“Che cerchi? Tutte le ebrezze della vita? Esci, va, inèbriati. Nella tua casa, come un’imagine velata in un santuario, la creatura taciturna e memore aspetta. La lampada, dove tu non versi mai una stilla d’olio, rimane sempre accesa.” Non è questo il sogno di tutti gli uomini intellettuali?
Anche: “In qualunque ora, dopo qualunque fortuna, ritornando, tu la ritroverai. Ella era sicura del tuo ritorno ma non ti racconterà la sua attesa. Tu poserai il capo su le sue ginocchia; ed ella ti passerà lungo le tempie l’estremità delle sue dita, per magnetizzare il tuo dolore”.
Ben un tal ritorno era nel mio presentimento: il ritorno finale, dopo una di quelle catastrofi interne che trasformano un uomo. E tutte le mie disperazioni venivano temperate da un’intima confidenza nell’indefettibile rifugio; e in fondo a tutte le mie abiezioni scendeva un qualche lume dalla donna che per amore di me e per opera mia aveva raggiunto il sommo dell’altezza corrispondendo perfettamente a una forma delle mie idealità.
Bastava un dubbio a distruggere ogni cosa in un attimo?
Io riandai tutta la scena passata tra me e Giuliana, dal momento del mio ingresso nella stanza al momento della sua uscita.
Pur attribuendo gran parte dei miei moti intimi a uno speciale stato nervoso transitorio, non potei dissipare la strana impressione esattamente espressa dalle parole: “Ella mi pareva un’altra donna”. Certo, una qualche novità era in lei. Ma quale? La dedica di Filippo Arborio non aveva piuttosto un significato rassicurante? Non riaffermava appunto l’impenetrabilità della TVRRIS EBVRNEA? L’appellativo glorioso era stato suggerito a colui o semplicemente dalla fama di purezza che avvolgeva il nome di Giuliana Hermil o anche da un tentativo d’assalto fallito e forse da una rinunzia all’assedio intrapreso. La Torre d’avorio doveva essere dunque ancóra intatta.
Ragionando così per medicare il morso del sospetto, io provavo in fondo a me una vaga ansietà, quasi temessi l’insorgere improvviso d’una qualche obbiezione ironica. “Tu sai: la pelle di Giuliana è straordinariamente bianca. Ella è proprio pallida come la sua camicia. L’appellativo sacro potrebbe anche nascondere un significato profano..” Ma quell’indegnamente. “Eh, eh, quanti cavilli!”
Un impeto iroso d’insofferenza interruppe quel dibattito umiliante e vano. Mi ritrassi dalla finestra, scossi le spalle, feci due o tre giri per la stanza, apersi un libro macchinalmente, lo respinsi. Ma l’ambascia non diminuiva. “Insomma”, pensai fermandomi come per affrontare un avversario invisibile “tutto questo a che conduce? O ella è già caduta, e la perdita è irreparabile; o ella è in pericolo, e io nel mio stato presente non posso intervenire per salvarla; o ella è pura con la forza di serbarsi pura, e allora nulla è mutato. In ogni caso, io non ho alcuna azione da compiere. Ciò che è, è necessario; ciò che sarà, sarà necessario. Questa crisi di sofferenza passerà. Bisogna aspettare. I crisantemi bianchi sul tavolo di Giuliana, dianzi, com’erano belli! Uscirò per comprarne di simili in gran quantità. Il convegno con Teresa è oggi alle due. Mancano quasi tre ore… Non mi disse ella, l’ultima volta, che voleva trovare il caminetto acceso? Sarà il primo fuoco d’inverno, in una giornata così tiepida. Ella è in una settimana di bontà, mi pare. Se durasse! Ma io alla prima occasione provocherò Eugenio Egano.” Il mio pensiero seguì il nuovo corso, con qualche arresto repentino, con deviamenti improvvisi. Tra le stesse imagini della voluttà prossima mi balenò un’altra imagine impura, quella temuta, quella a cui volevo sfuggire. Alcune pagine ardite e ardenti della Cattolicissima mi tornarono alla memoria. E dall’uno spasimo sorgeva l’altro. E io confondevo, sebbene con una diversa sofferenza, nella medesima contaminazione le due donne e nel medesimo odio Filippo Arborio ed Eugenio Egano.
La crisi passò, lasciandomi nell’animo una specie di vaga disistima mista di rancore verso la sorella. Io mi allontanai sempre più, mi feci sempre più duro, più incurante, più chiuso. La mia trista passione per Teresa
Raffo divenne sempre più esclusiva, occupò tutte le mie facoltà, non mi diede un’ora di tregua. Io era veramente un ossesso, un uomo invaso da una diabolica follia, corroso da un morbo ignoto e spaventevole. I ricordi di quell’inverno sono confusi nel mio spirito, incoerenti, interrotti da strane oscurità, rari.
In quell’inverno non incontrai mai a casa mia Filippo Arborio; poche volte lo vidi in luoghi publici. Ma una sera lo trovai in una sala d’armi; e là ci conoscemmo, fummo presentati l’uno all’altro dal maestro, scambiammo qualche parola. La luce del gas, il rimbombo del tavolato, il tintinno e il luccichio delle lame, le varie pose incomposte o eleganti degli schermitori, lo scatto rapido di tutte quelle gambe inarcate, l’esalazione calda e acre di tutti quei corpi, i gridi gutturali, le interiezioni veementi, gli scoppi di risa ricompongono con una singolare evidenza nel mio ricordo la scena che si svolgeva intorno a noi mentre eravamo l’uno al conspetto dell’altro e il maestro pronunziava i nostri nomi. Rivedo il gesto con cui Filippo Arborio si levò la maschera mostrando il viso acceso, tutto rigato di sudore. Tenendo da una mano la maschera e dall’altra il fioretto, s’inchinò. Ansava troppo, affaticato e un po’ convulso, come chi non ha la consuetudine dell’esercizio muscolare. Istintivamente, pensai ch’egli non era un uomo temibile sul terreno. Affettai anche una certa alterigia; a studio non gli rivolsi neppure una come mi sarei contenuto verso un qualunque ignoto.
– Dunque, – mi chiese il maestro sorridendo – per domani?
– Sì, alle dieci.
– Vi battete? – fece l’Arborio con una curiosità manifesta.
– Sì.
Egli esitò un poco; quindi soggiunse:
– Con chi? se non sono indiscreto.
– Con Eugenio Egano.
M’accorsi ch’egli desiderava di sapere qualche cosa di più, ma che lo tratteneva il mio contegno freddo e in apparenza disattento.
– Maestro, un assalto di cinque minuti – io dissi, e mi volsi per andare nello spogliatoio. Giunto su la soglia, mi soffermai a guardare indietro e scorsi l’Arborio che aveva ripreso a schermire. Un’occhiata mi bastò per conoscere ch’egli era mediocrissimo in quel giuoco.
Quando incominciai l’assalto col maestro, sotto gli occhi di tutti i presenti, s’impadronì di me una particolare eccitazione nervosa che raddoppiò la mia energia. E sentivo su la mia persona lo sguardo fisso di Filippo Arborio.
Dopo, nello spogliatoio, ci ritrovammo. La stanza troppo bassa era già piena di fumo e d’un odore umano acutissimo, nauseante. Tutti là dentro, nudi, nelle larghe cappe bianche, si strofinavano il petto, le braccia, le spalle, con lentezza, fumando, motteggiando ad alta voce, dando sfogo nel turpiloquio alla loro bestialità. Gli scrosci della doccia si alternavano con le grasse risa. E due o tre volte, con un indefinibile senso di repulsione, con un sussulto simile a quello che mi avrebbe dato un violento urto fisico, io intravidi il corpo smilzo dell’Arborio, a cui i miei occhi andavano involontariamente. E di nuovo l’imagine odiosa si formò.
Non ebbi, dopo d’allora, altra occasione d’avvicinare colui e neppure d’incontrarlo. Né me ne curai. Né in seguito fui colpito da alcuna apparenza sospetta nella condotta di Giuliana. Di là dal cerchio sempre più angusto in cui mi agitavo, nulla era per me chiaramente sensibile, intelligibile. Tutte le impressioni estranee passavano sul mio spirito come gocciole d’acqua su una lastra arroventata, o rimbalzando o dissolvendosi.
Gli eventi precipitarono. Su lo scorcio di febbraio, dopo un’ultima e vergognosa prova, avvenne tra me e Teresa Raffo la rottura definitiva. Io partii per Venezia, solo.
Rimasi là circa un mese, in uno stato di malessere incomprensibile; in una specie di stupefazione che le caligini e i silenzii della laguna addensavano. Non altro conservavo in me che il sentimento della mia esistenza isolata, tra i fantasmi inerti di tutte le cose. Per lunghe ore non altro sentivo che la fissità grave, schiacciante, della vita e il piccolo battito di un’arteria nella mia testa. Per lunghe ore mi teneva quel fascino strano che esercita su l’anima come su i sensi il passaggio continuo e monotono di qualche cosa indistinta. Piovigginava. Le nebbie su l’acqua prendevano talvolta forme lugubri, camminando come spettri con un passo lento e solenne. Spesso nella gondola, come in una bara, io trovavo una specie di morte imaginaria. Quando il rematore mi chiedeva in che luogo dovesse condurmi, io facevo quasi sempre un gesto vago; e comprendevo dentro di me la disperata sincerità delle parole: “Dovunque, fuori del mondo!”.
Tornai a Roma negli ultimi giorni di marzo. Avevo della realtà un senso nuovo, come dopo una lunga eclisse della conscienza. Una timidezza, uno smarrimento, una paura senza ragione mi prendevano talvolta all’improvviso; e mi sentivo debole come un fanciullo. Guardavo intorno a me di continuo, con un’attenzione insolita, per riafferrare il significato vero delle cose, per coglierne i giusti rapporti, per rendermi conto di ciò che era mutato, di ciò che era scomparso. E, come a poco a poco rientravo nell’esistenza comune, si ristabiliva nel mio spirito l’equilibrio, si ridestava qualche speranza, risorgeva la cura dell’avvenire.
Trovai Giuliana molto abbattuta di forze, alterata nella salute, triste come non mai. Poco parlammo e senza guardarci dentro alle pupille, senza aprire i nostri cuori. Ambedue cercavamo la compagnia delle due bambine; e Maria e Natalia in una felice inconsapevolezza riempivano i silenzii con le loro fresche voci. Un giorno Maria domandò:
– Mamma, andremo quest’anno, per Pasqua, alla Badiola?
Io risposi, invece della madre, senza esitare:
– Sì, andremo.
Allora Maria si mise a saltare per la stanza, in segno di gioia, trascinando la sorella. Io guardai Giuliana.
– Vuoi che andiamo? – le chiesi, timido, quasi con umiltà.
Ella consentì col capo.
– Vedo che tu non stai bene – soggiunsi. – Anche io non sto bene… Forse la campagna… la primavera…
Ella era distesa in una poltrona, tenendo le mani bianche posate lungo i bracciuoli; e la sua attitudine mi ricordò un’altra attitudine: quella della convalescente nel mattino della levata ma dopo l’annunzio.
Fu decisa la partenza. Ci preparammo. Una speranza luceva nel profondo della mia anima, e io non osavo mirarla.
I
Il primo ricordo è questo. Intendevo, quando ho incominciato il racconto, intendevo: questo è il primo ricordo che si riferisce alla cosa tremenda.
Era di aprile, dunque. Eravamo da alcuni giorni alla Badiola.
– Ah, figliuoli miei, – aveva detto mia madre, con la sua grande ingenuità – come siete sciupati! Ah quella Roma, quella Roma! Bisogna che restiate qui con me, in campagna, molto tempo, per rimettervi… molto tempo…
– Sì – aveva detto Giuliana, sorridendo – sì, mamma, resteremo quanto vorrai.
Quel sorriso ridivenne frequente su le labbra di Giuliana, in presenza di mia madre; e, sebbene la malinconia degli occhi rimanesse inalterabile, era così dolce quel sorriso, era così profondamente buono che io stesso mi lasciai illudere. Ed osai mirare la mia speranza.
Nei primi giorni, mia madre non si distaccava mai dalle care ospiti; pareva che volesse saziarle di tenerezza. Due o tre volte io la vidi, palpitando d’una commozione indefinibile, io la vidi accarezzare con la sua mano benedetta i capelli di Giuliana. Una volta la udii che chiedeva:
– Ti vuol sempre lo stesso bene?
– Povero Tullio! Sì – rispose l’altra voce.
– Dunque, non è vero…
– Che?
– Quello che mi hanno riferito.
– Che ti hanno riferito?
– Nulla, nulla… Credevo che Tullio ti avesse dato qualche dispiacere. Parlavano nel vano di una finestra, dietro le cortine ondeggianti, mentre di fuori stormivano gli olmi. Io mi feci innanzi, prima che s’accorgessero di me; sollevai una cortina, mostrandomi.
– Ah, Tullio! – esclamò mia madre.
E si scambiarono uno sguardo, un po’ confuse.
– Parlavamo di te – soggiunse mia madre.
– Di me! Male? – chiesi con un’aria gaia.
– No, bene – disse Giuliana, sùbito; e io colsi nella sua voce l’intenzione, ch’ella certo ebbe, di rassicurarmi.
Il sole d’aprile batteva sul davanzale, riluceva nei capelli grigi di mia madre, svegliava qualche tenue bagliore su le tempie di Giuliana. Le cortine candidissime ondeggiavano, si riflettevano nei vetri luminose. I grandi olmi dello spiazzo, coperti di piccole foglie nuove, producevano un susurro, ora leggero ora forte, alla cui misura le ombre or meno or più si agitavano. Dal muro stesso della casa, ammantato di violacciocche innumerevoli, saliva un profumo pasquale, quasi un vapore invisibile di mirra.
– Com’è acuto quest’odore! – mormorò Giuliana, passandosi le dita su i sopraccigli e socchiudendo le palpebre. – Stordisce.
Io stavo tra lei e mia madre, un poco indietro. Una voglia mi venne, di chinarmi sul davanzale cingendo l’una e l’altra con le mie braccia. Avrei voluto mettere in quella semplice familiarità tutta la tenerezza che mi gonfiava il cuore e far intendere a Giuliana una moltitudine di cose inesprimibili e riconquistarla intera con quell’unico atto. Ma ancóra mi tratteneva un senso di temenza quasi puerile.
– Guarda, Giuliana, – disse mia madre, indicando un punto del colle – la tua Villalilla. La scorgi?
– Sì, sì.
Ella, schermendosi dal sole con la mano aperta, aguzzava la vista; e io, che la osservavo, notai un piccolo tremito nel suo labbro inferiore.
– Distingui il cipresso? – le chiesi, volendo aumentare con la domanda suggestiva il suo turbamento.
E io rivedevo nella mia imaginazione il vecchio cipresso venerabile che aveva al suo piede un cespo di rose e un coro di passeri alla sua cima.
– Sì, sì, lo distinguo… appena.
Villalilla biancheggiava a mezzo dell’altura, molto lontana, in un pianoro. La catena dei colli si svolgeva d’innanzi a noi con un lineamento nobile e pacato, per ove gli oliveti avevano un’apparenza di straordinaria leggerezza somigliando a un vapore verdegrigio cumulato in forme costanti. Gli alberi in fiore, bianchi e rosei trionfi, interrompevano l’uguaglianza. Il cielo pareva di continuo impallidire, come se nella sua liquidità un latte di continuo si diffondesse e si dileguasse.
– Andremo a Villalilla dopo Pasqua. Sarà tutta fiorita – io dissi, tentando di rimettere in quell’anima il sogno che le avevo strappato brutalmente.
E osai accostarmi, cingere con le mie braccia Giuliana e mia madre, chinarmi sul davanzale tenendo la mia testa tra l’una e l’altra testa; in modo che i capelli dell’una e dell’altra mi sfioravano. La primavera, quella bontà dell’aria, quella nobiltà dei luoghi, quella placida trasfigurazione di tutte le creature per una virtù materna, e quel cielo divino pel suo pallore, più divino come più si faceva pallido, mi davano un senso di vita così nuovo che io pensai tremando dentro di me: “Ma è possibile? Ma è possibile? Ma dunque, dopo tutto quel che è accaduto, dopo tutto quel che ho sofferto, dopo tante colpe, dopo tante vergogne, io posso ancóra trovare nella vita questo sapore! Io posso ancóra sperare, posso ancóra avere il presentimento di una felicità! Chi dunque mi ha benedetto?”. Pareva che tutto il mio essere si alleggerisse, espandendosi, dilatandosi oltre i suoi confini, con una vibrazione sottile, rapida e incessante. Nulla può dare un’idea di ciò che diveniva in me la sensazione minima prodotta da un capello che mi sfiorava la guancia.
Rimanemmo alcuni minuti in quell’attitudine, senza parlare. Gli olmi stormivano. Il tremolio innumerevole dei fiori gialli e violacei, che ammantavano il muro sotto la finestra, incantava le mie pupille. Un profumo denso e caldo saliva nel sole, col ritmo di un alito.
A un tratto, Giuliana si sollevò, si ritirò, smorta, con qualche cosa di torbido negli occhi, con la bocca sforzata come da una nausea, dicendo:
– Quest’odore è terribile. Dà il capogiro. Mamma, non fa male anche a te?
E si volse per andarsene; diede qualche passo incerto, vacillante; poi si affrettò, uscì dalla stanza, seguita da mia madre.
Io le guardai allontanarsi per la fuga delle porte, ancóra tenuto da un resto della sensazione primitiva, trasognato.
II
La mia confidenza nell’avvenire aumentava di giorno in giorno. Non mi ricordavo quasi più di nulla. La mia anima troppo affaticata si dimenticava di soffrire. In certe ore di completo abbandono tutto si dileguava, si distendeva, si fondeva, si immergeva nella fluidità originale, diveniva irriconoscibile. Poi, dopo questi strani dissolvimenti interiori, mi pareva che un altro principio di vita entrasse in me, che un’altra forza mi possedesse.
Una moltitudine di sensazioni involontarie, spontanee, inconscienti, istintive componeva la mia esistenza reale. Tra l’esterno e l’interno si stabiliva un giuoco di minime azioni e di minime reazioni istantanee che fremevano in infinite ripercussioni; e ciascuna di queste ripercussioni incalcolabili si convertiva in un fenomeno psichico stupendo. Tutto il mio essere veniva alterato da ciò che passava nell’aria, da un soffio, da un’ombra, da un bagliore.
Le grandi malattie dell’anima come quelle del corpo rinnovellano l’uomo; e le convalescenze spirituali non sono meno soavi e meno miracolose di quelle fisiche. Davanti a un arbusto fiorito, davanti a un ramo coperto di minute gemme, davanti a un rampollo nato su un vecchio tronco quasi estinto, davanti alla più umile fra le grazie della terra, alla più modesta fra le trasfigurazioni della primavera, io mi soffermavo, semplice, candido, attonito!
Uscivo spesso con mio fratello al mattino. In quell’ora tutto era fresco, facile, libero. La compagnia di Federico mi purificava e mi fortificava come la buona brezza selvaggia. Aveva allora ventisette anni Federico; aveva vissuto quasi sempre nella campagna, d’una vita sobria e laboriosa; pareva portare in sé raccolta la mite sincerità terrestre. Egli possedeva la Regola. Leone Tolstoj, baciandolo su la bella fronte serena, lo avrebbe chiamato suo figliuolo.
Andavamo per i campi senza mèta, di rado ragionando. Egli lodava la fertilità dei nostri dominii, mi spiegava le innovazioni introdotte nelle culture, mi mostrava i miglioramenti. Le case dei nostri contadini erano larghe, ariose, linde. Le nostre stalle erano piene di un bestiame sano e ben pasciuto. Le nostre cascine erano in un ordine perfetto. Spesso, nel cammino, egli s’arrestava per osservare una pianta. Le sue mani virili erano di una delicatezza estrema quando toccavano le piccole foglie verdi in cima ai rametti novelli. Talvolta passavamo attraverso un frutteto. I peschi, i peri, i meli, i ciliegi, i prugni, gli albicocchi portavano su le loro braccia milioni di fiori; giù per la trasparenza dei petali rosei ed argentei, la luce si cangiava quasi direi in una umidità divina, in una cosa indescrivibilmente vaga e benigna; tra i minimi intervalli delle ghirlande leggere, il cielo aveva la vivente dolcezza di uno sguardo.
Egli diceva, imaginando il pensile tesoro futuro, mentre io lodavo i fiori: – Vedrai, vedrai i frutti.
“Io li vedrò” ripetevo dentro di me. “Vedrò cadere i fiori, nascere le foglie, crescere i frutti, colorirsi, maturarsi, distaccarsi.” Questa assicurazione, già passata per la bocca di mio fratello, aveva per me un’importanza grave, come se si riferisse a non so quale felicità promessa e attesa, la quale appunto dovesse svolgersi in quel periodo del parto arboreo, nel tempo che corre tra il fiore e il frutto. “Prima che io abbia manifestato il mio proposito, a mio fratello par già naturale che io rimanga ormai qui, nella campagna, con lui, con nostra madre; poiché egli dice che io vedrò i frutti dei suoi alberi. Egli è sicuro che io li vedrò! Dunque è proprio vero che è incominciata una vita nuova per me, e che questo sentimento ch’io ho dentro di me non m’inganna. Infatti, tutto ora si compie con una facilità strana, insolita, con un’abbondanza d’amore. Come amo Federico! Non l’ho mai amato così.” Tali erano i miei soliloquii interiori, un po’ slegati, incoerenti, qualche volta puerili per una singolare disposizione d’animo che mi portava a vedere in qualunque fatto insignificante un segno favorevole, un pronostico benigno.
Il gaudio mio più intenso era nel sapermi lontano dalle cose passate, lontano da certi luoghi, da certe persone, inaccessibile. Assaporavo talvolta la pace della campagna primaverile raffigurandomi lo spazio che mi divideva dal mondo oscuro dove io avevo tanto sofferto e di dolori tanto cattivi. Una paura indefinita mi stringeva ancóra, talvolta, e mi faceva cercare con sollecitudine intorno a me le prove della sicurtà presente, mi spingeva a mettere il braccio sotto il braccio di mio fratello, a leggere negli occhi di lui l’affetto indubitabile e tutelare.
Io confidavo in Federico, ciecamente. Avrei voluto essere da lui non soltanto amato ma dominato; avrei voluto cedere la primogenitura a lui più degno e star sommesso al suo consiglio, riguardarlo come la mia guida, obedirgli. Al suo fianco non avrei più corso il pericolo di smarrirmi, poiché egli conosceva la via diritta e camminava per quella con un passo infallibile; ed egli anche aveva il braccio possente e mi avrebbe difeso. Era l’uomo esemplare: buono, forte, sagace. Nulla per me uguagliava in nobiltà lo spettacolo di quella giovinezza devota alla religione del “conscientemente bene operare”, dedicata all’amore della Terra. Parevano i suoi occhi aver assunto un limpido color vegetale dalla contemplazione assidua delle cose verdi.
– Gesù della Gleba – io lo chiamai un giorno, sorridendo.
Era un mattino pieno d’innocenza, uno di quei mattini che dànno imagine delle albe primordiali nell’infanzia della Terra. Sul limite di un campo, mio fratello parlava a un gruppo di agricoltori. Parlava in piedi, avanzando di tutto il capo gli astanti; e il suo gesto calmo dimostrava la semplicità delle sue parole. Uomini vecchi incanutiti nella saggezza, uomini maturi già prossimi al limitare della vecchiaia ascoltavano quel giovine. Tutti portavano su i loro corpi nodosi la traccia della grande comune opera. Poiché nessun albero era da presso, poiché il frumento era umile nei solchi, le loro attitudini apparivano integre nella santità della luce.
Come mi vide muovere verso di lui, mio fratello licenziò i suoi uomini per venirmi incontro. Allora spontanea mi uscì dalle labbra la salutazione:
– Gesù della Gleba, osanna!
Egli aveva per tutti gli esseri vegetali una diligenza infinita. Nulla sfuggiva alle sue pupille acute, quasi onniveggenti. Nelle nostre corse mattutine, si soffermava ad ogni tratto per liberare da una chiocciola, da un bruco, da una formica una piccola foglia. Un giorno, senza badarci, camminando, battevo le erbe con la punta del bastone; e le tenere cime verdi recise ad ogni colpo s’involavano. Egli ne soffriva perché mi tolse di mano il bastone ma con un gentile atto; ed arrossì, pensando forse che quella sua misericordia mi sarebbe parsa una esagerata morbidezza sentimentale. Oh quel rossore su quel volto così maschio!
Un altro giorno, mentre spezzavo a un melo qualche ramo fiorito, sorpresi negli occhi di Federico un’ombra di rammarico. Sùbito tralasciai, ritrassi le mani, dicendo:
– Se ti dispiace…
Egli si mise a ridere forte.
– Ma no, ma no… Spoglia pure tutto l’albero.
Intanto il ramo già rotto, ritenuto da alcune delle sue vive fibre, penzolava lungo il fusto; e, proprio, quella frattura umida di linfa aveva un aspetto di cosa dolente; e quei fiori esili, un po’ carnicini, un po’ bianchi, simili a ciocche di rose scempie, che portavano un germe omai condannato, avevano all’aria un tremolio incessante.
Io dissi allora, come ad attenuare la crudezza di quella manomessione:
– È per Giuliana.
E, strappando le ultime fibrille vive, distaccai il ramo già rotto.
III
Non quel ramo solo portai a Giuliana, ma molti altri. Tornavo alla Badiola sempre carico di doni floreali. Una mattina, avendo su le braccia un fascio di spine albe, incontrai nel vestibolo mia madre. Ero un poco ansante, accaldato, agitato da una leggera ebrezza. Domandai:
– Dov’è Giuliana?
– Su, nelle sue stanze – ella rispose, ridendo.
Io feci di corsa le scale, attraversai il corridoio, entrai franco nell’appartamento, chiamai:
– Giuliana, Giuliana! Dove sei?
Maria e Natalia mi uscirono incontro con grandi feste, rallegrate alla vista dei fiori, irrequiete, folli.