Книга Lia - читать онлайн бесплатно, автор Delio Zinoni. Cтраница 6
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Lia

Poi ci sono negozi che vendono una grande varietà di larve (come vengono chiamate): maschere molto semplici e stilizzate, che riproducono dei tipi fissi e tradizionali, di cui però ogni artigiano e ogni negoziante si vanta di possedere varianti uniche; queste sono a loro volta rielaborate ed arricchite da ciascun compratore, e vengono offerte ad ogni prezzo e in molti materiali: cartapesta, legno intagliato, strati di stoffa irrigidita da colle, gusci di madreperla cuciti, cuoio pressato, lamine di rame, d'oro perfino... eccetera. All’approssimarsi della Festa, lungo i portici di Morraine, file e file di larve guardano i passanti con orbite vuote.

Mancandomi l’abilità necessaria per fabbricare la mia maschera, i soldi per servirmi di un artigiano, e non avendo ereditato alcuna falena lunare, restava una sola alternativa.

Trovai dopo molte ricerche un corridoio che si dipartiva dal Cortile della Luna Piena (il nome mi parve propizio), abbastanza nascosto da avere prezzi più bassi di altri. La vetrina, nient’altro che una finestra in realtà, era interamente occupata dalle maschere: alcune di forma piuttosto insolita, e tutte accomunate da una qualità che non riuscii a definire subito; forse perché si tratta di un sentimento estraneo alla fanciullezza: la malinconia.

L’insegna di legno dipinto diceva:

Adropalus & Charios - Costumi teatrali

Uno dei due stava servendo un cliente, il secondo non era in vista, così ebbi modo di guardarmi intorno. Le maschere erano state disposte sopra la normale mercanzia del negozio, con effetti che apparivano, forse di proposito, grotteschi: c’era un guerriero con la faccia pallida di un fanciullo piangente, un astrologo con quella di un vecchio ubriaco; dall’abito della festa di una contadina spuntava una testa di insetto: ma era piuttosto uno scarafaggio che una falena.

– Che tipo di maschera cerchi?

– Ah... Qualcosa che assomigli a una falena...

Charios, o Adropalus, mi guardò attraverso due lenti rotonde, con la montatura d’oro.

– Le falene non vanno molto, quest’anno – disse, con tanta serietà che per un momento non capii se stesse scherzando o no.

– Deve solo assomigliare a una falena.

L’uomo sorrise. Aveva abbastanza rughe da sembrare anche lui una maschera, e il sorriso aveva l'effetto di ridefinire tutte le rughe del suo viso.

– Vediamo... – Accarezzò con le dita varie maschere appese, come se la loro natura gli si svelasse meglio al tatto che alla vista. Aveva dita lunghe e ossute, come il resto del suo corpo.

– Qui non c’è nessuna falena, temo... Ma vieni.

Una porticina, in fondo al negozio, era chiusa da una pesante tenda nera. Il vecchio dovette chinarsi per passare. Dietro la tenda c’era il suo laboratorio: un lungo bancone illuminato da qualche lampada appesa al soffitto, e da una finestrella che si apriva chissà dove. Sul bancone, una gran quantità di maschere in vari stadi di lavorazione; altre, appese ad asciugare, ci scrutavano come teste mozzate di fantasmi. Sulla parete opposta al bancone, file sovrapposte di costumi, appesi a delle grucce. Un garzone, che poteva avere un anno più di me, comprimeva strati di cartapesta ancora umida su forme di legno.

– Che dici, Beniz, abbiamo qualche falena? – Il ragazzo alzò gli occhi ma non disse niente. Evidentemente non ci si attendeva una risposta da lui.

Il padrone passò in rassegna le maschere sul soffitto. Poi prese una scala, e sparì quasi in mezzo ad esse, fra gli strati superiori già asciutti. Ne discese con una larva oblunga, grandi occhi sporgenti, la bocca simile ad un tozzo becco.

Me la porse.

– Questa è la Formica Saggia. – Le larve hanno tutte dei nomi tradizionali.

Presi la maschera, me la rigirai fra le mani. Poteva andar bene? La fissai negli occhi.

– Non costa molto. E ti posso dare questi...

L’uomo frugò in una scatola, sotto il bancone. Ritirò la mano e me la porse. Era piena di scintillanti pietruzze color smeraldo.

– Incollate sugli occhi fanno un grande effetto.

Ne presi una. Era di vetro, a facce irregolari. Alzai gli occhi. Anche il garzone mi stava guardando, come se la mia decisione rivestisse un qualche arcano significato. Del resto le maschere, a Morraine, sono una faccenda molto seria.

– Va bene.

Il proprietario versò le pietre in un pezzo di carta, lo ripiegò, appoggiò il pacchetto nel lato concavo della maschera.

Prima di uscire dal retrobottega mi fermai a guardare i costumi. Molti sembravano usati.

– Li affittiamo spesso – spiegò il negoziante, senza che gli avessi chiesto alcunché – alle compagnie di attori girovaghi. Ogni città ha dei personaggi favoriti, e non possono portarsi dietro tutti i costumi necessari.

Vidi degli alamari d’oro, e una giacca blu...

– Questo...?

– Guardia di corte.

Scostai i costumi vicini, per accertarmi.

Sì, era uguale.

– C’è anche più piccolo?

– Per te?

– No... Per una marionetta.

– Ah. – Il vecchio fece una pausa. Poi disse, a bassa voce: – Come quelle di Lelius?

Era la prima volta che sentivo qualcuno, a Morraine, pronunciare quel nome.

– Ho visto la sua rappresentazione, la primavera passata... – dissi.

Il vecchio parve sorpreso. Mi ricordai che non c’erano stati molti ragazzini, a parte noi tre, a quello spettacolo. Mi guardò comunque con maggiore rispetto. Forse immaginò che abitassi nel Cortile Segreto.

– Un teatrante di grande talento – disse.

– Non viene spesso a Morraine, vero?

– No. – Si sentì la campanella sulla porta del negozio. Il vecchio si mosse per uscire dal retrobottega.

Io lo seguii. – E dove...?

Le dita ossute scostarono la tenda nera. – Mah! Questi attori non sai mai dove siano. Ma Lelius, credo che preferisca le città della costa: Aspix, Brizern, Narina... Gyenna.

Lasciai che Adropalus (o Charios) servisse il suo cliente, tenendo fra le mani la mia maschera con l’involto di pietruzze smeraldo.

Il prezzo che mi fece fu molto contenuto.

Prima di andarmene dissi: – Grazie, signor...

– Lyian.

Alzai gli occhi, perplesso.

– Adropalus e Charios sono morti da un pezzo – mi spiegò Lyian.

(13) LA FESTA DELLE MASCHERE


La Festa quell’anno cadeva il tredicesimo giorno del Mese-delle-Maschere.

I bambini escono la mattina; i ragazzi si uniscono a loro nel pomeriggio; la sera, la festa raggiunge il suo culmine, con i giovani e gli adulti che esibiscono le maschere più fantastiche, sfarzose, enigmatiche. È proprio indossando la prima vera maschera che a Morraine si raggiunge la maturità.

Io trascorsi la mattina negli ultimi preparativi, che consistevano nel cucire le ali del costume. La maschera stessa era già pronta da qualche giorno. Dal Cortile del Nano giungevano risate di bambini, voci in falsetto, colpi secchi, brontolii cupi: per tradizione nel nostro cortile, la mattina della Festa, si teneva uno spettacolo di burattini. In mezzo ai bambini doveva esserci anche mia sorella.

E d’improvviso fui afferrato dalla tristezza.

Aprii la finestra, montai su una sedia. Dalla mia camera potevo vedere solo i tetti. Uscendo sulle tegole, cosa che avevo fatto molte volte, avrei potuto sbirciare nel cortile. Ma non mi mossi. Ascoltai le voci dei burattinai, riconobbi la storia. Dopo un po’ richiusi la finestra.

L’anno prima ero stato anch’io in mezzo a quei bambini. Niente ansie, niente misteri, niente desideri inappagati. Niente Lia.

Incredibilmente, sentii i miei occhi gonfiarsi di lacrime. Per la prima volta, guardavo la mia infanzia come una cosa che apparteneva al passato.

La falena, per parte sua, mi guardava con occhi smeraldo. Io la guardavo attraverso due fessure tagliate sotto gli occhi della maschera.

Mossi la testa e le antenne della falena ondeggiarono.

Lo specchio che avevo in camera era molto piccolo, e dovetti eseguire vari contorcimenti per esaminare la falena nella sua interezza. L’insetto mi imitava in una sorta di balletto. Le ali, un velo di organza steso su un’intelaiatura di canne, sbattevano in maniera convincente. Non sapevo quanto avrebbero resistito fra la folla del carnevale, ma ne ero molto orgoglioso.

Indossavo, come si addice ad una falena, una corta tunica di un colore marrone arsiccio, di panno spesso e consunto, ritrovata in qualche cassapanca. Ma sul petto avevo disegnato tre spirali concentriche, in rosso, giallo e azzurro.

Ma cosa significava? mi chiesi ancora una volta.

Se l’avevo creata dovevo saperlo. Semplicemente, non l’avevo ancora scoperto. Forse ci sarei riuscito prima di sera. Alcuni trascorrono una vita intera con la stessa maschera, senza mai riuscire a penetrarne il segreto. Altri cambiano maschera spesso, magari da un anno all'altro, alla ricerca del medesimo segreto.

Tornai ad aprire la finestra. Il cielo era coperto, ma le nuvole alte non minacciavano pioggia. Un gatto dal pelo striato e rossiccio ebbe un sobbalzo, sulle tegole. Poi qualche felina percezione lo convinse che ero solo io, e venne a strofinarsi contro la mia mano.

– Ciao, Tigre – dissi.

L’appuntamento era sotto l’orologio del Cortile Rosso, nell’ora in cui il folle con il martello batte due tocchi sulla campana. Perché, vi chiederete, è un matto a battere le ore? Forse perché tenere il conto di tutte le ore di tutti i giorni del tempo è un’operazione di suprema follia.

Comunque arrivai in anticipo, perché non c’erano né Jues né Lucibello. O meglio: non c’erano le loro maschere. Che quel giorno erano Jues e Lucibello.

Mi sedetti sul bordo di una delle panche di pietra ai piedi della torre dell’orologio, per non rovinare le mie ali, e osservai le maschere che mi passavano davanti. Vidi un liocorno e una salamandra, un giullare e un buffo anatroccolo. Forse dietro ciascuno di quei gusci di carta, o cuoio o metallo, c’era un viso noto. Poiché la Festa delle Maschere è innanzi tutto un mistero.

Da lontano vidi una forma nera che avanzava con passo lento e ondeggiante. Sopra il mantello che la copriva fino ai piedi, una maschera con un lungo becco di uccello, e un cappello a larghe tese.

Mi alzai. Quando la maschera dal mantello nero mi fu vicina, vidi che era molto più alta di me. I suoi passi producevano un rumore secco sul selciato di pietra.

– Lucibello? – mormorai a voce molto bassa. Durante la Festa delle Maschere è sconveniente pronunciare i nomi normali delle persone in maniera che altri possano sentirli.

La maschera chinò il becco verso di me. Doveva avere delle specie di trampoli per essere così alta.

– Gli ubu sono ghiotti di falene – disse.

Forse non ci crederete, ma quella frase mi gelò il sangue. Poiché durante la Festa sono le maschere a guidare le persone.

L’arrivo di Jues mi salvò dall’imbarazzo. Era vestito da Pagliaccio Assorto: una maschera bianca, dalla bocca un po’ triste, gli occhi che guardavano in basso, un sobrio costume bianco e nero.

Ci osservammo a vicenda. Come succede fra amici molto stretti, ci eravamo svelati in anticipo la natura delle nostre maschere, ma non le avevamo mai viste.

– Perché i colori? – mi chiese Lucibello. – Le falene sono grigie, o marroni.

– Non sulla Luna – dissi. – Sulla Luna tutto è al contrario. Le falene sono grandi e colorate. E mangiano gli ubu.

L’uccello mi colpì col becco sulla spalla.

– Ma qui siamo sulla Terra!

– No – dissi io. – Siamo alla Festa delle Maschere di Morraine.

E per la prima volta da che mi ricordassi, Lucibello non ebbe nulla da replicare.

Iniziammo così ad aggirarci fra cortili e corridoi.

È impossibile descrivere la Festa delle Maschere a chi non l’abbia mai vista. O meglio, diciamo che io non ne sono capace. Basti sapere questo: ogni cortile dei 240 che compongono la città offre uno spettacolo proprio, allestito a cura dei suoi abitanti. Duecentoquaranta spettacoli in un solo giorno! Nessuno potrebbe vederli tutti. E dunque, ciascun maschera non può che seguire il proprio istinto.

Ciò significa che ben presto, io, Jues e Lucibello ci separammo.

Ma la Festa delle Maschere non solo separa, unisce. Sì, perché una medesima maschera incontrata in più cortili allude ad una segreta affinità. Tanto più che una sola cosa, per inflessibile convenzione, le maschere non osano nascondere: il sesso di chi le indossa. Si dice perciò che la maggior parte dei fidanzamenti, a Morraine, avvengano durante la Festa delle Maschere. Come la maggior parte delle separazioni.

Jues lo lasciammo nel Cortile dell’Ombra, preso da uno spettacolo di mimi dai gesti lenti e misurati, il cui significato sfuggiva alla comprensione mia e di Lucibello, ma evidentemente non a quella del Pagliaccio Assorto.

Procedendo, io e l’ubu scambiammo occhiate con altre maschere, cercando qualche segno... Di cosa, neppure noi sapevamo. Alcuni, nella folla, erano privi di maschera: si trattava invariabilmente di stranieri, poiché è considerata una grave sconvenienza per un abitante di Morraine uscire a volto scoperto in questa occasione. Ma anche molti di coloro che indossavano qualche costume erano stranieri; facilmente riconoscibili, tuttavia, dalla grossolana banalità delle loro scelte, che non sfuggiva neppure a noi ragazzini, benché, temo, sia quasi impossibile da spiegare a chi non è nato e cresciuto nella mia città.

Giungemmo nel Cortile Dorato, che è uno dei più grandi e ornati della città. Qui si esibiva una compagnia venuta da fuori, come capita nei cortili ricchi, dove gli abitanti raccolgono somme a volte ingenti per ingaggiare attori famosi. Segretamente speravo di trovare... ma è inutile che ve lo dica.

Su un palcoscenico illuminato da lampade colorate, benché fosse ancora giorno, personaggi in abiti di seta, rasi e velluti di gran pregio, con ornamenti che sembravano, a chi li guardava dalla platea, di autentico oro e pietre preziose, eseguivano complicate evoluzioni, lanciando di tanto in tanto grida modulate, in cui con qualche fatica riconobbi delle parole, accompagnate da una musica stridente.

Dopo poco, entrò in scena un eremita, la lunga barba bianca, l’abito grigio cenere a brandelli, e misteriosamente, forse proprio per la sua incongruenza, o forse per l’abilità dell’attore, attirò su di sé tutta l’attenzione. L’eremita diede inizio ad un lungo sermone religioso, a cui gli altri personaggi reagirono in varie maniere, a seconda delle loro indoli: scherno, noia, ozioso interesse, fastidio; solo la Principessa, una eterea creatura quasi interamente ricoperta di gioielli, parve commossa e turbata.

Con mia grande sorpresa, Lucibello decise di fermarsi. Per conto mio, ero in preda ad una confusa irrequietezza. Mi allontanai silenziosamente, e voltandomi vidi l’ubu proteso con il lungo becco giallo verso l’eremita, la nera figura che sovrastava di una testa gli altri spettatori.

Trovai, in successione: saltimbanchi che costruivano piramidi umane; un giullare che narrava un cantare cavalleresco aiutandosi con pannelli dipinti e percussioni di vario genere; un cortile semivuoto, mentre gli artisti si riposavano fra un numero e l’altro; dei trapezisti su una corda tesa fra i tetti; nella Piazza dei Miracoli (in cui non avevo più messo piede dall’estate), un corsa di cavalli montati da cavallerizze scarsamente vestite, che avevano come mete le due fontane; una pantomima di orsi ammaestrati. E altri. Le maschere che incontrai erano troppo varie per essere descritte: ci vorrebbe tutta la sera. Notai comunque che la falena lunare suscitava un certo interesse, soprattutto fra maschere ugualmente notturne, che erano poi quelle da cui lei stessa era attratta.

Giunsi infine nel Cortile della Luna Piena.

La sera era già calata su un cielo screziato di viola e di rosso, mentre gli adulti, con le maschere più ricche, avevano cominciato ad uscire.

Lo spettacolo non era ancora iniziato, forse in attesa del buio completo. Su un lato del cortile si alzava un semplice telone bianco, che nascondeva quasi interamente le facciate delle case.

Mi fermai incuriosito, notando la presenza di molte maschere notturne, come del resto si addiceva al luogo.

Poi il telone si illuminò. L’ombra di un drago alato si stagliò su di esso. Vidi che la luce giungeva da dietro il telone. Dalla coda del drago nacque un fiore, da cui crebbe un muso di tigre, poi un volto di fanciulla, poi...

Mi addentrai fra il pubblico. Nel frattempo era iniziata una musica lenta, ma con esplosioni improvvise di cembali, piatti e campane. Terminata la virtuosistica introduzione, destinata ad attirare gli spettatori, iniziò la rappresentazione vera e propria. Quale fosse esattamente la storia, non saprei dire: c’erano solo la musica e le ombre, e forse le ombre erano solo un commento alla musica. O meglio: era un teatro che aspirava a diventare pura immagine, privandosi delle voci e dei corpi. Riconobbi comunque gli indizi di una favola mitologica, in cui un giovane eroe cerca di conquistare l’amore della sacerdotessa di una gelida divinità lunare.

Ma seppi, fin dal primo momento, che era quanto andavo cercando, nella mi identità di Falena Lunare.

Ci fu un’altro evento, in verità, che mi impedì di seguire con attenzione la storia. Fra la folla, scorsi una maschera che sembrava guardarmi: si trovava esattamente di fronte a me, e dunque doveva voltare le spalle alla scena; era metà bianca e metà nera, gli occhi due buchi scuri e insondabili, la bocca leggermente aperta.

Mi pareva di averla già vista, ma non riuscivo a ricordare dove.

(14) LA SIRENA


Avanzando con cautela per non disturbare gli spettatori, e soprattutto per non rovinare le ali della falena, mi avvicinai.

Era una maschera senza dubbio femminile. Come lo sapessi, sarebbe troppo lungo da spiegare: basti dire che vi sono segni indubitabili e certissimi, per un abitante di Morraine.

Ma prima che potessi raggiungerla, essa si ritrasse con sorprendente rapidità, considerando che doveva camminare all’indietro.

Fu allora, credo, che intuii dove avevo già visto quella maschera. Ma non ebbi il tempo di pensarci. Lo spettacolo, senza che me ne fossi accorto, era terminato, e gli spettatori stavano lasciando il cortile. Intravidi l’ovale bianco e nero dirigersi verso un corridoio, mi lanciai all’inseguimento, creando qualche trambusto fra le maschere che, a quell’ora e in quel cortile si muovevano con languida flemma. Quando la ritrovai, non fu una sorpresa scoprire che aveva il corpo di una sirena. E che la maschera, in realtà, le copriva la nuca. Gli occhi, naturalmente, erano chiusi.

Era la stessa figura che avevo vista dipinta sul carro di Lelius, o almeno le assomigliava molto.

Ora che mi trovavo a pochi passi da lei, non sapevo più cosa fare. La seguii per tutto il corridoio, e giunta alla fine, lei si voltò. Per la prima volta vidi la faccia della maschera. Se quella sulla nuca aveva gli occhi chiusi, questa mi guardava con due grandi pupille che sembravano brillare di luce propria, come quelle di un gatto. La falena fece ondeggiare le sue antenne, e lei sollevò il viso di sirena.

Disse: – Perché mi segui, falena?

– Tu mi guardavi con la tua faccia lunare.

Come aveva potuto riconoscere immediatamente la falena, e perché io avevo chiamato lunare la sua maschera posteriore?

Questi sono i misteri della Festa delle Maschere di Morraine.

Lei rise e si voltò, tornando a mostrarmi il volto dagli occhi chiusi. Ricominciò a camminare, ed io mi affiancai.

Passeggiammo in silenzio fino ad un cortile in cui ballerini dai costumi floreali eseguivano complicate coreografie. Lo attraversammo senza soffermarci più di qualche momento. Sbucammo quindi in un cortile quasi deserto: gli attori già se n’erano andati, con i loro arnesi, e restava solo un palco disadorno, qualche panca; sparsi a terra, frammenti caduti dai costumi e carte che avevano contenuto dolciumi. Al centro del cortile gorgogliava una fontana ottagonale. Ci sedemmo sui gradini. Solo qualche finestra gettava nel cortile un chiarore giallastro. Nell’ombra dei portici si aggiravano ombre furtive. Ci guardammo.

Gli occhi della sirena erano molto verdi, luminosi, incredibilmente grandi. Dovevano esserci delle lenti di vetro inserite nelle orbite. La maschera era coperta di minute scaglie di madreperla, e senza dubbio doveva essere molto costosa. In quel momento mi vergognai un poco della mia, fabbricata in casa partendo da una larva di cartapesta.

– Perché i colori? – chiese lei. Per un attimo, ebbi il tremendo sospetto che Lucibello mi avesse giocato uno scherzo. Ma no: la voce, in ogni modo, non poteva essere la sua.

– Sono quelli di una falena lunare – risposi io, in mancanza di meglio. Ma la spiegazione, almeno a lei, dovette apparire sufficiente. Seduta accanto a me, nell’oscurità, il vestito argenteo da sirena la faceva assomigliare ad un fantasma.

– Perché hai due facce? – chiesi io.

– Una guarda in avanti, l’altra indietro.

– Ma una ha gli occhi chiusi.

– Perché guarda dentro.

– Indietro e dentro?

La sirena si stiracchiò senza rispondere.

– Guarda... i ricordi? – azzardai dopo un momento.

Lei si voltò verso di me. – Forse i sogni – rispose.

Scossi la testa. – I sogni non sono dietro, sono davanti.

– No – sibilò lei con singolare veemenza, ma non volle fornire ulteriori spiegazioni.

Cambiai argomento. – Ho già visto quella maschera...

– Impossibile! È il mio primo anno.

– No... l’ho vista su un carro.

La sirena sollevò la testa e mi fissò.

– Quando?

– Cinque primavere fa.

– Un carro di attori?

– Sì. Come...

– Mentre passava per Morraine?

– No, fuori. E poi... nel Cortile Segreto.

Lei si alzò. – Camminiamo.

Ci avviammo verso un cortile da cui proveniva una musica dolce e triste. Ci soffermammo sotto i portici ad ascoltare.

La sirena non rimaneva mai ferma a lungo. Come un pesce, sembrava doversi muovere senza sosta, sospinta da impercettibili correnti abissali. Mi rivolse la sua faccia lunare e si avviò lungo il porticato, senza una parola.

La seguii, in un girovagare apparentemente senza meta.

O forse no. Intuii ad un certo punto che stavamo girando in cerchio sempre più stretti; e che al centro di questi doveva esserci, più o meno, il Cortile Segreto.

Quando raggiungemmo il Cortile della Mezzanotte ne ebbi la certezza. Con l’assenza di stupore propria dei sogni, la vidi dirigersi verso l’androne sormontato dalla testa di unicorno.

Nel cortile, su un palco, dei pagliacci cadevano a terra rovinosamente, giacevano come morti, si rialzavano con immutata foga.

Un gruppo di maschere uscì dall’androne, con risate da ubriachi. Le lasciammo passare, ma mentre la sirena stava per infilarsi nel passaggio arrivò di corsa un ultimo personaggio, la faccia formata da un dorato disco solare, raggiante, con due grandi occhi spalancati. Il sole urtò la sirena. La maschera solare, segno infausto!, quasi cadde, l'uomo la raddrizzò. Non prima che scorgessi dei corti ricci biondi, quasi bianchi. Per un attimo i due rimasero immobili, fissandosi, e io da dietro vidi il sole parzialmente eclissato dalla luna. Poi il sole corse ad unirsi agli altri, e la sirena si addentrò nell’androne.

Dove si apriva il passaggio che conduceva al cortile senza nome, trovammo il cadavere. Un’unica lanterna, sul soffitto a volte illuminava la faccia nuda e livida, contratta in una smorfia. Non ebbi alcun dubbio che fosse morto. Era la cosa più oscena che avessi mai visto. La maschera giaceva poco lontano: un grifone dal becco crudele, inutilmente minaccioso.