarà un po’ difficile che lo troviamo, chillo cattamàro

"

Dato che nulla m’era stato rubato, avevo deciso di tralasciare.

Capitolo III

L'amicizia con Vittorio D'Aiazzo era sbocciata a Genova, lui commissario alla Questura e mio superiore diretto, io agente e poi suo aiutante vice brigadiere promosso per meriti, avendo salvato la vita a un potente ministro, l'onorevole professor Nuto Marradi: In un giorno d'inizio febbraio del 1957 Vittorio, io e due miei colleghi eravamo stati comandati a protezione dell'uomo politico, dal momento del suo sbarco all'aeroporto della città della Lanterna, verso le 10 del mattino, al suo volo di ritorno nel pomeriggio. Un certo Aristide Maria Barani, già indisciplinato impiegato ministeriale e poi anarco-individualista alla macchia, aveva avuto l'infausta idea d'ammazzarlo proprio in quell'occasione; chi sa come e da chi avesse avuto notizia del suo arrivo. Noi avevamo atteso il Marradi nella zona aeroportuale dove, come programmato, l’aereo DC3 Alitalia su cui era imbarcato avrebbe arrestato i motori, e c'eravamo prontamente avvicinati all'aeroplano quand’era stato aperto il portello-scaletta di sbarco. Mentre il comandante aveva chiesto agli altri passeggeri di restare ai propri posti fin a nuovo invito, il ministro era sceso con i due agenti della sua scorta personale. A questo punto l'attentatore solitario, dissimulato da una tuta da inserviente, era sbucato di corsa da dietro un trattore per traino bagagli con in pugno la sovietica Tokarev TT-33 calibro 7,62, pistolona poco precisa ma piuttosto affidabile quanto agli eventuali inceppamenti, e gli s'era lanciato contro alla garibaldina urlandogli: "Lurido ladro farabutto!" Non essendo ancor prossimo all'obiettivo, gli aveva sparato un primo proiettile, andato a vuoto. Io, essendo di retroguardia nel nostro gruppetto e il più vicino allo sparatore – mi ricordo sempre la sequenza come se fosse stata un sogno – con un tiro della mia Beretta d'ordinanza M34 calibro 9, anch'essa imprecisa, per cui di certo aveva contribuito un bel po' di fortuna, avevo ferito l'uomo a una gamba rompendogliela e facendolo crollare a terra; poi alla svelta, con un calcio, gli avevo tolto l'arma di mano. Vittorio, al contrario di me, era in testa alla nostra squadra e il più vicino al ministro, a parte la sua scorta personale, per cui senza il mio intervento sarebbe stato non improbabilmente colpito da uno dei successivi colpi dell'anarchico.

Il farraginoso Aristide Maria Barani non sarebbe stato condannato al massimo della pena, nonostante la tentata strage, essendo stato ritenuto seminfermo di mente al momento di commettere il fatto, in quanto, durante il ricovero in ospedale per la ferita, era risultato sotto i postumi d’una sbornia: doveva aver bevuto per farsi coraggio e proprio l'alcol doveva averlo portato ad agire senza gran costrutto; quindi aveva fallito senza mio enorme merito.

Un mesetto dopo era arrivata da Roma la mia promozione a vice brigadiere, per diretto intervento del Marradi come sarebbe corsa voce nell'Ufficio Segreteria, Personale e Benessere della Questura. Va da sé ch'ero stato profondamente grato a quel ministro, rivelatosi capace di riconoscenza a differenza di tanti altri politici; ma non era stato ancor tutto: alcuni giorni dopo avevo ricevuto una lettera da un’importante casa editrice che m’invitava a spedire in lettura le mie poesie per eventuale pubblicazione. Quasi non credendo a tal improbabilissimo fatto – avevo persino pensato allo scherzo di qualcuno –, avevo comunque eseguito; e dopo nemmeno un paio di settimane m’era giunto il contratto di pubblicazione. Ero esploso di gioia. Ne avevo parlato entusiasta in ufficio col D’Aiazzo; e a questo punto avevo saputo dal commissario che il notorio proprietario di quell’editrice era il Marradi. La mia riconoscenza verso il ministro era salita al settimo cielo.

Tuttavia, Aristide Maria Barani non aveva sbagliato giudizio su quell’uomo: un decennio dopo il Marradi s'era realmente rivelato un "ladro farabutto" come il suo mancato assassino gli aveva urlato all’aeroporto: Nel 1967 era finito in uno scandalo politico clamoroso, scoperto dalla Magistratura, secondo i quotidiani politici d’opposizione grazie a manovre sotterranee di ambienti economici ch’egli aveva danneggiati. L’opposizione aveva pur ventilato che avesse potuto mestare più volte anche in precedenza, essendo stato un segretario di Stato di lungo corso che aveva partecipato, a capo dei più svariati dicasteri, a quasi tutti i Governi della Repubblica, da quelli di centro degli anni '50, al gabinetto di centrodestra del 1960 sostenuto dall’esterno dai neofascisti, ad alcuni di centro successivi e, a far capo dal 1963, a quelli di centrosinistra. Certo è ch'egli era divenuto sempre più potente nel corso degli anni. Quanto meno per le ultime malefatte, era stato messo in stato d'accusa dal Parlamento riunito in seduta comune, in base all'articolo 96 della Costituzione Italiana relativo ai reati commessi da membri del Governo: lui solo, anche se l'opposizione aveva manifestato il sospetto che i colpevoli fossero stati molti e "tutti di area governativa". Prima che Camera e Senato avessero concesso l'autorizzazione a procedere alla Magistratura, il Marradi aveva cercato di fuggire all’estero ma, nel tentativo, era morto in un incidente aereo, e questo aveva alimentato il grave sospetto che fosse stato assassinato da complici perché tacesse per sempre.

Nel 1968 l'Italia dell'egemonia democristiana e poi di quella democristiano-socialista aveva cominciato a venir gravemente contestata, erano iniziati scioperi a catena ed era sorto il cosiddetto Movimento Studentesco: per tutti i contestatori i governi di centrosinistra erano da considerarsi nient’altro che servi dei padroni; quanto ai partiti di centrodestra, liberali compresi, tutti semplicemente fascisti. La contestazione avrebbe innescato un formidabile cambiamento nei costumi della popolazione, che sino ad allora erano rimasti in sostanza quelli dei decenni precedenti basati sui valori forti della moralità cristiana persino, almeno di fondo, per gli atei dichiarati.

Era in tale cornice che si preparava l’avventura che stavo per affrontare affiancato dall'amico Vittorio, durante la quale sarebbe spuntato, fra altri, anche il nome del defunto ministro Nuto Marradi.

Capitolo IV

Il D'Aiazzo era uomo cinquantenne robusto ma non alto, attorno al metro e sessantacinque. Inalberava una capigliatura bruna e riccia ancor folta ma che, nel 1969, iniziava a cedere alla calvizie sul vertice della testa, configurandovi un principio di chierica. Forse per bilanciare, da qualche tempo s’era lasciato crescere la barba. Era un eroe della resistenza antinazista il mio amico Vittorio: nel 1943, giovanissimo vice commissario, era stato uno dei combattenti durante la prima insurrezione antitedesca d'Europa, le cosiddette Quattro giornate di Napoli

, in cui la sua città s'era liberata da sola degli occupanti tedeschi, durante le quali erano rimasti uccisi molti poliziotti della Questura napoletana, fra cui il diretto aiutante in quel tempo del D’Aiazzo, un certo brigadiere Marino Bordin, di cui egli parlava con grande ammirazione. Nonostante l'esteriore allegrezza, Vittorio era persona fondamentalmente triste. Pochi mesi dopo il tentato assassinio del Marradi il mio amico, che s’era sposato nel maggio dell'anno precedente con una donna troppo giovane, una diciottenne figlia d'un collega conosciuta al ballo annuale delle debuttanti, era rimasto vittima d’un grave dispiacere coniugale. S'era tenuto dentro il suo dolore per molto finché, un giorno della primavera del 1958 in cui doveva essersi sentito particolarmente sconfortato perché vi cadeva il secondo anniversario del suo matrimonio, s'era confidato con me, "col mio poeta e amico preferito": Era accaduto l'anno prima che la sua giovanissima moglie avesse conosciuto un ricco importatore americano, ch'era a Genova per i propri commerci, e che fosse fuggita con lui a New York, ottenendo in America lo scioglimento del matrimonio e risposandosi poco dopo con l'amante, com’era stato comunicato a Vittorio per via epistolare dal legale della coppia, su incarico di lei. In Italia non c’era ancora il divorzio per cui Vittorio era rimasto coniugato con la "traditrice"; ma una volta l'amico m'aveva detto, ormai prestavamo entrambi servizio a Torino, che se pur ci fosse stato il divorzio, come cattolico praticante – aveva pronunciato in tono solenne l'ultima parola – non se la sarebbe sentita, di richiederlo. "Sennonché", aveva soggiunto, "malauguratamente" lui aveva "vocazione alla coppia." Insomma, nonostante il suo conclamato cattolicesimo, non era riuscito per molto a rimanersene solo, come avevo presto capito.

Quella sera a cena a casa sua, un appartamento in via Cernaia di fronte alla caserma dei Carabinieri omonima e non lontano dalla Questura di corso Vinzaglio, ci aveva servito e, come ormai d'abitudine, tra una portata e l'altra s’era seduta con noi a tavola una bruna ventinovenne, Carmen, formosetta simpatica e belloccia anche se illetterata e di non ampia mente, che sapevo esercitare per l'amico, oltre alle mansioni di governante, più intime funzioni. Nell'ormai lontano 1959, in occasione del primo invito a cena di Vittorio dopo il nostro trasferimento da Genova a Torino, lui me l'aveva presentata nella sola prima veste e lei, per quella volta, non s'era seduta con noi; ma dall'atteggiamento confidenziale che comunque mostrava, avevo sospettato. "La guagliona è della mia Napoli", s'era confidato già quella volta l'amico, anche se con un certo qual imbarazzo, mentre Carmen era in cucina a preparare il caffè: "È un'orfana senza ’na lira che m’hanno mandato papà e mammà come domestica: forse già te l’avevo detto quand’era arrivata" – avevo assentito –: "Francamente, ero stanco di pizzerie; e anche di essere... solo. Lei è giovanissima... sì, circa com’era mia moglie. Io ho già quarant’anni. Eppure, sai com'è, è finita così, che dopo un po'... siamo ormai... beh, hai capito. Il guaio è… che è ancora minorenne

; perciò tieni per te la sua età": non aveva potuto trattenere un sorriso imbarazzato; poi: “Va bene, lo so che faccio male, che come cattolico dovrei fare il casto e pure che sto forse approfittando un po' troppo di questa guagliona, anche se lei mi pare contenta assai del mio affetto e pure del mio... beh, hai capito a cosa mi riferisco. Non lo so, spero che comunque il Cielo abbia compassione e perdoni."

"Lo spero", avevo fatto eco meccanicamente, senz’accorgermi d'aver alimentato i suoi dubbi, sui quali si sarebbe arrovellato per anni. Me li avrebbe infine manifestati, in occasione d'un penoso avvenimento di cui dirò più avanti. Avevo soggiunto: "Certo, per voi cattolici è una vita piena di problemi, per me ce ne sono già così tanti altri nella vita che, almeno quelli religiosi, li ho sempre tralasciati."

"Non sei credente proprio per nulla?" m'aveva interrogato facendosi più serio.

"Mah, una volta ero del tutto ateo. Adesso… non lo so", avevo risposto esitante: "A volte... ma in definitiva, credo a ciò che vedo; e alla poesia."

"…e chi te la manda la poesia?" m'aveva incalzato, "la musa... già come si chiamava? Ah, sì, Calliope."

"No, Erato, dato che scrivo poesia lirica: Calliope era musa dell'epica."

"...e va bbuo', la musa in genere, non sottilizziamo, guaglio', No, era solo per dirti che la poesia è come l'amicizia; quella vera, dico: viene da Dio. Anzi, è uno dei segni dell'amicizia divina."

Non s'era più parlato per anni di quel rapporto Dio-poesia fino all'ultimo invito quando, a metà cena, Vittorio m’aveva detto: "Lo sai? Il premio letterario ti viene dal Cielo; come la tua poesia. Ricordi che ti dissi tanti anni fa? È Dio la vera e sola Musa."

"Anche per quelli come me?"

"Si capisce! Se son puri di cuore, però; e dimmi, tu lo sai perché i versi non dànno soldi?"

"So che ne direbbero i soldati di monsieur de La Palice

: “Perché hanno pochi lettori”."

"Uh, e chista 'ccà ha da esse 'na risposta?! No, non li dànno perché son cosa dello Spirito Santo; e pure ti dico che la poesia bella viene ai poeti che hanno lo Spirito: tu sarai anche un repubblicano storico, un non credente, ma sei idealista."

Ebbene, ero rimasto per un momento interdetto: dalla vendita dei venti sonetti a quel potente sei mesi prima, infatti, non avevo scritto più nemmeno un verso.

...ma no, avevo concluso in me stesso quella volta, puro caso!

Capitolo V

Buon per me che, a differenza dell'amico, fossi rimasto magro e agile come un tempo e mi sentissi in corpo la stessa forza di quand'ero stato ragazzino, altrimenti quel pomeriggio non me la sarei cavata.

Mancavano solo più due giorni alla mia partenza per New York. Verso le 15 ero uscito per recarmi alla Gazzetta del Popolo per stendervi un articolo per la terza pagina. In quei tempi senza internet, mentre per le riviste si poteva usare la posta, per i quotidiani, causa i ben più rapidi tempi di pubblicazione, bisognava recarsi fisicamente in sede; solo i corrispondenti esteri avevano il privilegio di dettare l'articolo telefonicamente e, qualche volta, pure i cronisti se la notizia era urgente; io e gli altri pubblicisti dovevamo consegnare fisicamente il pezzo scritto a casa, oppure stenderlo direttamente in sede; abitualmente io scrivevo in redazione. Avevo precedentemente collaborato, sempre come esterno pagato a singolo pezzo, a uno dei più importanti fogli italiani, ligure ma con un'edizione torinese, di proprietà del finanziere Angelo Tartaglia Fioretti, capo d'un colossale gruppo economico; ma dopo che, contando sulla mia posizione d'indipendente pubblicista, senza avvisarne alcuno avevo preso a collaborare anche con l'altro giornale, quotidiano avversario delle concentrazioni economiche e favorevole a un’economia cristiano sociale, il foglio del Tartaglia Fioretti non aveva più stampato i miei scritti. Al mio perché mai? la risposta era stata esuberanza di costi. Non m'avevano neppur detto: Ti chiediamo di scegliere. M'avevano semplicemente respinto, come s'io fossi stato un loro cavallo improvvisamente bizzoso che, senza bisogno di scuse, non si monta più. Me n'ero indispettito, tanto più riflettendo ch'era stato proprio il Tartaglia Fioretti a comprarmi, un paio di mesi prima, quelle venti poesie da spacciar per sue con l'amante. Avevo finalmente capito che, anche in quell'occasione, ero stato trattato come una cosa che si può acquistare e buttare quando si vuole.

Il tragitto non era lungo da casa mia in via Giulio: un pezzetto della stessa, poi via della Consolata, via del Carmine e pochi metri di corso Valdocco, dove il giornale aveva sede; ma quel giorno, all’angolo tra lo stesso e via del Carmine, ormai vicinissimo alla mèta, mentre attraversavo sul verde, un furgone parcheggiato era partito all'improvviso puntando dritto su di me. Con un tuffo l’avevo evitato, proprio appena, limitando i danni alle mani spellate; e mentre il mezzo fuggiva, ero riuscito a prendergli la targa. Dopo aver scritto la mia nota al giornale, un poco sotto shock e pensando a chi potessi avere per nemico, m’ero precipitato alla vicina Questura da Vittorio. Come avevo pensato, il furgone era stato rubato. Nella mia denuncia l'amico aveva fatto annotare pure l'aggressione precedente, che ormai non si poteva più ritenere con sicurezza a scopo di rapina. Poteva esser stato il medesimo aggressore dell'altra volta a cercare d'uccidermi? Dopo essersi rimesso dai colpi potenti che gli avevo inferto? Purtroppo non avevo potuto vedere la figura alla guida.

"Non hai nessun sospetto? Che so, uno sgarbo?" m’aveva chiesto il D'Aiazzo.

"No, vado d'accordo con tutti."

"Già, già: potrebbe essere la vendetta di qualcuno che avevamo mandato dentro; ma di chi? Con tutte le indagini fatte assieme e tutta la gente che avevamo sbattuto in gattabuia... Mah! Comunque... forse sarà bene che mi guardi anch'io."

Da quel momento ero stato assai cauto e, fino al mio arrivo negli Stati Uniti, null'altro di male m’era successo.

Capitolo VI

Erano le 9 del mattino, ora di New York.

All'aeroporto s’era passato un controllo doganale così minuzioso che forse era secondo solo a certe ispezioni carcerarie. Avevano guardato persino nel tubetto del dentifricio e nel flacone del dopobarba, prendendo campioni che, pensai, avrebbero analizzato. Me l'ero aspettato, per la verità, un esame attento, anche se non talmente. Infatti, come pure i nostri mezzi d'informazione avevano riferito, due mesi prima in alcuni quartieri di New York l'acqua potabile era sgorgata dai rubinetti insieme a una strana sostanza inavvertibile al gusto, incolore e inodore, versata da ignoti in uno degli acquedotti in quantità proporzionalmente minuscole, ma talmente potente da indurre tutte le persone che l'avevano bevuta per almeno una decina di giorni alla condizione irreversibile di tossicodipendenti bramosi d'eroina. Nelle settimane successive era accaduta la stessa cosa a San Francisco e a Philadelphia. Contemporaneamente, i media avevano orecchiato e riferito che la Polizia Federale aveva saputo, da agenti della CIA, di un prodotto chimico che scienziati sovietici parevano avere sintetizzato. Qualcuno nell'FBI aveva avuto l'intuizione di far analizzare quelle acque e s’era scoperto il composto. Inutilmente però s’era cercato il laboratorio che lo produceva. S'era dunque sospettato che fosse stato importato segretamente. Intanto, i mezzi di comunicazione, preoccupando ancora di più i cittadini, s'erano chiesti: Si tratta di un'operazione di sabotaggio da parte dell’Unione Sovietica? O, col suo aiuto, dei nord vietnamiti? A nome del capo dell’URSS Leonid Il'ič Brežnev, l’ambasciatore sovietico aveva inoltrato una nota di ferma protesta alla Casa Bianca, accusando gli Stati Uniti di bieca calunnia.

Finalmente libero, m’ero avviato all’uscita per prendere un taxi che mi conducesse al Plaza Hotel, dove gli organizzatori m’avevano prenotato una camera. M’ero sentito però chiamare in italiano da una bella voce femminile. Era una signora attorno alla trentina, capelli corvini, molto graziosa, che, alla mia sinistra, stava agitando una breve sottile pertica con in cima un cartoncino bianco con il mio nome e cognome scritti in rosso.

"Il poeta Velli, vero?" m’aveva chiesto avvicinandosi e abbassando il cartello.

M’ero fermato: "In persona, signora..."

"Miniver: Norma Miniver. Sono inviata per lei dalla fondazione Valente." M’aveva porto la mano, dopo aver passato il cartello dalla destra alla sinistra. "L'ho riconosciuta non appena l'ho vista. Sa, la foto sui suoi libri."

Me n’ero compiaciuto. "Parla molto bene l'italiano", m’ero complimentato a mia volta mentre ci si avviava all'uscita.

"Sono italo americana."

"…ma il cognome..."

"È di mio marito. Quello della mia famiglia è Costante. Ho detto Miniver per abitudine. In verità", s’era confidata senza imbarazzo, " riprenderò il mio fra poco: abito già da sola e sto per ottenere il divorzio."

Al Plaza, dopo le formalità d'ingresso, Norma m’aveva preceduto col porteur fin dentro la stanza. Sulla soglia del bagno figurava un cartello in quattro lingue, ma non in italiano, che ammoniva in lettere maiuscole: NON BERE L'ACQUA DEGLI IMPIANTI IGIENICI. POTREBBE CONTENERE SOSTANZE NOCIVE.

"Sono a sua disposizione come hostess per tutto il tempo della sua permanenza", m’aveva assicurato; "ma ora, penso che lei desideri soltanto rinfrescarsi e riposarsi. Occupo la camera qui accanto a sinistra, per qualunque occorrenza."