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Il Misterioso Tesoro Di Roma
Il Misterioso Tesoro Di Roma
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Il Misterioso Tesoro Di Roma


Non so se un gruppo di studenti italiani avrebbe visitato il nostro paese, suppongo sarebbe potuto capitare, ma le mie informazioni non arrivavano a tanto.

Forse faceva parte di una politica di apertura con il resto del mondo, non lo so, ciò che era chiaro è che non avevo mai visitato il paese e che era una grande opportunità per farlo, quindi non volevo che niente o nessuno mi ostacolassero.

Se il compagno a cui era stato rubato il portafoglio mi avesse detto l’importo che gli mancava, io stesso lo avrei rimborsato in modo da poter continuare pacificamente con quell’escursione.

Non riesco a immaginare quale altro elemento di valore potesse avere in esso, perché tutta la documentazione l’avevamo depositata all’ambasciata. Qui, per muoverci in città, ci avevano fornito una scheda in cui inserire i nostri dati, le indicazioni dell’albergo dove alloggiavamo e il numero di telefono dell’ambasciata. Nonostante fosse appena iniziata la primavera, faceva piuttosto caldo e non eravamo abituati a temperature così elevate in questo periodo dell’anno e abbiamo trovato difficile reperire fontanelle per bere.

Quelle che c’erano non eravamo sicuri che fossero potabili, anche se le persone di lì bevevano senza preoccupazioni, ma prudentemente preferimmo solo rinfrescarci le mani e la testa, dato che una fonte che ha funzionato per così tanti secoli, non poteva essere pulita come avremmo voluto.

Forse era il contrasto, ma quelle persone ci sembravano abbastanza innocenti, lontane dalle grandi città piene del fumo delle fabbriche, a cui eravamo abituati, ma loro pensavano qualcosa del genere di noi, quando restavamo stupiti dai dettagli che loro contemplavano tutti i giorni.

Ci piaceva così tanto quello che vedevamo che alcuni miei colleghi, per non dimenticarlo, si dedicarono a imprimerlo nei loro quaderni da disegno, riempiendoli con schizzi più o meno riusciti degli edifici più significativi e importanti. Altri, al contrario, sembravano essere più bravi a scrivere e si fermavano in ogni strada cercando di raccontare in alcuni paragrafi che meraviglia stavamo percependo. C’erano solo un paio di colleghi che erano riusciti a portare le macchine fotografiche.

Non so come fossero passati attraverso la dogana, dato che ci avevano dato istruzioni specifiche prima di partire sul non portare nessuna tecnologia dal nostro paese, ma suppongo che il cognome dei genitori di quei compagni avesse più peso di qualsiasi altra regola scritta.

Di tanto in tanto ci chiedevano di fermarci per scattare alcune foto in cui appariva l’intero gruppo e sul retro l’edificio in questione.

Forse nel viaggiare ero più inesperto di tutti gli altri, dato che avevo portato solo un piccolo taccuino, in cui volevo raccogliere ogni giorno ciò che era più degno di nota senza riuscire a catturare in quelle poche righe l’ammirazione che suscitava in me quella città ad ogni passo.

Uno degli aspetti che mi è sembrarono più curiosi a causa del contrasto con quello che conoscevo, era il modo in cui le donne si vestivano. Le donne più grandi indossavano un fazzoletto nero sopra la testa e vestivano dello stesso colore. Le ragazze lo facevano con colori discreti e sciarpe molto appariscenti.

Abituato a vedere quelle del mio paese truccate, con ampie gonne a ruota, con maniche corte che lasciavano vedere le braccia e indossando il fazzoletto solo come accessorio decorativo.

Inoltre, sembrava che ci fosse una chiara differenziazione tra i sessi su ciò che poteva o non poteva essere fatto, quindi gli uomini si pavoneggiavano per strada con i loro abiti come se stessero partecipando ai migliori galà, mentre la maggior parte di loro quando non era al lavoro indossava una semplice camicia a causa del caldo incessante, ma per noi era un atteggiamento un po’ strano, gli uomini sembravano essere quelli che comandavano nella società, mentre le donne nascoste cercavano di passare inosservate, come se non avessero avuto nulla da dimostrare o per cui contribuire.

Mi sembrava abbastanza sorprendente, era come se tutti fossero rimasti bloccati nel tempo, per quanto riguardava il modo di vestirsi intendo, non penso che fosse qualcosa di religioso, come con i Quaccheri, una comunità che si era isolata dal mondo, mantenendo la propria cultura senza voler progredire, la prova di ciò era l’abbigliamento che usavano non molto lontano da quello che vedevamo ora.

Beh, quelle erano le mie impressioni a quel tempo, alla fine avrei capito la cultura che stavo vedendo, e tutto era frutto della mia inesperienza, perché come indicato dai colleghi che avevano viaggiato in Europa altre volte, a seconda del paese in cui si era c’erano costumi e modi di vestire totalmente diversi.

Anche i comportamenti di uomini e donne erano abbastanza diversi a seconda del paese in cui ci si trovava, quindi mi raccontarono dell’esuberanza della donna francese che esibiva le sue qualità senza decoro, così da non dover aspettare che fosse l’uomo a cercarla, ma era lei a scegliere quello che sembrava più galante.

Anche in altri luoghi con cui condividevamo una cultura e una lingua comuni, sembravano ancora mantenere tradizioni abbastanza particolari, così a differenza di quanto accadeva nel nostro paese da tempo, le donne non erano ancora riuscite ad avere un livello sufficiente di indipendenza economica e politica, e questo accadeva in Inghilterra, dove erano avvenuti i primi movimenti per ottenere il suffragio universale, ossia che le donne avessero il diritto di votare per scegliere i loro rappresentanti legali e con questo venne loro riconosciuta una serie di diritti che la equiparavano all’uomo, ma, rimuovendo l’aspetto politico, c’erano ancora molte che non lavoravano se non nei settori minori e nelle proprie case.

Quei confronti non cessavano di stupirmi, sarà che questa parte del mondo si stava evolvendo più lentamente di quanto pensassi.

Almeno nel mio paese è stato fatto uno sforzo importante per condividere la cultura con gli altri, una volta integrati nella società tutti gli immigrati che negli ultimi decenni erano venuti da tutti i paesi d’Europa, rifugiati politici, richiedenti asilo o semplicemente parenti, che così si sono incontrati di nuovo.

Molti erano arrivati fuggendo da un sistema politico che non li convinceva, altri cercavano migliori condizioni di vita e opportunità di lavoro e tutti erano stati accolti senza distinzioni di sesso, razza o religione.

In poco tempo avevano assimilato la cultura del paese senza perdere la propria, tanto che per strada era difficile distinguerli, tanto nelle scuole quanto nei posti di lavoro.

Forse ciò che spiccava di più era il colore della loro pelle o alcuni dettagli del viso, ma poiché c’erano già così tanti che erano stati da generazioni e generazioni in questo paese, non era indicativo di nulla.

Ciò che avevano mantenuto come segno di identità erano i loro rituali e cerimonie, al momento di sposarsi o per dire addio ai loro cari quando morivano, ad alcuni dei quali avevo partecipato in più di un’occasione, le prime volte per curiosità e altre per amicizia.

CAPITOLO 2. LA PRIMA SORPRESA

Attraversavamo quelle vecchie strade, molte delle quali acciottolate, alla ricerca di quella che sarebbe dovuta essere una breve visita, ma i luoghi di interesse turistico erano interminabili e innumerevoli, almeno così sembrava al resto dei membri del gruppo, che si emozionava ogni volta che giravamo un angolo scoprendo un edificio importante e antico.

A me così tante visite agli edifici storici risultavano eterne, quindi ero un po’ stanco e affaticato, forse per aver camminato da un posto all’altro per tutta la mattina, o forse per il caldo persistente e per il fuso orario, il che significava che era ancora buio pesto nel mio paese quando era a malapena mezzogiorno qui o poteva anche essere dovuto all’aver fatto le ore piccole, nella nostra esplorazione fallita della vita notturna della città, o una combinazione di quanto appena detto.

Inoltre, tutto questo è rimasto qui immutato per centinaia di anni e penso che continuerà così per molti altri.

Non capisco la necessità che hanno gli altri di visitare ciascuno dei luoghi che sembravano interessanti, documentandoli con fotografie o sui loro quaderni come se fossero loro gli scopritori di antiche rovine.

Mi sedetti accanto a una fontana di pietra, nel mezzo di una piazza, aspettando che i compagni uscissero da una chiesa. Ero distratto, guardavo verso il fondo dello stagno che si formava mentre l’acqua cadeva nella fontana, quando una bambina mi si avvicinò.

Per la sua altezza non credo che avesse più di sei o sette anni, indossava un abito bianco e una sciarpa gialla in testa e con un ampio sorriso mi offrì un fiore con grandi petali bianchi.

Dopo aver raccolto una presenza così preziosa e delicata nelle mie mani e senza conoscere il motivo di quel dono, desiderai pagare ed estrassi alcune monete dal mio portafoglio e gliele mostrai in modo che mettesse le mani per dargliele, ma scosse la testa, dicendomi qualcosa che non capii e sollevando la mano destra all’altezza della testa in un gesto di addio, si voltò e fuggì.

Non sapevo cosa fare di quella piccola meraviglia e la misi nel risvolto della giacca, in altre circostanze non l’avrei fatto, perché sapevo che questo tipo di ornamento fiorito è usato nei matrimoni e in alcuni eventi sociali, sebbene siano usati più spesso dalle donne come accessorio.

Quando alzai lo sguardo, dopo aver sistemato il fiore, vidi che la ragazza si allontanava tra alcuni dei tanti vicoli che conducevano a questa piazza, sinceramente ero un po’ disorientato da questa distribuzione urbanistica piuttosto caotica, abituato alle grandi città in cui dalle strade principali, di dimensioni maggiori, partivano le altre secondarie più piccole, ma qui le dimensioni della strada non erano indicative di nulla, da ognuna di esse nasceva un’altra e successivamente un’altra di dimensioni diverse e da queste altre nuove strade e viali.

Inoltre, le poche indicazioni che enunciavano il nome del luogo in cui ci trovavamo erano scritte in quella lingua straniera, che nonostante condividesse un simile alfabeto era abbastanza enigmatica per me.

Forse se avessi prestato un po’ più di attenzione alle lezioni di lingua antica, in cui i miei insegnanti avevano impiegato così tanti sforzi nel tentativo di inculcarmi l’amore per la cultura classica, ma dal momento che quella materia non contava troppo per il voto finale, non la studiai con molto interesse, e ciò ora mi impediva di approfittare in maniera migliore di questo viaggio, non solo perché la città era piena di iscrizioni su porte e architravi e altri resti archeologici, nella lingua latina antica e già in disuso, ma perché la lingua che i cittadini parlavano qui, l’italiano, ne era una sua derivazione o evoluzione.

Inoltre, la guida che ci era stata assegnata dall’ambasciata, ci aveva fatto da traduttore, parlando con i mercanti e i venditori che si avvicinavano al gruppo per cercare di venderci l’uno o l’altro oggetto o quando volevamo entrare in un edificio privato per contemplare i resti architettonici o storici in quelle ville.

A questo proposito non mi era troppo chiaro il tipo di relazione che l’arte aveva con quella città, sembrava che gli antichi benefattori, i mecenati dell’epoca, pagassero generosamente gli artisti perché lasciassero opere da loro plasmate, e con ciò avevano fatto di quella capitale un centro culturale di riferimento.

È vero che nel mio paese abbiamo alcuni mecenati che donano parte della loro ricchezza a giovani talenti, ma la loro generosità non arriva a livello che i loro benefici vengano riconosciuti decadi dopo decadi come incoraggiamento per le nuove generazioni.

Inoltre, lo stesso governo fornisce, attraverso vari meccanismi, assistenza diretta o di supporto a coloro che si distinguono dagli altri per merito, ma queste sovvenzioni non si concentrano esclusivamente sugli artisti, ma cercano invece di premiare coloro che eseguono meglio un determinato lavoro, affinché possano continuare a formarsi e migliorarsi.

Pertanto, le giovani promesse di scienza, ricerca, arte e persino sport vengono premiate con sussidi in modo che possano dedicarvi la loro vita senza preoccuparsi di trovare un lavoro per pagare i loro studi.

Fortunatamente per me, sono stato tra quei giovani favoriti dalla sorte, premiati dal governo, da cui dipendevano il progresso e il futuro del nostro Paese. Questa borsa di studio statale mi ha permesso di studiare nello stesso centro di altri, senza bisogno di avere un padre con una posizione politica elevata o con una grande fortuna, come alcuni dei miei compagni di viaggio, o senza avere una carriera sportiva straordinaria e promettente come altri.

La mia specialità e il motivo per cui simpatizzavo per le scienze era la matematica, perché fin da piccolo mi piaceva scoprire la relazione che gli elementi avevano in natura, indovinare gli eventi prima che accadessero, prevedere il comportamento degli animali e delle persone.

Di tutto ciò non ne avevo idea, ma quando iniziai a studiare matematica capii che era il linguaggio del futuro poiché con esso avrei potuto fare ipotesi su eventi presenti e futuri, capire le associazioni degli insiemi e il loro comportamento e applicarlo alla vita quotidiana.

Forse era qualcosa di pretenzioso proprio come mi era stato prospettato da qualche insegnante, il cercare di dare un po’ di logica al mondo che ci circonda, senza tener conto del comportamento istintivo. Allo stesso modo, alcuni dei miei colleghi studenti mi criticavano definendomi presuntuoso poiché preferivano affidarsi a qualcosa di intangibile come la buona o la cattiva sorte, ma ero sicuro che dietro ogni fatto e ogni comportamento ci fosse una formula che lo potesse spiegare.

Mi ero quindi specializzato in teorie economiche, attraverso le quali fui in grado di prevedere il comportamento dei governi rispetto al commercio interno ed estero.

La teoria principale che sostenevo è che le città si espandessero o si contraessero a seconda della disponibilità di cibo, non era una questione di buono o cattivo raccolto, ma di facilità o difficoltà dello scambio attraverso il commercio.

Quindi ho riletto la storia attraverso questa ipotesi e ho potuto rivedere come alcuni popoli fossero destinati a scomparire perché non avevano una materia prima da offrire alle città vicine e quindi non potevano commerciare con ciò di cui altri avevano bisogno.

Alcuni dei miei professori, quando dovetti difendere la mia tesi, mi accusarono di forzare la realtà per adattarla al modello matematico, ma ero sicuro che la loro fosse diffidenza.

Se conoscessi tutte le variabili economiche di una determinata città, o almeno le più importanti, potrei prevedere senza troppi errori, quanti anni di sussistenza avrà e se la sua gente si possa trasformare in dominatrice o dominata.

Pertanto, se quelle città che coltivavano e generavano materie prime, non erano circondate da altre persone capaci di trasformarle e produrle, rimanevano senza possibilità di crescita. Era una simbiosi perfetta, vantaggiosa per entrambi, in cui il produttore sopravviveva grazie alla manifattura delle materie prime.