Книга Lia - читать онлайн бесплатно, автор Delio Zinoni. Cтраница 3
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Lia

Ci misi un po’ prima di capire che ero prigioniero.

(5) LA TORRE


Il cortile era deserto. Tutti gli spettatori se n’erano andati, i commedianti si erano ritirati le scene smontate, i servitori avevano spento le lampade.

Io avevo provato la porta e le finestre, senza fortuna. Avrei potuto chiamare aiuto, gridare. E rendermi ridicolo agli occhi di Lia. Non l’avevo fatto, e ormai era troppo tardi. Avevo voglia di piangere. Anzi: lo stavo facendo. Pensavo a Jues e a Lucibello che se ne tornavano alle loro case, senza dubbio dopo avermi cercato. Pensavo a mia madre, e al mio letto.

Infine mi riscossi, balzai giù dalla finestra. Dovevo uscire, e c’era un unico posto dove cercare: nelle viscere del magazzino. Nel buio più completo. Doveva esserci un’altra porta: a Morraine, diceva un proverbio, nessuna stanza ha una porta sola.

Il buio si rivelò meno completo di quanto avevo pensato. Si era levata la luna, e una pallida luminescenza disegnava contorni di oggetti, per la maggior parte incomprensibili. Iniziai il giro della stanza, muovendomi a tentoni lungo le pareti. Sotto le mie dita l’intonaco umido si sbriciolava, cadendo con un fruscio di minute foglie morte, lasciando affiorare mattoni e pietre. Quando mi fermavo, e dovevo farlo spesso per superare o aggirare qualche ostacolo, sentivo altre cose muoversi nel magazzino: topi, speravo. Morraine è piena di favole sugli abitatori delle sue cantine. Cercai di convincermi che non credevo più alle favole.

La prima cosa che trovai non fu una porta, ma una botola: me ne accorsi dal risuonare a vuoto dei miei passi. Favole o no, non presi nemmeno in considerazione l’idea di aprirla e di scendere: è più difficile uscire da una cantina che da qualsiasi altro posto, mi dissi. E poi, un’altra porta doveva pur esserci!

Non ne trovai una, ma tre. Tutte chiuse. Ero quasi tornato al punto di partenza, quando inciampai contro una scala. I gradini di pietra salivano lungo la parete, senza balaustra. Si infilavano nel soffitto, piegavano, salivano ancora. A questo punto neppure la luce della luna mi aiutava più. Ogni tanto, nelle pareti, si apriva una porta, invariabilmente chiusa.

Poi le rampe presero un andamento regolare, piegando ogni volta a sinistra: ero dentro una torre. Una serie di feritoie me lo confermò. Tutte troppo strette per uscire.

Alla fine della scala trovai un’ultima porta. Mi sedetti sui gradini, ansimando. Non osavo toccarla. Non sapevo cosa avrei fatto se l’avessi trovata chiusa. Infine mi alzai, tirai un profondo respiro, cercai il catenaccio, lo tirai... spinsi.

La porta non si mosse.

Preso dal panico e dalla rabbia la scossi. E mi diedi dello stupido. Si apriva verso l’interno: era ovvio. La scala proseguiva ancora per qualche gradino e terminava su una terrazza coperta.

Era la più bella notte di luna.

Attorno a me si stendeva tutta Morraine, in argento e seppia. Avrei potuto contare tutte le sue 120 torri, e perfino i 3600 merli delle mura, e le 480 campane, i 600 cipressi, e le 72 bandiere e gli 840 segnavento... Naturalmente non lo feci. Ma una cosa mi colpì, mentre facevo il giro del terrazzo, passando da una colonna di mattoni all’altra: la città pareva estendersi egualmente in tutte le direzioni. Mi trovavo al centro di Morraine. E proprio sotto di me, nel cuore dunque della città, c’era un magazzino di attrezzi teatrali. La cosa mi parve, in quel momento, piena di qualche arcano significato. E nel magazzino c’era una botola... Se solo ci fossero stati con me Jues e Lucibello! Se solo non fosse stato quasi mezzanotte, e chissà cosa pensavano a casa mia! Se solo avessi avuto una lampada... E dopo un attimo pensai: se solo avessi meno paura.

I pipistrelli tentavano voli inquieti attorno alla torre. L’aria era fresca, ma carica della promessa dell’estate, e di odori che arrestavano il respiro. Su alcune terrazze le lampade erano ancora accese, si scorgevano delle figure, e adesso che il mio respiro si era calmato, potevo sentire perfino brandelli di musica e di voci.

Cercai i punti di riferimento della mia casa: la Torre degli Unicorni; un vecchio pino dalla cima piegata, che si alzava al centro del Cortile dell’Uovo; e sullo sfondo, la cima ancora innevata dell’Yiril...

Dovevo solo calarmi dalla torre. Una volta sui tetti, tornare non sarebbe stata un’impresa impossibile: come ho detto, Morraine è una sola casa.

Mi sporsi. La torre non era molto alta, ma c’erano almeno venti braccia per arrivare al tetto sottostante. Senza appigli di cui mi fidassi. Serviva una corda. A malincuore ripresi le scale, tornai nel deposito, frugai nei pressi delle finestre, dove c’era un poco di luce, trovai delle corde che non sembravano troppo sottili né troppo vecchie, le legai ad una grata e diedi qualche strattone per essere sicuro che non si rompessero, me le caricai sulle spalle.

Risalendo lungo la scala, giunto ad un pianerottolo, vidi qualcosa che mi fece fermare: una striscia di luce sotto una porta, alla mia sinistra. Prima, di certo, non l’avevo notata. Forse avevo richiamato l’attenzione di qualcuno, con i rumori che avevo fatto nel cercare le corde. E forse, in questa maniera, sarei uscito più in fretta... No: ormai potevo andarmene da solo. Superai la striscia di luce in punta di piedi, girai un angolo... E tornai indietro: ero penetrato nel Cortile Segreto, e non avevo intenzione di andarmene senza vedere tutto quello che c’era da vedere!

Ma non c’era niente da vedere: solo una lama sottile di luce. Nessuna serratura, e nessun buco per la chiave. Appoggiai l’orecchio al legno. Mi pareva di udire delle voci, ma non ero sicuro che non fosse il pulsare del mio sangue. Il tempo passava veloce. Dovevo andare.

Ripresi la salita. Altre due curve della scala... e di nuovo la luce! Questa volta non si trattava solo di una fessura, ma di una finestrella ovale, protetta da una grata a croce. Mi fermai un attimo a riflettere. Doveva corrispondere alla medesima stanza a cui dava accesso la porta che avevo incontrato prima. Una stanza attorno a cui giravano le scale. Nel cuore della torre.

Mi avvicinai. E vidi: un soffitto a volte ogivali. L’apertura attraversava orizzontalmente una delle volte, e ben poco si vedeva della stanza sottostante. Ma abbastanza per farmi trattenere il respiro. Dunque: uno scaffale altissimo, pieno di vasi in vetro e ceramica; quelli in ceramica con disegni e scritte in caratteri arcaici; quelli di vetro che lasciavano intravedere... non sapevo bene cosa, ma parevano bizzarri animali sospesi in un liquido trasparente. Appeso al soffitto, uno scheletro di mirabili dimensioni, con la coda dotata di aculei e mascelle in grado di stritolare un bue. Il collo di un alambicco, che saliva a spirale fin quasi alla finestrella. Un mantice gigantesco, appoggiato ad una parete. L’angolo di un tavolo ingombro di pergamene, libri, strumenti di ottone e vetro.

Un uomo passò davanti al tavolo. Un giovane: corti ricci biondi, carnagione pallida, lineamenti affilati. Le labbra strette, in un’espressione malinconica e sprezzante insieme. Indossava pantaloni neri, aderenti, una camicia bianca, dalle maniche a sbuffo, farsetto viola, alti stivali neri.

Gettò qualcosa sul tavolo, con un gesto brusco. Era uno dei burattini. Senza il costume blu con gli alamari e i bottoni d’oro, sembrava un bambino. Per un attimo provai una sensazione di orrore indicibile. Era davvero un bambino! Guardai meglio. No, non poteva essere. La distanza, la luce, l’angolazione mi avevano tratto in inganno. Era proprio un burattino: grassoccio, gambe e braccia corte, faccia dai lineamenti esagerati, privo di sesso, dalla pelle biancastra.

L’uomo parlò. Aveva una voce secca, un po’ troppo acuta, con un accento vagamente straniero. – Non c’è niente da fare – disse. Sembrava infastidito dalla cosa. Un’altra figura entrò nella fetta di stanza visibile.

Era Lelius. Si chinò sul burattino e lo toccò, con un gesto quasi di affetto. Il burattino si mosse. Tese un braccio, agitò le gambe in un patetico tentativo di eseguire una capriola.

– Solo lei potrebbe... – cominciò il giovane biondo. Lelius scosse la testa, e il giovane alzò le spalle.

Poi Lelius sparì alla vista, tornò con il costume, rivestì con cura la marionetta. Senza aspettare che avesse finito, il giovane si avviò verso la porta, impaziente. Giunto sulla soglia si girò e disse: – Tu non vieni?

Pensavo si riferisse a Lelius. Invece una terza figura fece la sua apparizione, invisibile fin'ora perché si era trovata proprio sotto la finestrella. E perciò la vidi solo di spalle. Ma era inequivocabilmente una donna, e apparentemente giovane: lunghi capelli lisci e biondi, quasi bianchi, trattenuti da una coroncina con delle pietruzze scintillanti; alta, movimenti flessuosi. Una lunga gonna di velluto verde e corpetto uguale su una camicia bianca. Si arrestò un momento accanto al corpo del burattino. Si chinò su di lui, come per parlargli o per... baciarlo. Poi raggiunse l'uomo sulla porta. Che l'aprì per farla passare e...

Sentii la porta aprirsi, e contemporaneamente il rumore mi giunse anche dalle scale. Per un attimo rimasi paralizzato dal terrore. Poi sentii i passi scendere. Poco dopo una chiave girare in una delle porte del deposito. Lelius, intanto, aveva terminato la vestizione, e preso in braccio la marionetta. Questa, con un movimento improvviso, l’abbracciò. E di nuovo, per un istante, mi parve orribilmente simile a un bambino. Poi anche Lelius uscì, portando con sé la lampada.

Io raggiunsi la sommità della torre con passo ancora più felpato. Non sapevo cosa pensare della scena a cui avevo assistito, ma ero certo che quella stanza fosse un laboratorio alchemico. Il Cortile Segreto si rivelava sempre più colmo di misteri.

Calarmi sui tetti non fu molto difficile. È il genere di esercizio che i genitori di Morraine cercano in ogni modo di scoraggiare, e che i ragazzi imparano prestissimo. Il difficile cominciò dopo. Da che parte dirigermi lo sapevo, ma sui tetti di Morraine le linee rette hanno scarso significato. Anche perché i proprietari dei tetti non amano che qualcuno calpesti le loro tegole, magari le rompa, e frappongono ogni genere di ostacoli ai trasgressori. Ostacoli che rendono i tetti di Morraine oltremodo vari e pittoreschi, e mai su uno stesso livello: inferriate e muretti, siepi degne di giardini pensili e punte metalliche sporgenti. Ostacoli che i bambini di Morraine imparano a superare in tenera età (i tetti sono costruiti in maniera tale che è molto difficile cadere), ma non fra le ombre ingannevoli della luna. Queste sono riservate ai ladri e agli amanti, e a me procurarono non poche escoriazioni.

Trovai infine un lucernario aperto, una soffitta abbandonata, una scala scricchiolante... e alla fine di questa uno dei cortili più malfamati della città, in cui intravidi ombre di donne e di uomini intente ad enigmatici commerci.

Da lì, arrivai a casa di corsa.

Trovai mio padre pallido come non l’avevo mai visto. Mia nonna e le zie parlavano tutte insieme, frastornandomi le orecchie. Mio zio non c’era: era uscito a cercarmi. Quanto a mia madre, corse ad abbracciarmi, in lacrime, salvandomi così da una immediata e dolorosa punizione.

Mia sorella, ancora alzata, mi guardava con grandi occhi pieni di stupore e di una certa invidia.

(6) ESTATE


Le successive notizie su Lia mi giunsero sotto forma di un foglio appallottolato. Me lo portò mia sorella Denize tre giorni dopo, insieme al pranzo. L’aveva appallottolato, con precauzione eccessiva, per passarmelo di nascosto. Diceva:

“Il carro di Lelius è partito questa mattina, all’alba. Non si sa per dove. Nessuno di noi è più riuscito ad entrare.”

Firmato: Jues.

Quanto a me, negli ultimi tre giorni ero rimasto rinchiuso in una stanza priva di finestre, larga tre passi per cinque, con un letto, una sedia, un tavolo, innumerevoli cose vecchie, e mia sorella che mi portava da mangiare. Anche questa stanza aveva almeno due porte: una era quella da cui ero entrato. L’altra, un buco che precipitava verso le cloache. Non era abbastanza largo da indurmi a prenderlo in considerazione come via di fuga. Di notte faticavo a dormire, e ascoltavo il lavorio dei tarli in una vecchia trave del soffitto. Mi faceva pensare all'inenarrabile trascorrere del tempo.

La punizione scadeva il giorno dopo. Dovevo ritenermi fortunato se non era stata più lunga: la mia reticenza sui particolari della serata nel Cortile Segreto, e la confusione sospetta dei resoconti forniti da Jues e Lucibello non erano stati gran che adatti a suscitare clemenza.

Ma così: addio Lia.

In compenso, sul tavolo c’era un libro con i Canti di Pridery, il mitico fondatore di Morraine. Obbligo: impararli a memoria. Ricordo ancora alcuni frammenti:

“Per sei giorni, per sei notti

cavalcò nella steppa.

Volavano i corvi sulla sua testa

correvano i lupi sulle sue tracce.

Si fermò in un campo di neve.

Due gocce di sangue caddero

sul candido manto.

Due giorni rimase a guardarle:

le guance della bella Yrine.”

Io non avevo a disposizione un campo di neve, ma il viso di Lia affiorava dal buio della stanza, ogni volta che spegnevo la lampada. Mi ossessionava. Mi perseguitava. Mi incantava. La prima notte non dormii. La seconda cercai di fuggire: fu un tentativo maldestro e rumoroso, bloccato sul nascere con mio grave scorno. La terza crollai in un sonno inquieto, pieno di sogni sfuggenti. Quando arrivò il biglietto di Jues ero troppo stanco per disperarmi.

Il giorno dopo venni rimesso in libertà. I miei due amici mi aspettavano.

Senza una parola, di comune intesa, raggiungemmo il Cortile delle Rondini, prendemmo una scala di pietra che diventava di legno all’ultimo piano, e finiva con un pianerottolo privo di porte, illuminato da due abbaini contrapposti, da cui entravano e uscivano le rondini. Uno dei muri terminava prima del culmine del tetto, ed era dotato di appigli sufficienti perché dei ragazzini come noi potessero arrampicarsi. Da lì, uno stretto pertugio dava accesso ad una soffitta piena di piccole aperture quadrate, con un minuscolo caminetto in un angolo: una piccionaia abbandonata. Era il nostro rifugio segreto, santuario ed osservatorio (dalle feritoie si scorgeva buona parte di Morraine). Avevamo costruito una panca e un tavolo. Un baule, lì da prima che giungessimo noi, conteneva le nostre cose più preziose: un coltello a serramanico, un rotolo di corda, un vecchio libro con figure araldiche, varie immagini di pietra intagliata, alcuni pezzi di vetro che facevamo passare per pietre di gran pregio, altri oggetti che non ricordo. Avevamo una lampada ad olio, e d’inverno, quando riuscivamo a procurarci la legna, accendevamo il caminetto.

Ci sedemmo con grande solennità, ed io raccontai tutto quello che mi era successo quella sera nel Cortile Segreto, dopo che l’improvviso mettersi in moto della macchina scenica ci aveva separati. Non nascosi nulla ai miei amici... se non per attenuare un poco la paura provata.

Ciò che più di tutto li affascinò, fu il laboratorio di alchimia (come io lo definii senz’altro), e il burattino. Io pensavo soprattutto a Lia, ma ero contento di non doverne parlare troppo. Sulla natura magica delle marionette, nessuno nutrì dubbio alcuno. Neppure Lucibello, che ci teneva a passare come il più disincantato di noi. Che Lelius fosse un mago, anche questo pareva cosa scontata; che Lia fosse soggetta ad un incantesimo, in mancanza di prove decisive suscitò qualche dubbio, ma nessuno volle contraddirmi fino in fondo su questo punto.

Essendo sparito Lelius con il suo carro, la cosa che interessava di più i miei amici era il Cortile Segreto. E soprattutto quella torre, con la corda che forse ancora penzolava su qualche tetto, accessibile a qualunque ragazzino intraprendente!

Erano tutti e due in piedi. Lucibello aveva aperto il baule, si era impadronito della corda e del coltello. Jues si stava arrampicando verso l’uscita.

Ormai non c’era più modo di trattenerli. Partimmo alla ricerca della torre.

L’impresa si rivelò ben presto più difficile del previsto. Per prima cosa, raggiungemmo la cima del Belvedere Dorato, uno dei punti di osservazioni più celebri di Morraine, in cima ad un’altura situata nell’angolo nord-est della città, un tempo mastio di una fortezza trasformata ormai in giardino pubblico: vi si svolgono fiere e spettacoli all’aperto; nei giorni festivi vi dà spettacolo la banda cittadina, sotto gli alberi secolari bancarelle vendono dolci, frittelle, bibite; di sera vi passeggiano gli innamorati. Scrutammo per un’ora buona il panorama, ma non riuscii ad individuare la torre. Molte erano più o meno quadrate, coperte da un tetto, ma nessuna mostrava tracce di corde. Del resto, non mi ero soffermato troppo ad osservarla dall’esterno, mentre fuggivo, e la luce della luna era ingannevole...

Decidemmo di cercare un punto di osservazione più vicino, anche se più basso. Ne provammo vari: la Torre dell’Unicorno per prima, perché mi pareva di ricordarne esattamente la posizione, rispetto al Cortile Segreto: nuova perdita di tempo. Poi, il Panspherion, con uguale insuccesso. I custodi della Torre degli Sguardi ci costrinsero a sloggiare dopo qualche minuto; la Terrazza dei Profumi, oltre ai suoi famosi fiori, possedeva dei cannocchiali: lunghi tubi in ottone dalle lenti imperfette; inutili alla nostra bisogna; e poi l’angolazione era probabilmente sbagliata.

Nel frattempo era giunto il tramonto, e la luce incerta non permetteva di proseguire le ricerche.

La sera mi era stato tolto il permesso di uscire. Forse fra un paio di settimane... e nel frattempo la luna sarebbe stata nuova.

Il giorno successivo scegliemmo un approccio ancora più ravvicinato: battemmo i cortili circostanti a quello Segreto. Ma erano tutti piuttosto stretti, le case alte, e la torre ci si negò anche questa volta. Provammo varie scale, ma tutte si interrompevano prima di raggiungere i tetti, come se formassero una prima linea difensiva intorno al Cortile stesso.

Il terzo giorno decidemmo di provare la via più ovvia, ma che avevamo fino ad allora rimandato, per le ragioni che capirete subito: il cortile in cui ero sceso quella notte.

Era un cortile, ma aveva un nome singolare per Morraine: si chiamava piazza: Piazza dei Miracoli.

Vi sono alcuni luoghi a Morraine che si fregiano di indicazioni tipiche di tutte le normali città: vie, piazze, viali, vicoli. I più ritengono che ciò dimostri semplicemente che un tempo Morraine era stata una città come le altre, cresciuta poi dentro se stessa, occupando tutti gli spazi disponibili. Portano a riprova di questo le tracce di giunture fra edifici un tempo separati, che mostrano materiali e tecniche costruttive diverse, e appaiono distribuite secondo tracciati più o meno rettilinei. Altri oppongono spiegazioni più fantasiose, di cui riferirò solo una: che Morraine sia in realtà un solo, gigantesco edificio (per la precisione un tempio), unico sopravvissuto di una città immensa che un tempo occupava tutta la pianura fino alle pendici dei monti Yiril.

Sia come sia, la Piazza dei Miracoli (anche sull’origine di questo nome esistono varie ipotesi), era uno spazio di forma più o meno ellittica, con due fontane ornate di statue mutile, usate comunemente per lavare la biancheria, un acciottolato irregolare, pieno di erbacce, nessun albero, nessun porticato, ma numerosi androni. La facciate delle case vantavano tracce di anteriori, ciclopiche costruzioni, sotto forma di pietre squadrate alte due braccia e larghe quattro; innumerevoli balconi disposti in apparente disordine; file di panni stesi ad asciugare.

Entrando mi resi conto di due cose: la prima, che non ero in grado di riconoscere l’androne dal quale ero sbucato, quella notte; la seconda: che un gruppo di ragazzini, fra cui alcuni più grandi di noi, ci stavano guardando con aria poco amichevole. Iniziammo un cauto circuito del cortile. Gli altri interruppero il loro gioco, che consisteva nel gettate dei sassi contro un muro e farli rimbalzare il più vicino possibile ad una linea segnata in terra con il gesso, e cominciarono a seguirci, dapprima con lo sguardo e poi con i piedi. Noi tre ci guardammo, scrutammo gli androni. Nessuno sembrava promettente. Affrettammo il passo. Arrivammo ad un quarto di giro. Gli altri erano vicini, il loro aspetto sempre meno rassicurante: sporchi, gli abiti rappezzati, i più piccoli a piedi nudi. Tenevano ancor in mano i sassi con cui avevano giocato.

– La fontana – disse Lucibello, e senza aspettare risposta, partì di corsa. Lo seguimmo senza esitare. In effetti, una delle due fontane era vicinissima, e ci arrivammo nel giro di qualche battito di cuore, prendendo alla sprovvista i nostri avversari.

Le donne che stavano lavando si misero a ridere. Avevano le gonne sollevate, che lasciavano scoperte gambe grassocce e rosee, magre e pelose, e ogni via di mezzo. Cominciarono a spruzzarci di acqua insaponata, e Jues scivolò sulle pietre bagnate, finendo disteso per terra. Una delle lavandaie lo sollevò di peso, e con una pacca sul sedere lo spedì nella direzione della porta opposta a quella da cui eravamo entrati. Un’altra gridò ai ragazzini della Piazza dei Miracoli di lasciarci in pace. Io e Lucibello seguimmo Jues senza bisogno di incoraggiamenti.

In breve: trascorremmo l’intera estate a cercare la torre del Cortile Segreto. Provammo ogni tetto, ogni campanile, ogni terrazza, ogni torre accessibile. Penetrammo in ogni androne (diciamo: quasi ogni androne), salimmo ogni scala, uscimmo da ogni abbaino. I proprietari dei tetti avevano ormai imparato a riconoscerci, e si lamentarono con i nostri genitori. Fummo puniti; tornammo liberi; ricominciammo da capo. In piena estate, ci aggiravamo sui tetti nelle prime ore del pomeriggio, quando il sole a picco teneva tutti lontani dalle terrazze, e le tegole bruciavano i nostri piedi nudi.

Provammo anche l'intrico dei corridoi interni, dopo essere penetrati negli edifici più vicini al cortile segreto. Come in un labirinto, ci perdemo irrimediabilmente in un intrico di di passaggi spesso ciechi.

Avvistammo la Torre varie volte. Ma senza alcuna corda che ne penzolasse. O era stata ritirata, o nessuna di esse era la vera Torre.

Alla fine, diventò una sorta di miraggio, un fuoco fatuo, un fantasma, un sogno. Ci aiutava a trascorrere le lunghe e pigre giornate estive. O meglio: aiutava i miei due amici. Per me la Torre era solo un possibile ma remoto contatto con Lia, con le sue marionette, con Lelius.

Ci appostavamo per lunghe ore, al tramonto, presso la porta del Cortile Segreto. Non la vedemmo mai aprirsi; le finestre rimanevano sempre buie. Seguimmo varie figure dall’aria misteriosa che passarono davanti ad essa: scoprimmo pescivendoli e sellai, tintori e ciabattini, garzoni di bottega e servette. Cercammo più volte di esplorare la Piazza dei Miracoli, anche di sera, senza scoprire la scala da cui ero disceso.

Interrogammo tutti quelli da cui ci aspettavamo qualche risposta circa il Cortile Segreto e i suoi abitanti. Ottenemmo risposte ambigue, ironiche, irritate, alzate di spalle e risolini. In qualche caso anche il consiglio di desistere.

Lucibello, che era il meno ingenuo ma anche il più audace di noi tre, propose ad un certo punto di provare i sotterranei. Si dice infatti che nel sottosuolo di Morraine esista una seconda città, una rete di passaggi analoga a quella che conduce da un cortile all'altro, da un corridoio all'altro, da un tetto all’altro. Lucibello stesso affermava di aver trovato una porta nella cantina della sua casa. Chiusa, peraltro.

Il piano era emozionante e inattuabile (e sospetto che Lucibello ce l’avesse proposto perché sapeva che l’avremmo rifiutato): nessuno di noi aveva mai provato a percorrere i sotterranei; non avremmo saputo come orientarci; infine, c’erano leggende sugli inquietanti abitanti del sottosuolo...