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L’Innocente / Невинный. Книга для чтения на итальянском языке
L’Innocente / Невинный. Книга для чтения на итальянском языке
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L’Innocente / Невинный. Книга для чтения на итальянском языке

Queste cose, pure affliggendomi, mi alleggerirono di due inquietudini: mi persuasero che io non avevo colpa nello sfiorire di Giuliana e mi diedero un modo semplice di poter giustificare davanti a mia madre la separazione di letto e gli altri mutamenti avvenuti nella mia vita domestica. Mia madre appunto era per arrivare a Roma dalla provincia, dove ella, dopo la morte di mio padre, passava la maggior parte dell’anno con mio fratello Federico.

Mia madre amava molto la giovine nuora. Giuliana era veramente per lei la sposa ideale, la compagna sognata pel suo figliuolo. Ella non riconosceva al mondo una donna più bella, più dolce, più nobile di Giuliana. Ella non concepiva che io potessi desiderare altre donne, abbandonarmi in altre braccia, dormire su altri cuori. Essendo stata amata per venti anni da un uomo, sempre con la stessa devozione, con la stessa fede, sino alla morte, ella ignorava la stanchezza, il disgusto, il tradimento, tutte le miserie e tutte le ignominie che si covano nel talamo. Ella ignorava lo strazio che io avevo fatto e facevo di quella cara anima immeritevole. Ingannata dalla dissimulazione generosa di Giuliana, credeva ancóra nella nostra felicità. Guai s’ella avesse saputo!

Io era ancóra in quell’epoca sotto il dominio di Teresa Raffo, della violenta avvelenatrice che mi dava imagine dell’amasia di Menippo. Ricordate? Ricordate le parole di Apollonio a Menippo nel poema inebriante? “O beau jeune homme, tu caresses un serpent; un serpent te caresse!”

Il caso mi favorì. Per la morte d’una zia, Teresa fu costretta ad allontanarsi da Roma e a rimanere assente qualche tempo. Io potei con una insolita assiduità presso mia moglie riempire il gran vuoto che la “Biondissima” partendo lasciava nelle mie giornate. E non era ancóra svanito in me il turbamento di quella sera; e qualche cosa di nuovo, indefinibile, da qualche sera ondeggiava tra me e Giuliana.

Poiché le sofferenze fisiche di lei aumentavano, io e mia madre potemmo con molta fatica ottenere che ella si sottoponesse all’operazione chirurgica richiesta dal suo stato. L’operazione portava per seguito trenta o quaranta giorni di assoluto riposo nel letto e una convalescenza prudente. Già la povera malata aveva i nervi estremamente indeboliti ed irritabili. I preparativi lunghi e fastidiosi la estenuarono e la esasperarono al punto che ella più d’una volta tentò di gittarsi giù dal letto, di ribellarsi, di sottrarsi a quel supplizio brutale che la violava, che l’umiliava, che l’avviliva…

– Di’, – mi chiese un giorno, con la bocca amara – se tu ci pensi, non hai ribrezzo di me? Ah, che brutta cosa!

E fece un atto di disgusto su sé medesima; e s’accigliò, e si ammutolì.

Un altro giorno, mentre io entravo nella sua stanza, ella si accorse che un odore mi aveva ferito. Gridò, fuori di sé, pallida come la sua camicia:

– Vattene, vattene, Tullio. Ti prego! Parti. Ritornerai quando sarò guarita. Se tu rimarrai qui, mi prenderai in odio. Sono odiosa così; sono odiosa… Non mi guardare.

E i singhiozzi la soffocarono. Poi, in quello stesso giorno, dopo qualche ora, mentre io tacevo credendo ch’ella fosse per assopirsi, uscì in queste parole oscure, con l’accento strano di chi parla in sogno:

– Ah, se davvero l’avessi fatto! Era un buon suggerimento…

– Che dici, Giuliana?

Ella non rispose.

– A che pensi, Giuliana?

Non rispose se non con un atto della bocca, che voleva essere un sorriso e non poté.

Mi parve di comprendere. E un’onda tumultuosa di rammarico, di tenerezza e di pietà mi assalse. E tutto avrei dato perché ella avesse potuto leggermi l’anima, in quel momento, perché ella avesse potuto raccogliere intera la mia commozione irrivelabile, inesprimibile e quindi vana. “Perdonami, perdonami. Dimmi quello che io debbo fare perché tu mi perdoni, perché tu dimentichi tutte le cattive cose… Io tornerò a te, non sarò d’altri che di te, per sempre. Te sola veramente io ho amata, nella vita; amo te sola. Sempre la mia anima si volge a te, e ti cerca, e ti rimpiange. Te lo giuro: lontano da te, non ho provato mai nessuna gioia sincera, non ho avuto mai un attimo di pieno oblio; mai, mai: te lo giuro. Tu sola, al mondo, hai la bontà e la dolcezza. Tu sei la più buona e la più dolce creatura che io abbia mai sognata: sei l’Unica. E ho potuto offenderti, ho potuto farti soffrire, ho potuto farti pensare alla morte come a una cosa desiderabile! Ah, tu mi perdonerai, ma io non potrò mai perdonarmi; tu dimenticherai, ma io non dimenticherò. Sempre mi parrà d’essere indegno; neppure con la devozione di tutta la mia vita mi parrà di averti compensata. Da ora innanzi, come un tempo, tu sarai la mia amante, la mia amica, la mia sorella; come un tempo, tu sarai la mia custode, la mia consigliera. Io ti dirò tutto, ti svelerò tutto. Sarai la mia anima. E guarirai. Io, io ti guarirò. Tu vedrai di quali tenerezze io sarò capace per medicarti… Ah, tu le conosci. Ricòrdati! Ricòrdati! Anche allora tu fosti malata e me solo volesti per medicarti; e io non mi mossi mai dai tuo capezzale, né di giorno, né di notte. E tu dicevi: – Sempre Giuliana se ne ricorderà, sempre. – E tu avevi le lacrime negli occhi, e io te le bevevo tremando. – Santa! Santa! – Ricòrdati. E quando ti leverai, quando sarai convalescente, andremo laggiù, torneremo a Villalilla. Tu sarai ancóra un poco debole, ma ti sentirai tanto bene. E io ritroverò la mia gaiezza d’una volta, e ti farò sorridere, ti farò ridere. Tu ritroverai quelle tue belle risa che mi rinfrescavano il cuore; tu ritroverai quelle tue arie di fanciulla deliziose, e porterai ancóra la treccia giù per le spalle come mi piaceva. Siamo giovani. Riconquisteremo la felicità, se tu vorrai. Vivremo, vivremo…” Così, dentro di me, le parlavo; e le parole non uscivano dalle mie labbra. Pur essendo commosso e avendo gli occhi umidi, io sapevo che la commozione era passeggera e che quelle promesse erano fallaci. E anche sapevo che Giuliana non si sarebbe illusa e che mi avrebbe risposto con quel suo tenue sorriso sfiduciato, già altre volte comparsole su le labbra. Quel sorriso significava: “Sì, io so che tu sei buono e che vorresti non farmi soffrire; ma tu non sei padrone di te, non puoi resistere alle fatalità che ti trascinano. Perché vuoi tu che io m’illuda?”

Tacqui, in quel giorno; e nei giorni che seguirono, pur ricadendo più volte nella stessa confusa agitazione di ravvedimenti e di propositi e di sogni vaghi, non osai parlare: “Per tornare a lei, tu devi abbandonare le cose in cui ti compiaci, la donna che ti corrompe. Ne avrai la forza?” Io rispondevo a me stesso: “Chi sa!” E aspettavo di giorno in giorno questa forza che non veniva; aspettavo di giorno in giorno un evento (non sapevo quale) che provocasse la mia risoluzione, che me la rendesse inevitabile. E m’indugiavo a imaginare, a sognare la nostra vita nuova, la lenta rifioritura del nostro amore legittimo, il sapore strano di certe sensazioni rinnovate. “Noi andremmo dunque laggiù, a Villalilla, nella casa che conserva le nostre più belle memorie; e saremmo noi due soltanto, perché lasceremmo Maria e Natalia con mia madre alla Badiola. E la stagione sarebbe mite; e la convalescente si appoggerebbe sempre al mio braccio, pei sentieri conosciuti, dove ogni nostro passo risveglierebbe una memoria. Ed io vedrei di tratto in tratto sul suo pallore diffondersi qualche lieve fiamma subitanea; ed ambedue saremmo, l’uno verso l’altra, un poco timidi; sembreremmo qualche volta pensierosi; eviteremmo qualche volta di guardarci negli occhi. Perché? E un giorno, sentendo più forte la suggestione dei luoghi, io ardirei parlarle delle nostre più folli ebrezze di quei primi tempi. – Ti ricordi? Ti ricordi? Ti ricordi? – E a poco a poco ambedue sentiremmo in noi il turbamento crescere, divenire insostenibile; e ambedue, nel tempo medesimo, perdutamente, ci stringeremmo, ci baceremmo in bocca, crederemmo venir meno. Ella, ella sì verrebbe meno; e io la sosterrei nelle mie braccia chiamandola con nomi suggeriti da una tenerezza suprema. Ella riaprirebbe gli occhi, leverebbe tutto il velo del suo sguardo, fisserebbe un istante su me la sua stessa anima; mi parrebbe trasfigurata. E così saremmo ripresi dall’antico ardore, rientreremmo nella grande illusione. Ambedue saremmo tenuti da un pensiero unico, assiduo; saremmo agitati da un’ansietà inconfessabile. Io le chiederei tremando: – Sei guarita? – Ed ella dal suono della mia voce comprenderebbe la domanda celata in quella domanda. E risponderebbe, senza potermi nascondere il brivido: – Non ancóra! – E la sera, dividendoci, rientrando nelle nostre stanze separate, ci sentiremmo morire d’angoscia. Ma una mattina, con uno sguardo impreveduto, i suoi occhi mi direbbero: – Oggi, oggi… – Ed ella, paventando quel divino e terribile momento, con qualche pretesto puerile mi sfuggirebbe, protrarrebbe la nostra tortura. Direbbe ella: – Usciamo; usciamo… – Usciremmo: in un pomeriggio velato, tutto bianco, un poco snervante, un poco soffocante. Cammineremmo a fatica. Comincerebbero a cadere, su le nostre mani, sul nostro viso, gocce di pioggia tiepide come lacrime. Io direi, con la voce alterata: – Rientriamo. – E, presso la soglia, all’improvviso, la prenderei su le mie braccia, la sentirei abbandonarsi come esanime, la porterei su per le scale senza avvertire alcun peso. – Dopo tanto! Dopo tanto! – La violenza del desiderio in me attenuata dalla paura di farle male, di strapparle un grido di dolore. – Dopo tanto! – E i nostri esseri, all’urto di una sensazione divina e terrribile, non provata né imaginata mai, si struggerebbero. Ed ella, dodpo, mi parrebbe quasi morente, con la faccia tutta molle di pianto, pallida come il suo guanciale.”

Ah, così me parve, morente mi parve, quella mattina, quando i dottori l’addormentavano col cloroformio ed elle, sentendose sprofondare nell’insensibilità della morte, due o tre volte tentò di alzare le braccia verso di me, tentò di chamarmi. Io uscii dalla stanza, sconvolto; e intravidi i ferri chirurgici, un specie di cuchiaio tagliente, e la garza e il cotone e il ghiaccio e le altre cose preparate su un tavolo. Due lunghe ore, interminabili ore, aspettai, esacerbando la mia sofferenza con l’eccesso delle imaginazioni. E una disperata pietà strinse le mie viscere d’uomo, per quella creatura che i ferri del chirurgo violavano non soltanto nella carne miserabile ma nell’intimo dell’anima, nel sentimento piu delicato che una donna possa custodire: – una pietà per quella e per le altre, agitate da aspirazioni indefinite verso le idealità dell’amore, illuse dal sogno capzioso di cui il desiderio maschile le avvolge, smanianti d’inalzarsi, e così deboli, così malsane, così imperfette, uguagliate alle femmine brute dalle leggi inabolibili della Natura; che impone a loro il diritto della specie, sforza le loro matrici, le travaglia di morbi orrendi, le lascia esposte, a tutte le degenerazioni. E in quella e nelle altre, rabbrividendo per ogni fibra, io vidi allora, con una lucidità spaventevole, vidi la piaga originale, la turpe ferita sempre aperta “che sanguina e che pute”…

Quando rientrai nella stanza di Giuliana, ella era ancóra sotto l’azione dell’anestetico, senza conoscenza, senza parola: ancóra simile a una morente. Mia madre era ancóra pallidissima e convulsa. Ma pareva che l’operazione fosse riuscita bene; i dottori parevano soddisfatti. L’odore del iodoformio impregnava l’aria. In un canto, la monaca inglese empiva di ghiaccio una vescica; l’assistente ravvolgeva una fascia. Le cose tornavano nell’ordine e nella calma, a poco a poco.

L’inferma rimase a lungo in quel sopore; la febbre comparve leggerissima. Nella notte però ella fu presa da spasimi allo stomaco e da un vomito infrenabile. Il laudano non la calmava. E io, fuori di me, allo spettacolo di quello strazio inumano, credendo ch’ella dovesse morire, non so più che dissi, non so più che feci. Agonizzai con lei.

Nel giorno seguente, lo stato dell’inferma migliorò; e poi, di giorno in giorno, andò ancóra migliorando. Le forze lentissimamente tornavano.

Io fui assiduo al capezzale. Mettevo una certa ostentazione nel ricordare a lei, con i miei atti, l’infermiere d’una volta; ma il sentimento era diverso, era sempre fraterno. Spesso io avevo lo spirito preoccupato da qualche frase d’una lettera dell’amante lontana, mentre leggevo a lei qualche pagina d’un libro preferito. L’Assente era indimenticabile. Talora però, quando nel rispondere a una lettera mi sentivo un po’ svogliato e quasi tediato, in certe strane pause che nella lontananza ha anche una passione forte, io credevo questo un indizio di disamore; e ripetevo a me stesso: “Chi sa!”.

Un giorno, mia madre disse a Giuliana, in mia presenza: – Quando ti leverai, quando ti potrai muovere, andremo tutti insieme alla Badiola. Non è vero, Tullio?

Giuliana mi guardò.

– Sì, mamma – risposi, senza esitare, senza riflettere. – Anzi, io e Giuliana andremo a Villalilla.

Ed ella di nuovo mi guardò; e sorrise, d’un sorriso impreveduto, indescrivibile, che aveva una espressione di credulità quasi infantile, che somigliava un poco a quello d’un bambino malato a cui sia fatta una grande insperata promessa. Ed abbassò le palpebre; e continuò a sorridere, con gli occhi socchiusi che vedevano qualche cosa lontana, molto lontana. E il sorriso s’attenuava, s’attenuava, senza estinguersi.

Quanto mi piacque! Come l’adorai, in quel momento! Come sentii che nulla al mondo vale la semplice commozione della bontà!

Una bontà infinita emanava da quella creatura e mi penetrava tutto l’essere, mi colmava il cuore. Ella stava nel letto supina, rialzata da due o tre guanciali; e la sua faccia dall’abondanza dei capelli castagni un poco rilasciati acquistava una finezza estrema, una specie d’immaterialità apparente. Aveva una camicia chiusa intorno al collo, chiusa intorno ai polsi; e le sue mani posavano sul lenzuolo, prone, così pallide che soltanto le vene azzurre le distinguevano dal lino.

Presi una di quelle mani (mia madre era già uscita dalla stanza); e dissi sottovoce:

– Torneremo dunque… a Villalilla.

La convalescente disse:

– Sì.

E tacemmo, per prolungare la nostra commozione, per conservare la nostra illusione. Sapevamo ambedue il significato profondo che nascondevano quelle poche parole scambiate sottovoce. Un acuto istinto ci avvertiva di non insistere, di non definire, di non andare oltre. Se avessimo parlato ancóra, ci saremmo trovati davanti alle realtà inconciliabili con l’illusione in cui le nostre anime respiravano e a poco a poco s’intorpidivano deliziosamente.

Quel torpore favoriva i sogni, favoriva gli oblii. Passammo un intero pomeriggio quasi sempre soli, leggendo a intervalli, chinandoci insieme su la stessa pagina, seguendo con gli occhi la stessa riga. Avevamo là qualche libro di poesia; e noi davamo ai versi una intensità di significato, che non avevano. Muti, ci parlavamo per la bocca di quel poeta affabile. Io segnavo con l’unghia le strofe che parevano rispondere al mio sentimento non rivelato.

Je veux, guidé par vous, beaux yeux aux flammes douces,
Par toi conduit, ô main où tremblera ma main,
Marcher droit, que ce soit par des sentiers de mousses
Ou que rocs et cailloux encombrent le chemin;
Oui, je veux marcher droit et calme dans la Vie…

Ed ella, dopo aver letto, si riabbandonava per un poco su i guanciali, chiudendo gli occhi, con un sorriso quasi impercettibile.

Toi la bonté, toi le sourire,
N’es tu pas le conseil aussi,
Le bon conseil loyal et brave…

Ma io vedevo sul suo petto la camicia secondare il ritmo del respiro con una mollezza che incominciava a turbarmi come il fievole profumo di ireos esalato dai lenzuoli, e dai guanciali. Desiderai ed aspettai che ella, sorpresa da un subitaneo languore, mi cingesse il collo con un braccio e congiungesse la sua guancia alla mia così ch’io sentissi sfiorarmi dall’angolo della sua bocca. Ella pose l’indice affilato su la pagina e segnò con l’unghia il margine, guidando la mia lettura commossa.

La voix vous fut connue (et chère?)
Mais à présent elle est voilée
Comme une veuve désolée…
Elle dit, la voix reconnue,
Que la bonté c’est notre vie…
Elle parle aussi de la gloire
D’etre simple sans plus attendre,
Et de noces d’or et du tendre
Bonheur d’une paix sans victoire.

Accueillez la voix qui persiste
Dans son naïf épithalame.
Allez, rien n’est meilleur à l’âme
Que de faire une âme moins triste!

Io le presi il polso; e chinando il capo lentamente, fino a porre le labbra nel cavo della sua mano, mormorai:

– Tu… potresti dimenticare?