Quando rientrai nella stanza di Giuliana, ella era ancóra sotto l’azione dell’anestetico, senza conoscenza, senza parola: ancóra simile a una morente. Mia madre era ancóra pallidissima e convulsa. Ma pareva che l’operazione fosse riuscita bene; i dottori parevano soddisfatti. L’odore del iodoformio impregnava l’aria. In un canto, la monaca inglese empiva di ghiaccio una vescica; l’assistente ravvolgeva una fascia. Le cose tornavano nell’ordine e nella calma, a poco a poco.
L’inferma rimase a lungo in quel sopore; la febbre comparve leggerissima. Nella notte però ella fu presa da spasimi allo stomaco e da un vomito infrenabile. Il laudano non la calmava. E io, fuori di me, allo spettacolo di quello strazio inumano, credendo ch’ella dovesse morire, non so più che dissi, non so più che feci. Agonizzai con lei.
Nel giorno seguente, lo stato dell’inferma migliorò; e poi, di giorno in giorno, andò ancóra migliorando. Le forze lentissimamente tornavano.
Io fui assiduo al capezzale. Mettevo una certa ostentazione nel ricordare a lei, con i miei atti, l’infermiere d’una volta; ma il sentimento era diverso, era sempre fraterno. Spesso io avevo lo spirito preoccupato da qualche frase d’una lettera dell’amante lontana, mentre leggevo a lei qualche pagina d’un libro preferito. L’Assente era indimenticabile. Talora però, quando nel rispondere a una lettera mi sentivo un po’ svogliato e quasi tediato, in certe strane pause che nella lontananza ha anche una passione forte, io credevo questo un indizio di disamore; e ripetevo a me stesso: “Chi sa!”.
Un giorno, mia madre disse a Giuliana, in mia presenza: – Quando ti leverai, quando ti potrai muovere, andremo tutti insieme alla Badiola. Non è vero, Tullio?
Giuliana mi guardò.
– Sì, mamma – risposi, senza esitare, senza riflettere. – Anzi, io e Giuliana andremo a Villalilla.
Ed ella di nuovo mi guardò; e sorrise, d’un sorriso impreveduto, indescrivibile, che aveva una espressione di credulità quasi infantile, che somigliava un poco a quello d’un bambino malato a cui sia fatta una grande insperata promessa. Ed abbassò le palpebre; e continuò a sorridere, con gli occhi socchiusi che vedevano qualche cosa lontana, molto lontana. E il sorriso s’attenuava, s’attenuava, senza estinguersi.
Quanto mi piacque! Come l’adorai, in quel momento! Come sentii che nulla al mondo vale la semplice commozione della bontà!
Una bontà infinita emanava da quella creatura e mi penetrava tutto l’essere, mi colmava il cuore. Ella stava nel letto supina, rialzata da due o tre guanciali; e la sua faccia dall’abondanza dei capelli castagni un poco rilasciati acquistava una finezza estrema, una specie d’immaterialità apparente. Aveva una camicia chiusa intorno al collo, chiusa intorno ai polsi; e le sue mani posavano sul lenzuolo, prone, così pallide che soltanto le vene azzurre le distinguevano dal lino.
Presi una di quelle mani (mia madre era già uscita dalla stanza); e dissi sottovoce:
– Torneremo dunque… a Villalilla.
La convalescente disse:
– Sì.
E tacemmo, per prolungare la nostra commozione, per conservare la nostra illusione. Sapevamo ambedue il significato profondo che nascondevano quelle poche parole scambiate sottovoce. Un acuto istinto ci avvertiva di non insistere, di non definire, di non andare oltre. Se avessimo parlato ancóra, ci saremmo trovati davanti alle realtà inconciliabili con l’illusione in cui le nostre anime respiravano e a poco a poco s’intorpidivano deliziosamente.
Quel torpore favoriva i sogni, favoriva gli oblii. Passammo un intero pomeriggio quasi sempre soli, leggendo a intervalli, chinandoci insieme su la stessa pagina, seguendo con gli occhi la stessa riga. Avevamo là qualche libro di poesia; e noi davamo ai versi una intensità di significato, che non avevano. Muti, ci parlavamo per la bocca di quel poeta affabile. Io segnavo con l’unghia le strofe che parevano rispondere al mio sentimento non rivelato.
Je veux, guidé par vous, beaux yeux aux flammes douces,Par toi conduit, ô main où tremblera ma main,Marcher droit, que ce soit par des sentiers de moussesOu que rocs et cailloux encombrent le chemin;Oui, je veux marcher droit et calme dans la Vie…Ed ella, dopo aver letto, si riabbandonava per un poco su i guanciali, chiudendo gli occhi, con un sorriso quasi impercettibile.
Toi la bonté, toi le sourire,N’es tu pas le conseil aussi,Le bon conseil loyal et brave…Ma io vedevo sul suo petto la camicia secondare il ritmo del respiro con una mollezza che incominciava a turbarmi come il fievole profumo di ireos esalato dai lenzuoli, e dai guanciali. Desiderai ed aspettai che ella, sorpresa da un subitaneo languore, mi cingesse il collo con un braccio e congiungesse la sua guancia alla mia così ch’io sentissi sfiorarmi dall’angolo della sua bocca. Ella pose l’indice affilato su la pagina e segnò con l’unghia il margine, guidando la mia lettura commossa.
La voix vous fut connue (et chère?)Mais à présent elle est voiléeComme une veuve désolée…Elle dit, la voix reconnue,Que la bonté c’est notre vie…Elle parle aussi de la gloireD’etre simple sans plus attendre,Et de noces d’or et du tendreBonheur d’une paix sans victoire.Accueillez la voix qui persisteDans son naïf épithalame.Allez, rien n’est meilleur à l’âmeQue de faire une âme moins triste!Io le presi il polso; e chinando il capo lentamente, fino a porre le labbra nel cavo della sua mano, mormorai:
– Tu… potresti dimenticare?
Ella mi chiuse la bocca, e pronunziò la sua gran parola:
– Silenzio.
Entrò mia madre annunziando la visita della signora Tàlice, in quel punto. Io lessi nel volto di Giuliana il fastidio, e anch’io fui preso da un’irritazione sorda contro l’importuna. Giuliana sospirò:
– Oh mio Dio!
– Dille che Giuliana riposa – io suggerii a mia madre con un accento quasi supplichevole.
Ella mi accennò che la visitatrice aspettava nella stanza contigua. Bisognò riceverla.
Questa signora Tàlice era d’una loquacità maligna e stucchevole. Mi guardava di tratto in tratto con un’aria curiosa. Come mia madre per caso, nel corso della conversazione, disse ch’io tenevo compagnia alla convalescente dalla mattina alla sera quasi di continuo, la signora Tàlice esclamò con un tono d’ironia manifesta, guardandomi:
– Che marito perfetto!
La mia irritazione crebbe così che mi risolsi, con un pretesto qualunque, ad andarmene.
Uscii di casa. Incontrai per le scale Maria e Natalia che tornavano accompagnate dalla governante. Mi assalirono secondo il solito, con un’infinità di moine; e Maria, la maggiore, mi diede alcune lettere che aveva prese dal portiere. Tra queste riconobbi sùbito la lettera dell’Assente. E allora mi sottrassi alle moine, quasi con impazienza. Giunto su la strada, mi soffermai per leggere.
Era una lettera breve ma appassionata, con due o tre frasi d’una eccessiva acutezza, quali sapeva trovare Teresa per agitarmi. Ella mi faceva sapere che sarebbe stata a Firenze tra il 20 e il 25 del mese e che avrebbe voluto incontrarmi là “come l’altra volta”. Mi prometteva notizie più esatte pel convegno.
Tutti i fantasmi delle illusioni e delle commozioni recenti abbandonarono a un tratto il mio spirito, come i fiori d’un albero scosso da una folata gagliarda. E come i fiori caduti sono per l’albero irrecuperabili, così furono per me quelle cose dell’anima: mi divennero estranee. Feci uno sforzo, tentai di raccogliermi; non riuscii a nulla. Mi misi a girare per le strade, senza scopo; entrai da un pasticciere, entrai da un libraio; comprai dolci e libri macchinalmente. Scendeva il crepuscolo; s’accendevano i fanali; i marciapiedi erano affollati; due o tre signore dalle loro carrozze risposero al mio saluto; passò un amico a fianco della sua amante che portava tra le mani un mazzo di rose, camminando presto e parlando e ridendo. Il soffio malefico della vita cittadina m’investì; risuscitò le mie curiosità, le mie cupidigie, le mie invidie. Arricchito in quelle settimane di continenza, il mio sangue ebbe come un’accensione subitanea. Alcune imagini mi balenarono lucidissime dentro. L’Assente mi riafferrò con le parole della sua lettera. E tutto il mio desiderio andò verso di lei, senza freno.
Ma quando il primo tumulto si fu placato, mentre risalivo le scale della mia casa, compresi tutta la gravità di quel che era accaduto, di quel che avevo fatto; compresi che veramente, poche ore prima, avevo riallacciato un legame, avevo obbligata la mia fede, avevo data una promessa, una promessa tacita ma solenne a una creatura ancóra debole e inferma; compresi che non avrei potuto senza infamia ritrarmi. E allora io mi rammaricai di non aver diffidato di quella commozione ingannevole, mi rammaricai di essermi troppo indugiato in quel languore sentimentale! Esaminai minutamente i miei atti e i miei detti di quel giorno, con la fredda sottigliezza d’un mercante subdolo il quale cerchi un appiglio per sottrarsi alla stipulazione di un contratto già concordato. Ah, le mie ultime parole orano state troppo gravi. Quel “Tu… potresti dimenticare?” pronunziato con quell’accento, dopo la lettura di quei versi, aveva avuto il valore di una conferma definitiva. E quel “Silenzio” di Giuliana era stato come un suggello.
“Ma” io pensai “questa volta ha ella proprio creduto al mio ravvedimento? Non è ella stata sempre un poco scettica a riguardo dei miei buoni moti?” E rividi quel suo tenue sorriso sfiduciato, già altre volte comparsole su le labbra. “Se ella dentro di sé non avesse creduto, se anche la sua illusione fosse caduta subitamente, allora forse la mia ritirata non avrebbe molta gravità, non la ferirebbe né la sdegnerebbe troppo; e l’episodio rimarrebbe senza conseguenza, e io rimarrei libero come prima. Villalilla rimarrebbe nel suo sogno.” E rividi l’altro sorriso, il sorriso nuovo, impreveduto, credulo, che le era comparso su le labbra al nome di Villalilla. “Che fare? Che risolvere? Come contenermi?” La lettera di Teresa Raffo mi bruciava forte.
Quando rientrai nella stanza di Giuliana, m’accorsi al primo sguardo che ella mi aspettava. Mi parve lieta, con gli occhi lucidi, con un pallore più animato, più fresco.
– Tullio, dove sei stato? – mi domandò ridendo.
Io risposi:
– Mi ha messo in fuga la signora Tàlice.
Ella seguitò a ridere, d’un limpido riso giovenile che la trasfigurava. Io le porsi i libri e la scatola delle confetture.
– Per me? – esclamò, tutta contenta, come una bambina golosa; e si affrettò ad aprire la scatola, con piccoli gesti di grazia, che risollevavano nel mio spirito lembi di ricordi lontani. – Per me?
Prese un bonbon, fece l’atto di portarlo alla bocca, esitò un poco, lo lasciò ricadere, allontanò la scatola; e disse:
– Poi, poi…
– Sai, Tullio, – m’avvertì mia madre – non ha ancóra mangiato nulla. Ha voluto aspettarti.
– Ah, non t’ho ancóra detto… – proruppe Giuliana, divenuta rosea – non t’ho ancóra detto che c’è stato il dottore, mentre eri fuori. Mi ha trovata molto meglio. Potrò alzarmi giovedì. Capisci, Tullio? Potrò alzarmi giovedì…
Soggiunse:
– Fra dieci, fra quindici giorni al piú, potrò anche mettermi in treno.
Soggiunse, dopo una pausa pensosa, con un tono minore:
– Villalilla!
Ella non aveva dunque pensato ad altro, non aveva sognato altro. Ella aveva creduto; credeva. Io duravo fatica a dissimulare la mia angoscia. Mi occupavo, con soverchia premura, forse, dei preparativi pel suo piccolo pranzo. Io medesimo le misi su le ginocchia la tavoletta. Ella seguiva tutti i miei movimenti con uno sguardo carezzevole che mi faceva male. “Ah, se ella potesse indovinare!” D’un tratto, mia madre esclamò, candidamente:
– Come sei bella stasera, Giuliana!
Infatti, un’animazione straordinaria le avvivava le linee del volto, le accendeva gli occhi, la ringiovaniva tutta quanta. All’esclamazione di mia madre, ella arrossì; e un’ombra di quel rossore le rimase per tutta la sera su le gote.
– Giovedì mi alzerò – ripeteva. – Giovedì, fra tre giorni! Non saprò più camminare…
Insisteva col discorso su la sua guarigione, su la nostra partenza prossima. Chiese a mia madre alcune notizie su lo stato attuale della villa, sul giardino.
– Io piantai un ramo di salice vicino alla peschiera, l’ultima volta che ci fummo. Ti ricordi, Tullio? Chi sa se ce lo ritroverò…
– Sì sì, – interruppe mia madre, raggiante – ce lo ritroverai; è cresciuto; è un albero. Domandalo a Federico.
– Davvero? Davvero? Dimmi dunque, mamma…
Pareva che quella piccola particolarità in quel momento avesse per lei un’importanza incalcolabile. Ella divenne loquace. Io mi meravigliavo ch’ella fosse così a dentro nell’illusione, mi meravigliavo ch’ella fosse così trasfigurata dal suo sogno. “Perché, perché questa volta ella ha creduto? Come mai si lascia così trasportare? Chi le dà questa insolita fede?” E il pensiero della mia infamia prossima, forse inevitabile, mi agghiacciava. “Perché inevitabile? Non saprò dunque mai liberarmi? Io debbo, io debbo mantenere la mia promessa. Mia madre è testimone della mia promessa. A qualunque costo, la manterrò.” E con uno sforzo interiore, quasi direi con una scossa della conscienza, io uscii dal tumulto delle incertezze; e mi rivolsi a Giuliana, per un moto dell’anima quasi violento.
Ella mi piacque ancóra, eccitata com’era, vivace, giovine. Mi rammentava la Giuliana d’un tempo, che tante volte in mezzo alla tranquillità della vita familiare io aveva sollevata d’improvviso su le mie braccia, come preso da una follia repentina, e portata di corsa nell’alcova.
– No, no, mamma; non mi far più bere – ella pregò, trattenendo mia madre che le versava il vino. – Già ho bevuto troppo, senza accorgermene. Ah questo Chablis! Ti ricordi, Tullio?
E rise, guardandomi dentro le pupille, nell’evocare il ricordo d’amore su cui ondeggiava il fumo di quel delicato vino amaretto e biondo ch’ella prediligeva.
– Mi ricordo – io risposi.
Ella socchiuse le palpebre, con un leggero tremolio dei cigli. Disse poi:
– Fa caldo qui. È vero? Ho gli orecchi che mi scottano. E si strinse la testa fra le palme, per sentire il bruciore. Il lume, che ardeva a lato del letto, rischiarava intensamente la lunga linea del viso; faceva rilucere tra il folto de’ capelli castagni alcuni fili d’oro chiaro, ove l’orecchio piccolo e fine, acceso alla sommità, traspariva.
A un punto, mentre io aiutavo a sparecchiare (mia madre era uscita, e la cameriera anche, per un momento, e stavano nella stanza attigua), ella chiamò sottovoce:
– Tullio!
E, con un gesto furtivo attirandomi, mi baciò su una gota.
Ora, non doveva ella con quel bacio riprendermi interamente, anima e corpo, per sempre? Quell’atto, in lei così sdegnosa e così fiera, non significava che ella voleva tutto obliare, che aveva già tutto obliato per rivivere con me una vita nuova? Avrebbe potuto ella riabbandonarsi al mio amore con più grazia, con maggior confidenza? La sorella ridiventava l’amante a un tratto. La sorella impeccabile aveva conservato nel sangue, nelle più segrete vene, la memoria delle mie carezze, quella memoria organica delle sensazioni, così viva nella donna e così tenace. Ripensando, quando mi ritrovai solo, ebbi interrottamente alcune visioni di giorni lontani, di sere lontane. “Un crepuscolo di giugno, caldo, tutto roseo, navigato da misteriosi profumi, terribile ai solitarii, a coloro che rimpiangono o che desiderano. Io entro nella stanza. Ella è seduta presso alla finestra, con un libro su le ginocchia, tutta languida, pallidissima, nell’attitudine di chi sia per venir meno. – Giuliana! – Ella si scuote, si risolleva. – Che fai? – Risponde: – Nulla. – E un’alterazione indefinibile, come una violenza di cose soffocate, passa nei suoi occhi troppo neri.” Quante volte, dal giorno della triste rinunzia, ella aveva patito nella sua povera carne quelle torture? Il mio pensiero s’indugiò intorno alle imagini suscitate dal piccolo fatto recente. La singolare eccitazione mostrata da Giuliana mi rammentò certi esempi della sua sensibilità fisica straordinariamente acuta. La malattia, forse, aveva aumentata, esasperata quella sensibilità. Ed io pensai, curioso e perverso, che avrei veduto la debole vita della convalescente ardere e struggersi sotto la mia carezza; e pensai che la voluttà avrebbe avuto quasi un sapore di incesto. “Se ella ne morisse?” pensai. Certe parole del chirurgo mi tornavano alla memoria, sinistre. E, per quella crudeltà che è in fondo a tutti gli uomini sensuali, il pericolo non mi spaventò ma mi attrasse. Io m’indugiai ad esaminare il mio sentimento con quella specie di amara compiacenza, mista di disgusto, che portavo nell’analisi di tutte le manifestazioni interiori le quali mi paressero fornire una prova della malvagità fondamentale umana. “Perché l’uomo ha nella sua natura questa orribile facoltà di godere con maggiore acutezza quando è consapevole di nuocere alla creatura da cui prende il godimento? Perché un germe della tanto esecrata perversione sàdica è in ciascun uomo che ama e che desidera?”
Questi pensieri, più che il primitivo spontaneo sentimento di bontà e di pietà, questi pensieri obliqui mi condussero in quella notte a raffermare il mio proposito in favore della illusa. L’Assente mi avvelenava anche di lontano. Per vincere la resistenza del mio egoismo, ebbi bisogno di contrapporre all’imagine della deliziosa depravazione di quella donna l’imagine di una nuova rarissima depravazione che io mi promettevo di coltivar con lentezza nella onesta securità della mia casa. Allora, con quell’arte quasi direi alchimistica che io aveva nel combinare i varii prodotti del mio spirito, analizzai la serie degli “stati d’animo” speciali in me determinati da Giuliana nelle diverse epoche della nostra vita comune, e ne trassi alcuni elementi i quali mi servirono a construrre un nuovo stato, fittizio, singolarmente adatto ad accrescere l’intensità di quelle sensazioni che io voleva esperimentate. Così, per esempio, allo scopo di rendere più acre quel “sapore d’incesto” che m’attraeva eccitando la mia fantasia scellerata, io cercai di rappresentarmi i momenti in cui più profondo era stato in me il “sentimento fraterno” e più schietta mi era parsa l’attitudine di sorella in Giuliana.
E chi s’indugiava in queste miserabili sottigliezze di maniaco era l’uomo medesimo che poche ore innanzi aveva sentito il suo cuore tremare nella semplice commozione della bontà, al lume di un sorriso impreveduto!
Di tali crisi contradittorie si componeva la sua vita: illogica, frammentaria, incoerente. Erano in lui tendenze d’ogni specie, tutti i possibili contrarii, e tra questi contrarii tutte le gradazioni intermedie e tra quelle tendenze tutte le combinazioni. Secondo il tempo e il luogo, secondo il vario urto delle circostanze, d’un piccolo fatto, d’una parola, secondo influenze interne assai più oscure, il fondo stabile del suo essere si rivestiva di aspetti mutevolissimi, fuggevolissimi, strani. Un suo speciale stato organico rinforzava una sua speciale tendenza; e questa tendenza diveniva un centro di attrazione verso il quale convergevano gli stati e le tendenze direttamente associati; e a poco a poco le associazioni si propagavano. Il suo centro di gravità allora si trovava spostato e la sua personalità diventava un’altra. Silenziose onde di sangue e d’idee facevano fiorire sul fondo stabile del suo essere, a gradi o ad un tratto, anime nuove. Egli era multanime. Insisto su l’episodio perché veramente segna il punto decisivo.
La mattina dopo, al risveglio, non conservavo se non una nozione confusa di quanto era accaduto. La viltà e l’angoscia mi ripresero appena ebbi sotto gli occhi un’altra lettera di Teresa Raffo, con cui ella mi confermava il convegno a Firenze pel 21, dandomi istruzioni precise. Il 21 era sabato, e giovedì 19 Giuliana si levava per la prima volta. Io discussi a lungo, con me stesso, tutte le possibilità. Discutendo, incominciai a transigere. “Sì, non c’è dubbio: è necessaria una rottura, è inevitabile. Ma in che modo io romperò? con quale pretesto? Posso io annunziare il mio proposito a Teresa con una semplice lettera? La mia ultima risposta era ancóra calda di passione, smaniosa di desiderio. Come giustificare questo mutamento subitaneo? Merita la povera amica un colpo tanto inaspettato e brutale? Ella mi ha molto amato, mi ama; ha sfidato per me, un tempo, qualche pericolo. Io l’ho amata… l’amo. La nostra grande e strana passione è conosciuta; invidiata anche; insidiata anche… Quanti uomini ambiscono a succedermi! Innumerevoli.”
Numerai rapidamente i rivali più temibili, i successori più probabili, considerandone le figure imaginate. “C’è forse a Roma una donna più bionda, più affascinante, più desiderabile di lei?” La stessa accensione repentina, avvenuta la sera innanzi nel mio sangue, mi percorse tutte le vene. E il pensiero della rinunzia volontaria mi parve assurdo, inammissibile. “No, no, non avrò mai la forza; non vorrò, non potrò mai.”
Sedata la turbolenza, proseguii il vano dibattito, pur avendo in fondo a me la certezza che, giunta l’ora, non avrei potuto non partire. Ebbi però il coraggio, uscendo dalla stanza della convalescente, essendo ancóra tutto vibrante di commozione, ebbi il supremo coraggio di scrivere a quella che mi chiamava: “Non verrò”. Inventai un pretesto; e, mi ricordo bene, quasi per istinto lo scelsi tale che a lei non sembrasse troppo grave. – Speri dunque che ella non curi il pretesto e t’imponga di partire? – chiese qualcuno dentro di me. Non sfuggii a quel sarcasmo; e un’irritazione e un’ansietà atroci s’impadronirono di me, non mi diedero tregua. Facevo sforzi inauditi per dissimulare, al conspetto di Giuliana e di mia madre. Evitavo studiosamente di trovarmi solo con la povera illusa; e ad ogni tratto mi pareva di leggere nei suoi miti umidi occhi il principio di un dubbio, mi pareva di veder passare qualche ombra su la sua fronte pura. Il giorno di mercoledì ebbi un telegramma imperioso e minaccioso (non era quasi aspettato?): “O tu verrai o non mi vedrai più. Rispondi”. E io risposi: “Verrò”.
Sùbito dopo quell’atto, commesso con quella specie di sovreccitazione inconsciente che accompagna tutti gli atti decisivi della vita, io provai un particolare sollievo, vedendo gli avvenimenti determinarsi. Il senso della mia irresponsabilità, il senso della necessità di ciò che accadeva ed era per accadere divennero in me profondissimi. “Se, pur conoscendo il male che io faccio e pur condannandomi in me medesimo, io non posso fare altrimenti, segno è che obbedisco a una forza superiore ignota. Io sono la vittima di un Destino crudele, ironico ed invincibile.”
Nondimeno, appena misi il piede su la soglia della stanza di Giuliana, sentii piombarmi sul cuore un peso enorme; e mi soffermai, vacillante, fra le portiere che mi nascondevano. “Basterà ch’ella mi guardi per indovinar tutto” pensai smarrito. E fui sul punto di tornare indietro. Ma ella disse, con una voce che non m’era mai parsa tanto dolce:
– Tullio, sei tu?
Allora feci un passo. Ella gridò, vedendomi:
– Tullio, che hai? Ti senti male?
– Una vertigine… M’è passata già – risposi; e mi rassicurai pensando: “Ella non ha indovinato”.
Ella, infatti, era inconsapevole; e a me pareva strano che così fosse. Dovevo io prepararla al colpo brutale? Dovevo parlare sinceramente o architettare qualche menzogna pietosa?
Oppure dovevo partire all’improvviso, senza avvertirla, lasciandole in una lettera la mia confessione? Qual era il modo preferibile per rendere meno grave a me lo sforzo e meno cruda in lei la sorpresa?
Ahimè, nel dibattito difficile, per un tristo istinto io mi preoccupavo d’alleggerir me più di lei. E certo avrei scelto il modo della partenza improvvisa e della lettera, se non mi avesse trattenuto il riguardo per mia madre. Era necessario risparmiare mia madre, sempre, ad ogni patto. Anche questa volta non sfuggii al sarcasmo interiore. “Ah, ad ogni patto? Che cuore generoso! Ma pure, via, è così comodo per te il vecchio patto, ed anche sicuro… Anche questa volta, se tu vorrai, la vittima si sforzerà di sorridere sentendosi morire. Confida in lei, dunque, e non ti curare d’altro, cuore generoso.”
L’uomo trova nel sincero e supremo disprezzo di sé medesimo qualche volta, veramente, una particolare gioia.
– A che pensi, Tullio? – mi domandò Giuliana, con un gesto ingenuo appuntandomi l’indice tra l’uno e l’altro sopracciglio come per fermare il pensiero.
Io le presi quella mano, senza rispondere. E il silenzio stesso, che parve grave, bastò a modificare di nuovo l’attitudine del mio spirito; la dolcezza che era nella voce e nel gesto della inconsapevole mi ammollì, mi suscitò quel sentimento snervante da cui hanno origine le lacrime; che si chiama pietà di sé. Provai un acuto bisogno d’essere compassionato. Nel tempo medesimo qualcuno mi suggeriva dentro: “Approfitta di questa disposizione d’animo, senza fare per ora alcuna rivelazione. Esagerandola, tu puoi facilmente giungere fino al pianto. Tu sai bene che straordinario effetto abbia su una donna il pianto dell’uomo amato. Giuliana ne sarà sconvolta; e tu sembrerai essere travagliato da un dolore terribile. Domani poi, quando tu le dirai la verità, il ricordo delle lacrime ti rialzerà nell’animo di lei. Ella potrà pensare: – Ah, dunque per questo ieri piangeva così dirottamente. Povero amico! – E tu non sarai giudicato un egoista odioso; ma sembrerai aver combattuto con tutte le tue forze invano contro chi sa qual potere funesto; sembrerai essere tenuto chi sa da quale morbo immedicabile e portare nel tuo petto un cuore lacerato. Approfitta, dunque, approfitta”.