Книга Lia - читать онлайн бесплатно, автор Delio Zinoni. Cтраница 2
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Lia

Ma non dovete pensare che, essendoci una sola casa, Morraine manchi di luce. Tutt’altro. Le sue terrazze e i suoi cortili sono i più belli del mondo. E ogni cortile è diverso dall’altro. Per esempio, c’è il Cortile delle Cento Colonne, il Cortile delle Quattro Fontane, il Cortile dei Tessitori, quello dei Beccai e quello dei Baccellieri, il Cortile del Paradiso, quello degli Uccelli e quello dei Gatti, la Corte delle Lavandaie e il Campo dei Miracoli, e il Cortile dell’Unicorno, del Porcospino, dei Maghi, dei Bottai, quello Rotondo, quello Stretto, quello dei Cinque Cantoni, della Luna Piena e della Luna Calante, quello dei Cavalieri, e di Nostra Signora del Parto, e dei Desideri Perduti. Per muoversi fra di essi ci sono androni e corridoi, e sugli archi che li introducono sono scolpiti stemmi o simboli che servono al posto dei nomi delle vie in altre città. Ci sono anche corridoi segreti e soffitte segrete e cantine segrete.

E soprattutto c’è il Cortile Segreto. Che, ne eravamo ormai certi, altro non era che il Cortile del Serpente indicato sul manifesto.

Nessuno di noi aveva mai visto il Cortile Segreto, che come dice il nome non era un posto dove chiunque potesse entrare come si fa in una piazza. Poiché questa è la differenza fra una piazza e un cortile: nella prima sboccano strade accessibili a tutti: vagabondi e carrettieri, dame e merciai, cani randagi e bambini. In un cortile si entra da una porta, e dipende da quelli che ci abitano tenerla chiusa o aperta.

Quella sera la porta era spalancata.

Lelius doveva essere una persona davvero importante per avere avuto il permesso di dare il suo spettacolo nel Cortile Segreto!

Entrammo, dunque. Dopo che un servo in livrea ebbe esaminato con attenzione non priva di sospetto i nostri biglietti.

Mi aspettavo, è ovvio, di vedere meraviglie: fontane zampillanti e piante esotiche, statue di marmo e gabbie piene di uccelli rari.

Ma ciò che in realtà vedemmo ci lasciò senza fiato. Era un palazzo splendido e sfavillante: marmi di ogni venatura, e colonne come alberi secolari. Statue simili a persone vere immortalate in atti eroici, teneri, strazianti. Affreschi con scene di caccia e di battaglia, flotte a vele spiegate...

Questa visione durò un attimo. Poi un tremolio parve percorrere le mura del palazzo, e avvertii una folata di vento. Come se un terremoto stesse scuotendo Morraine, ma senza alcuna vibrazione sotto i piedi. Chiusi forte gli occhi. Quando li riaprii, il palazzo non c’era più. Era un palcoscenico. Molto più piccolo di quanto mi fosse apparso, perché ingigantito dalla prospettiva; costruito in tela e legno, ma con tale maestria pittorica, e così abilmente illuminato, che l’occhio ne rimaneva volentieri ingannato.

Passato quell’attimo, tutto riacquistò le sue dimensioni normali. Trovammo posto su una delle panche nella quarta o quinta fila. Proprio davanti al palcoscenico, vidi, c'erano delle poltrone riservate a personaggi d'autorità. Ci eravamo da poco seduti che lo spettacolo iniziò. Annunciato da un rullo di tamburi, si presentò un saltimbanco, in un costume giallo e rosso da pagliaccio, che eseguì svariate mirabili capriole le quali finivano, di tanto in tanto, in comici capitomboli da cui si rialzava con aria perplessa, guardando il pubblico con grandi occhi tristi. Fu in una di queste occasioni che la riconobbi, sotto il trucco: era la signora del carro, quella che mi aveva abbracciato quella mattina di quattro anni prima

Poi ci fu un suono di cembali, e strumenti a fiato e a corde che non riconobbi. Apparvero una mezza dozzina di marionette, che eseguirono una pantomima velocissima, senza che si potesse scorgere quali fili le muovessero. Avevano le teste nascoste da larghi cappelli a cono, sotto i quali si scorgevano occhi luminosi e gialli, come candele. La danza che eseguirono era molto elaborata, e non doveva essere priva di qualche significato simbolico, poiché gli spettatori delle prime file, intenditori senza dubbio, applaudivano con convinzione nei momenti più significativi.

Terminò così il prologo, lasciandoci, intendo dire io e i miei due amici, un po’ interdetti ma pieni di aspettativa. Fu solo allora, guardandoci intorno, che ci accorgemmo di essere quasi gli unici ragazzi presenti fra il pubblico, del resto non molto numeroso. Benché attori girovaghi, Lelius e i suoi parevano dunque fare della propria arte un esercizio raffinato, poco adatto al volgo.

E il Cortile Segreto? Catturato dapprima dalla magia del palazzo di tela, e poi dalle capriole della signora e infine dalle evoluzioni della marionette, non avevo neppure pensato di guardarmi intorno. Eppure quello era il luogo delle fantasie di ogni bambino di Morraine! In realtà tutto ciò che si vedeva era poco più che il contorno dei tetti. Poiché il Cortile Segreto non era molto grande, o meglio non era grande come la mia immaginazione lo aveva dipinto; le panche lo occupavano per metà, e il palcoscenico nascondeva i piani bassi. Pilastri di marmo sbrecciato e frammenti di archi incastonati in una facciata alludevano ad un edificio molto più antico. Al riflesso delle lampade, presero forma dei fregi che percorrevano tutto il cornicione: molto corrosi, resi enigmatici dalla luce un po’ vacillante che li colpiva dal basso, anziché da quella del sole per cui erano stati scolpiti. Intuii che rappresentavano delle allegorie, e ne riconobbi alcune: la Verità, sotto forma di una fanciulla quasi nuda, che appoggiata ad una clessidra (emblema del tempo che fugge) mostra con la sinistra il sole e con la destra un serpente che si morde la coda; l’Ambiguità dal volto velato tiene un gatto accovacciato in grembo, e sembra osservare un bambino che gioca con uno specchio. E molte altre.

Poi d’improvviso, e misteriosamente, come se un forte vento avesse soffiato, le lanterne si spensero tutte insieme. Ci furono alcuni istanti di buio, e quando gli occhi si stavano abituando alla luce delle stelle, e scorgevano ombre muoversi sul palcoscenico, ecco di nuovo la luce. Il palazzo aveva subito una parziale metamorfosi: un’ala intera si era aperta, mostrando il mare e un porto magnifico. Una folla di donne era raccolta sui moli, e i marinai salutavano dalle navi, le vele già spiegate al vento. Ma come potevano essere così lontani? Il Cortile non era grande tanto da contenere un porto... Ancora un’illusione: si trattava delle marionette, in un nuovo costume, vicine ma piccole.

In primo piano, un sacerdote di venerabile aspetto. Con voce triste ma ferma narrò l’antefatto. L’isola di Nexus era devastata da pestilenza e sterilità: una maledizione della dea del mare, irata perché i suoi abitanti avevano lasciato perire i naufraghi di una nave senza prestare loro soccorso, onde potersi impadronire del ricco carico... Era la storia di Phenissa e di Teseius.

Il naufrago si interruppe e ci guardò.

Forse non la conoscete. Appartiene ad una terra lontana da qui. Bene dunque: ve la racconterò così come venne rappresentata quella sera da Lelius e dalla sua compagnia, nel Cortile Segreto di Morraine.

(3) LA RECITA


Il sacerdote uscì, accompagnato da una solenne melodia di tube e di polifanti. Dalla parte opposta del palcoscenico entrò un eroe in splendida armatura. Anch’egli, nella generale sventura, aveva da portare il suo fardello. Si era sposato appena il giorno prima con la fanciulla più bella dell’isola. Aveva trascorso con lei appena una notte, ed ora doveva partire insieme agli ultimi uomini validi rimasti sull’isola, per cercare una nuova patria. Ed ecco giungere la diletta sposa, per l’ultimo saluto.

Voi già immaginerete chi era la fanciulla che interpretava la parte di Phenissa. Ed io pure, quella sera nel Cortile Segreto di Morraine. Era colei che avevo atteso di vedere, fin da quando il carro si era allontanato lungo la strada. L’ovale bianco e perfetto del viso. Le labbra rosse come corallo. È inutile che mi dilunghi.

Ma la sposa era velata. Come l’Ambiguità allegorica nel fregio del cortile, non mostrava il suo volto.

Ma non poteva che essere lei! La grazia pudica dei movimenti, la figura esile e flessuosa sotto il ricco vestito in velluto porpora e verde smeraldo. E le mani: il loro roseo pallore sembrava imprigionare la luce delle lampade.

A questo punto il viaggiatore rimase assorto qualche momento.

Quando lei si sollevò il velo, i miei occhi erano così pieni di lacrime che non riuscii a distinguere il suo viso, e dovetti sbattere più volte le palpebre. Le labbra si muovevano. Stava parlando. Mi ero dimenticato di ascoltare. Con espressioni di tenero amore e di strazio per l’imminente separazione, si rivolgeva al marito Teseius, all’attore Lelius. Come può capitare a qualsiasi adolescente, sentivo quelle parole rivolte a me.

Ma torniamo alla storia.

Al pari delle altre donne, Phenissa giura al marito eterna fedeltà. Fosse pure fino alla fine dei loro giorni, attenderanno i loro uomini, tenendo acceso un fuoco in cima alla torre del faro. Teseius scompare dietro le quinte. Le navi partono, su un mare di tela azzurra ondeggiante.

Termina così il primo atto. Cambia la scena: la città adesso è sullo sfondo; in primo piano una spiaggia deserta. Ricompare il sacerdote narrante: lunghi anni sono trascorsi in vana attesa. Esce il sacerdote ed entra Phenissa.

Se prima avevo visto solo il suo viso, questa volta non potei fare a meno di guardare il suo corpo. Mi sentii avvampare. Il vestito della fanciulla era candido e piuttosto trasparente. E anche succinto. Era la prima volta in vita mia che vedevo tanto di una donna. In altri luoghi è diverso, ma Morraine è una città alquanto morigerata. D’altra parte, era l’abito consono alla situazione: Phenissa era venuta sulla spiaggia a bagnarsi, ma soprattutto a scrutare il mare e a sospirare per lo sposo lontano.

In maniera del tutto naturale, il suo dolore si esprime attraverso il canto. Non cercherò di descrivere la sua voce. A che serve dire che era limpida come un ruscello montano, struggente come vento su una foresta innevata... Rammento solo il ritornello:

Passò la rondine sopra le onde.

Passò l’estate e passò l’inverno.

Poi Phenissa si alza di scatto. Cosa ha visto? Scruta il mare... Le navi che tornano? Lancia un grido strozzato. Non è di gioia, piuttosto di angoscia. Corre sulla spiaggia. Mediante qualche macchina scenica, fra le finte onde appare una zattera, con una figura riversa a bordo.

È un naufrago, uno straniero. Phenissa è impaurita, eccitata, incerta. Ma un pensiero più di ogni altro la sprona: ecco, questa è forse l’occasione di fare ammenda dell’offesa recata alla Dea del Mare, causa di tutte le pene della sua gente. Un naufrago da salvare! Lo prende fra le sue braccia, lo rianima. Poi, forse per pudore o forse per timore, forse per un oscuro desiderio di possesso (anche se di tutto questo allora non compresi nulla), lo nasconde nella sua casa. Non osa rivelare alle altre donne la sua presenza.

E a questo punto, immaginate il seguito. Chi di voi potrebbe rimproverare Phenissa: sposa per una sola notte ad un uomo che forse non sarebbe più tornato? Giovane, bella, piena di tenerezza, avendo accanto a sé un uomo dalle molte avventure?

Si innamorò di lui. Resistette a lungo, ma Teseius lontano e appena conosciuto lasciò a poco a poco spazio nel suo cuore allo straniero, presente e salvato dalle acque.

Non dalla furia delle altre donne, però. Poiché il frutto del loro amore non poté restare celato. In un’isola abitata solo da vecchi, donne e bambini, ecco Phenissa attendere un figlio! Lei non poté, non volle nasconderlo.

Il giuramento violato, la gelosia, forse l'invidia, infiammano le donne, che decretano la morte degli adulteri. A stento il vecchio sacerdote riesce a salvare dalla loro furia il bimbo appena partorito.

E per la seconda volta, nel tempo di una sola generazione, un naufrago sacro alla Dea del Mare (che nella sua triplice forma è anche Signora del Cielo Stellato e Ispiratrice del Desiderio Amoroso) veniva ucciso sull’isola di Nexus.

La Dea medesima appare sulla scena, fra abbaglianti lampi di luce e fumi multicolori e musica minacciosa. La sapienza scenica di Lelius raggiungeva qui il suo culmine. La Dea, impersonata dalla signora del carro, maestosa nella sua furia. lancia la sua maledizione contro l’isola. Chiama in suo aiuto i venti di ponente e di occidente, di settentrione e di mezzogiorno. Evoca perfino le oscure potenze della terra profonda, il cui nome non è lecito pronunciare.

Un maremoto tremendo squassa l’isola. Ondate immense la sommergono. Uccidendone tutti gli abitanti superstiti.

Una tenebra rossastra calò sul palcoscenico. Poi, con la lentezza di un’alba primaverile, la luce si fece azzurra, limpidissima. Apparve l’isola: rigogliosa di piante, che ricoprono rovine un tempo maestose.

Ed ecco una vela appare all’orizzonte. È una nave solitaria, male in arnese, che approda a fatica. I marinai sbarcano (sono le marionette), e due uomini avanzano sul proscenio. Sono anziani, la pelle scura e incartapecorita dal sole e dalla salsedine. Con accenti di gioia incredula e stanca salutano la loro buona stella. Finalmente hanno trovato una terra vergine per il loro popolo!

Poi scorgono le rovine. Incertezza, angoscia, orrore si susseguono mentre riconoscono i palazzi, i fori, le case della loro giovinezza. Il vecchio Teseius esce di scena, disperato, quasi folle per il dolore della lunga, inutile separazione. Nella scena successiva è solo. Stringe in una mano qualcosa, che contempla fra le lacrime. È il monile che ha dato alla moglie come dono di nozze e pegno di fedeltà. Nell’altra mano, tiene un secondo monile: è di foggia straniera. Li ha trovati accanto a due scheletri, abbracciati nella morte, sotto un cumulo di pietre.

I segni sono chiari, e Teseius è come annichilito da essi. L’altro vecchio cerca di confortarlo, di insinuare dei dubbi, ma la sua voce è priva di convinzione. Teseius piange, impreca, maledice la sorte, gli dei, Phenissa, lo straniero, gli anni perduti, gli stenti e i pericoli trascorsi sul mare... tutto per nulla. Peggio che nulla. Poi il suo sfogo si quieta fra i singhiozzi. Raccoglie le ossa della moglie, aiutato dal compagno, appresta per esse una sepoltura. Infine vi pone accanto quelle dello straniero. L’unico conforto è perdonare.

La notte cala sui due, senza che si scorga un barlume di speranza.

Ed ecco l’epilogo.

Da una macchina scenica cala sul palco la Dea del Mare, Astar in persona. Fra le braccia stringe un fanciullo di grande bellezza. Teseius è steso a terra, addormentato. Forse si tratta di un sogno.

La dea spiega che l’amore di Phenissa e il perdono di Teseius hanno placato la sua ira. Nel maremoto il figlio di Phenissa e dello straniero si è salvato: la sua culla ha galleggiato sulle acque, ed è stato raccolto. Egli fonderà una nobile città, e la sua stirpe avrà lunga vita fra gli uomini.

Cala il sipario. La dea scompare. Termina il dramma.

Era davvero una bella storia, piena di tragica grandezza e di tenera passione, e l’apprezzammo tutti. Qui, nell’oasi, siamo sempre avidi di nuove storie, e i bravi narratori sono grandemente onorati.

Lì, nel Cortile Segreto (proseguì il naufrago), piansi per Phenissa. Avrei voluto essere Teseius, avrei voluto essere lo straniero. Avrei, soprattutto, voluto essere Lelius, che aveva abbracciato la fanciulla nelle vesti di entrambi.

– Iko... Iko...! – Era Jues che mi chiamava. Io ero già arrivato in fondo alla fila di panche, disturbando parecchi spettatori. – Dove vai?

Già: dove andavo? Il fatto è che non lo sapevo neppure io. Quasi non mi ero accorto di essermi alzato.

Ci accostammo ad un pilastro, nell’ombra, cercando di non farci notare troppo. Lo spettacolo stava proseguendo con un duetto musicale, eseguito da Lelius e dalla signora, con viola e archimboldo.

– Dovete aiutarmi – dissi. Anche Lucibello ci aveva raggiunti.

– A fare cosa?

– A vederla!

– Chi?

– Lei... Phenissa.

– Sei impazzito?

Doveva essere così.

(4) LIA


– Insomma, perché vuoi vederla? – chiese Jues.

– È bella... – balbettai io.

– È innamorato – rise Lucibello.

Mi fermai. Detto così, faceva ridere.

Eravamo sotto il palcoscenico. Lame di luce penetravano fra le tavole, insieme alla musica. Nella luce danzavano innumerevoli particelle di polvere, sollevate dal nostro passaggio. Grosse travi incrociate reggevano l'assito del palco, perdendosi in una geometrica foresta. C'era a stento spazio per stare in piedi.

Anche gli altri due si fermarono. Scrutammo attorno a noi, e ormai non potevamo più avere dubbi: né il palcoscenico né tutta quella polvere erano stati portati lì dal carro. Il Cortile Segreto era un teatro. Guardandoci a vicenda, nelle strisce di luce e di buio, ci colse un brivido. Sentivamo di avere svelato un grande mistero. Questo fece tacere Lucibello, che altrimenti avrebbe continuato a prendermi in giro, e mi evitò di riflettere sulla domanda di Jues.

– Andiamo avanti! – dissi.

Le viscere del palcoscenico parevano senza fine. Ben presto ci trovammo in una zona dove nessuna lama di luce tagliava il buio, e anche la musica filtrava a fatica. Incontrammo ostacoli imprevisti e dolorosi. Infine, ci si parò dinanzi qualcosa che dovemmo aggirare a tentoni. E mentre lo facevamo, si mosse! Si sollevò cigolando. In alto, una botola si aprì e ci inondò di luce. La macchina scenica eruttò forme misteriose.

Qualcuno doveva pur azionarla, pensai. Rischiavamo di essere scoperti. Mi gettai a terra, perdendo di vista i miei due compagni. Il fragore della macchina era enorme, la luce bianchissima e implacabile. Arrancai fra i pali, in cerca di un riparo, e mi ero appena fermato quando vidi un grande sacco rigonfio calare verso di me. Rotolai via appena in tempo per evitare il contrappeso, che si afflosciò a terra fra una nuvola di polvere.

Mi sentivo soffocare. A pochi passi da me, un mastodontico ingranaggio di legno prese a girare con poderosa lentezza.

Non osavo chiamare i miei amici. Avevo paura a proseguire, e mi vergognavo a tornare. Dopo un tempo indefinito, tornò il silenzio sotto il palcoscenico. Da lontano, giungevano le voci e la musica di una nuova rappresentazione.

Decisi di proseguire a gattoni. Non ci volle molto: la foresta di travi terminò bruscamente. Sopra di me c’erano le stelle. E davanti, il carro!

Mi arrestai, nascosto dietro l’ultimo puntello. Che fare adesso? Dove poteva esser Phenissa? Fra le voci che giungevano dal palcoscenico non mi sembrava di udire la sua. E mi venne in mente una cosa: lei era stata l’unica, di tutta la compagnia, ad aver recitato una parte sola. Allora forse poteva essere nel carro...

Le gambe mi tremavano a tal punto che per un po’ non riuscii a muovermi. E quando mi misi a correre, inciampai contro non so cosa e finii rovinosamente per terra. Per farla breve: arrivai al carro, ci girai attorno, sbirciai attraverso ogni apertura. Non vidi niente.

Con un misto di delusione e di sollievo (cosa avrei fatto se l’avessi vista?), mi sedetti con la schiena appoggiata ad una ruota, ansimando e sentendomi molto stupido.

Una finestra si illuminò, davanti a me, di un chiarore giallo e tremolante. Andai a guardare: che avevo da perdere? Dovetti arrampicarmi, perché la finestra era posta in alto, e protetta da una grata di ferro. Scorsi un deposito: grande e cavernoso, con alte volte sorrette da pilastri che la luce fioca della candela non riusciva a raggiungere. Quelli che mi parvero attrezzi teatrali di ogni genere erano ammucchiati fino al soffitto. La fonte della luce era nascosta. Mi arrampicai sulla grata. C’era uno spazio vuoto, al centro del magazzino, ma ne potevo scorgere solo un angolo. Di tanto in tanto in quell’angolo compariva uno dei burattini, facendo capriole impossibili. Per una marionetta, s’intende. Era solo? No: sul pavimento si proiettava un’ombra allungata e indecifrabile...

Scesi, trovai la porta, che mi sembrò enorme, l’aprii con grande cautela, mentre il battito del mio cuore soverchiava il fragore degli strumenti musicali che giungeva dal palcoscenico, e che sembrava preannunciare la fine dello spettacolo.

Scivolai dentro, richiusi la porta. La luce della candela, da quel punto, era quasi invisibile, e sembrava molto lontana; dovetti attendere qualche istante perché i miei occhi si abituassero al buio.

Un leviatano mi guardava da dietro la chiglia di una nave rovesciata. Avanzando, inciampai in un elmo piumato: per fortuna era di cartapesta, e il rumore non fu troppo forte. Accanto c'era una spada spezzata. Trovai poi un leone spelacchiato, un trono senza una gamba, un forziere spalancato. Il ritratto di una dama antica per un attimo mi fece balzare il cuore in gola, tanto sembrava vera nella penombra. Scavalcai alcune colonne cave fatte di legno, riverse a terra, aggirai a debita distanza uno scheletro penzolante, mi infilai sotto un carro trionfale... e fra i raggi dorati di una ruota scorsi finalmente la marionetta che danzava. Per qualche attimo attrasse tutta la mia attenzione: perché senza dubbio, non era manovrata da filo alcuno, né da altro congegno visibile. Pensai: forse è un nano, o una scimmietta travestita...

Ma perché guardavo quello sciocco burattino? Come se avessi paura ad alzare lo sguardo...

Allungando una mano, quasi avrei potuto toccarla. Ma muovere un solo muscolo pareva impresa più ardua che attraversare a nuoto un oceano.

Lo straniero si interruppe. Fissava le fiamme con lo sguardo perso e la fronte aggrottata, come se cercasse nella memoria qualcosa che gli sfuggiva.

Dire che ero innamorato, riprese infine, è troppo. O troppo poco. A quattordici anni non si è veramente innamorati. Era qualcosa di più... primordiale. Come se avessi atteso per tutta la mia vita quel momento, senza saperlo. E il momento mi sfuggiva fra le dita.

Ma vorrete sapere cosa vidi, suppongo. È presto detto: Phenissa seduta su uno sgabello, immobile. Indossava l’ultimo abito di scena, quello in cui era stata lapidata, che era anche lo stesso della scena sulla spiaggia. Teneva gli occhi fissi nella direzione della marionetta, ma senza seguirla nel suoi movimenti. Le labbra erano socchiuse, e sembrava che neppure un alito ne uscisse. Il volto chino, appena velato da una ciocca di capelli neri, aveva un’espressione di quasi impercettibile sorpresa. Per cosa, non avrei potuto immaginare.

Tutto questo durò forse il tempo di dieci respiri o di cento battiti di cuore, il tempo per la marionetta di eseguire una serie completa di capriole.

– Non dovresti essere qui.

Il terrore fu tale che per un attimo la vista mi si annebbiò. Era la voce di Lelius. Mi aveva scoperto! Quando tornai a vedere, la marionetta si era fermata, Phenissa aveva alzato gli occhi, e Lelius era davanti a lei.

– Lia.

Allungò una mano e le toccò la spalla. La fanciulla ebbe un sobbalzo, e nello stesso istante la marionetta balzò in avanti, come... se volesse difenderla. Ma era assurdo. E comunque si fermò.

Phenissa... Lia mosse la bocca come per parlare, e con un’espressione che forse era di dolore chiuse gli occhi. Un gemito quasi impercettibile le uscì dalle labbra.

Lelius si voltò a guardare la marionetta, con irritazione.

– Non devi giocare con questi... – Lia dondolava la testa da destra a sinistra, lentamente.

– Domani reciterai la parte di Issadee – disse Lelius, con voce severa, ma anche, quasi, con... compassione. – Vieni.

Lia, che non aveva ancora riaperto gli occhi, si alzò. Lelius prese con una mano la candela e con l’altra un braccio della fanciulla, e a passi lenti, come un cieco e la sua guida, i due sparirono dietro una statua colossale, alata ma priva di testa. Nel buio, qualcos’altro si mosse. L’ultimo bagliore della fiamma si riflesse sui bottoni dorati delle spalline della marionetta, che seguiva a passi rapidi i suoi padroni. Poco dopo, sentii la porta chiudersi, la chiave girare nella toppa.