Solo quando la sirena mi diede uno strattone, mi accorsi che le stavo stringendo la mano. Non so chi di noi due avesse preso quella dellâaltro. Cercava di trascinarmi verso il passaggio. In quel momento, altri cominciarono a giungere, dalla parte opposta dellâandrone. Non mi mossi; non so se fosse per istinto, o perché lâavevo sentito dire da mio zio (che come ricorderete era stato soldato nella Guardia), ma sapevo che fuggire era il modo migliore per essere indiziati. Con le mie ali bianche e la sua maschera di madreperla, di sicuro qualcuno si sarebbe ricordato di noi.
Una donna gridò. Io agitai un braccio. â Sta male! â dissi.
Un orsacchiotto rosa si chinò sul cadavere. â à morto â disse.
Cedendo alla pressione della sirena, mi accostai poco a poco allâimboccatura del passaggio. Un coniglio dalle orecchie rosa e bianche disse: â Bisogna avvertire la Guardia.
Arrivarono gli spettatori che erano nel cortile, poi anche i pagliacci. Ormai noi due eravamo giunti sotto la bassa volta del passaggio, e la sirena continuava a tirarmi.
Scorsi le divise rosse e blu della guardie. Anche loro indossavano maschere, ma erano semplici cappucci neri, con i buchi per gli occhi e per la bocca.
Nel passaggio il buio era quasi totale. La sirena mi stringeva la mano tanto forte da farmi male, ma mi rifiutai di correre finché non superammo lâangolo a metà del corridoio.
Non avevo alcun dubbio che lei sapesse dove stava andando.
Quando arrivammo alla porta la sirena estrasse una chiave; brillò argentea nella luce di una mezza luna che nel frattempo era sbucata da uno squarcio fra le nuvole, e insinuava i suoi raggi entro lo stretto cortile. Ricordavo di non aver visto alcun buco di serratura nella stretta porticina, ma la chiave era molto piccola, poco più di unâasta con quattro nervature dentellate, e in effetti nel legno câera un buco altrettanto minuscolo.
Quando la sirena fu entrata, richiuse la porta e si appoggiò contro un muro, ansimando. La fenditura era stretta come avevo immaginato da fuori. Ci tenevamo ancora per mano, e quasi senza volerlo, lâabbracciai. Poi lei mi lasciò la mano e si avviò lungo il passaggio.
Le mie ali erano irrimediabilmente rovinate.
Attraversammo, ricordo, quello che mi parve un numero interminabile di corridoi e sale. Solo una era illuminata. Mi arrestai sulla soglia, ma la sirena mi trascinò dentro, impaziente. La sala era deserta. Poi mi arrestai di nuovo. Una delle pareti era coperta da una grande mappa. Una città . Era Morraine e non era Morraine. Riconobbi il Castello, alcuni dei cortili, dei passaggi. Altri invece erano diversi dalla realtà , ne ero certo. Ma la cosa più singolare, era che lâinsieme della mappa formava un disegno, come un fiore complicato ma regolare.
La mia guida mi toccò un braccio. â Adesso andiamo â disse. Con una seconda chiave aprì una piccola porta di quercia, in un angolo della sala.
(15) OCCHI DI GATTO
La Festa delle Maschere di Morraine non è priva di un suo lato oscuro. Essa, infatti, è anche il momento ideale in cui regolare conti in sospeso, rancori accumulati, vendette meditate. Per il resto, devo aggiungere, la nostra è una città molto tranquilla.
La Festa delle Maschere è la situazione ideale per lâassassino: nessuno può riconoscerlo, e far perdere le proprie tracce è facilissimo. Dâaltra parte, è anche la situazione ideale per la vittima, poiché può camuffarsi in maniere pressoché infinite. La maschera fornisce a tutti un alibi, e fa di tutti degli indiziati. Innumerevoli sono i trucchi a cui può ricorrere lâassassino per uccidere impunemente la sua vittima, e altrettanti quelli della vittima per sfuggirgli.
Tuttavia, in maniera del tutto incontrollabile, la maschera determina anche lâassassino e la sua vittima. La maschera è lâassassino e la sua vittima. Così come io ero la falena lunare, e Lucibello un ubo, e la mia compagna una sirena con due facce.
Ma poiché si è vittime ed assassini per infiniti e spesso futili motivi (anche se alcuni ascrivono a pochi e imperativi moventi lâimpulso omicida, o addirittura a due soli: amore e denaro, nelle loro varie forme), non esiste una maschera da omicida ed una da vittima, ma esiste sempre qualcosa, per quanto indecifrabile, che le collega.
Rintracciare questi segni permette di introdurre un certa logica in indagini altrimenti disperate. A condizione di scoprire di quale logica si tratti.
La sirena disse: â Non dovrai dire nulla di me...
La sirena era seduta sul trono.
Io dissi, con assoluta ed immediata sincerità : â Non dirò nulla di te.
â ... se mai dovessero interrogarti â finì.
Il trono era quello, privo di una gamba, che si trovava nel deposito di attrezzi teatrali del Cortile Segreto. La maschera di madreperla appariva sospesa nel buio come una mezza luna. Al posto della gamba era stata messa una scatola di legno.
Non pensai neppure di chiederle il perché. Dissi, invece: â Sono già stato qui â prima di potermene pentire.
Nel silenzio che seguì, le scaglie di madreperla emisero un fruscio di gusci vuoti, mentre lei girava la testa.
â Quando? â Senza alcuna traccia di incredulità .
â Non dovrai dire nulla.
La sirena unì in un cerchio pollice ed indice della sinistra, se li appoggiò alla fronte, in segno solenne di giuramento.
â Non dirò nulla di te.
Mi feci più vicino, e lei chinò verso di me il viso di madreperla. Potevo sentire il suo alito.
â Ã stato quattro anni fa, quando Lelius ha dato il suo spettacolo...
â Ah!
Quando ebbi finito, lei disse: â à Lia, dunque, che ti ha stregato â con grande serietà . Alzò una mano e toccò gli occhi della falena. â Capisco, adesso...
â Cosa?
â La tua maschera.
â Perché?
â Non posso spiegare. E tu non mi hai detto tutto.
Come se nâera accorta?
â No... non voglio saperlo â aggiunse, vedendomi esitare.
Cambiai argomento. Quello che non le avevo racconto era di aver visto lâadepto e Lelius dalla finestrella, e la donna bionda. â Tu abiti qui?
Un movimento della macchia bianca. Sì.
â Anche tu hai visto lo spettacolo di Lelius?
â Da un balcone. E ho visto tre ragazzi che si sono alzati disturbando gli spettatori. â Per la prima volta la sentii ridere. â Uno aveva ricevuto tre biglietti in regalo per essere stato investito dal carro di Lelius, molti anni fa.
â Tu hai parlato con lui. Forse anche con Lia...
Un doppio ondeggiare della testa. Sì. No.
â Lei parla solo sulla scena.
Alzai di scatto la testa. I miei peggiori sospetti di stregoneria trovavano conferma. â Ã Lelius che lâha stregata!
â No. Non è così... semplice.
â Cosa, allora?
â Lelius dice che Lia è sua figlia.
Sua figlia. Chissà per quale ragione, non mi era mai venuto in mente.
â E tu credi che sia vero?
â Non so.
Sbuffai irritato, e, temo, con una certa petulanza.
â Non è semplice la natura degli uomini â disse la sirena, con un tono di bonario rimprovero. E aggiunse: â Questa è una delle prime cose che si apprendono nello studio dellâArte.
Quale arte? Mi chiesi. Poi pensai: lei abita nel Cortile Segreto. LâArte può essere una sola.
â Sei adepta?
â No. Apprendista.
â Ã un grado diverso?
â No. Una gerarchia diversa.
Compresi dal suo tono che non avrei ottenuto maggiori informazioni sullâargomento.
Mi prese la mano. â Vieni.
Come se vedesse nel buio, mi condusse fra quei relitti di favole, fino alla scala.
Anche questo non mi stupì troppo.
Questa volta, nessuna luce filtrava dalla finestrella.
Raggiungemmo la sommità della torre. In un angolo, era arrotolata una corda.
â Ci siamo chiesti a lungo chi lâavesse usata â commentò lei in tono quasi scherzoso.
â Temete per i vostri segreti? â chiesi.
â No. I nostro segreti sono... ben protetti.
La luna era un mezzo disco rossastro, tagliato come da un colpo di spada.
La sirena la indicò, e senza che le avessi chiesto niente disse: â Lia è lontana come lei.
Ebbi un brivido. La notte era fredda.
Per un attimo, provai il folle desiderio di scavalcare il parapetto e di volare verso la luna. Era la falena in me.
â Vuoi dire che è irraggiungibile? â Pensai di aver sussurrato la domanda a voce troppo bassa, perché la sirena non rispose. Ma dopo il tempo di tre sospiri, disse: â Dicono che un tempo gli uomini potessero volare sulla Luna.
Attesi, ma non mi spiegò altro. Pensai: io sono una falena lunare, ma non lo dissi.
â Dove si trova adesso?
â Con Lelius... in questa stagione girano le città della costa, credo.
Era la stessa risposta che mi aveva dato Lyian, il venditore di costumi.
Eravamo appoggiati alla balaustra, molto vicini. Le presi la mano.
â Ci rivedremo? â chiesi.
â Chissà ... Forse la prossima Festa delle Maschere.
Un tempo enorme, a quellâetà !
Non sapevo cosa fare. Era la prima volta che mi trovavo solo con una ragazza.
Ancora una volta, lei mi prevenne.
â LâArte richiede dei sacrifici a chi intraprende la sua via. â Lo disse con una certa malinconia, ma anche con molta convinzione. Fino ad allora mi era sembrata più matura di quanto fossi io. Ma in quel momento mi parve straordinariamente giovane, e insieme straordinariamente vecchia.
Si voltò e attraverso le fessure delle maschere i nostri occhi si incontrarono. O almeno così mi sembrò.
â Come ti chiami? â mi chiese.
â Iko... Nykos, per intero â Scambiarsi il nome, durante la Festa delle Maschere, è un pegno solenne, di massima intimità . â E tu?
â Puoi chiamarmi... Occhi di Gatto.
â Posso vederti?
La sirena sollevò una mano e mi sfiorò gli occhi di pietruzze smeraldo. Mi tolsi la maschera. Lei si portò le mani ai lati della testa. Non so perché, in quel momento chiusi gli occhi. Sentii il frusciare delle scaglie di madreperla.
Aprii gli occhi. La luce rossastra della luna illuminava il viso della sirena, che aveva il mento appuntito e gli zigomi alti, i capelli molto corti e biondi. Gli occhi lucevano cerulei.
Le pupille erano dilatate, ma oblunghe, come quelle di un gatto.
(16) L'INDAGINE
Il Conestabile disse: â Dunque eri solo nel Cortile della Mezzanotte?
â Sì, certo.
Il Conestabile mi guardò. Si chiamava Darko Gravosten, indossava una casacca di panno color ruggine, un poco consunta ai polsi. Il suo ufficio era pieno di vecchi schedari di un colore simile a quello della casacca, a parte le maniglie di ottone lucidate dallâuso.
Era la prima volta che mi guardava. Durante tutto lâinterrogatorio aveva mantenuto unâaria distratta, rovistando fra le carte sulla scrivania. Ma io non mi ero lasciato ingannare; mi aveva avvertito zio Uri: âNon lasciarti ingannare da Darko.â Lui e Darko erano stati insieme nella Guardia, poi mio zio se nâera andato e il Conestabile aveva fatto carriera.
â E non hai notato niente di strano nel gruppo che è uscito dal passaggio dellâUnicorno? â Ero talmente deciso a non lasciarmi ingannare che anche il fatto che Darko non insistesse sullâargomento, se cioè fossi solo o no, mi parve sospetto.
â No... Però, uno di loro è arrivato qualche momento dopo gli altri.
â Comâera? â Riprese a sfogliare le carte. Cominciavo a sospettare che quanto più la domanda fosse importante, tanto più il Conestabile sfogliava le sue carte.
â Un sole. Aveva una maschera di ottone, raggiante. Grandi occhi. â Non dissi dellâeclisse.
â E gli altri? Sembravano ubriachi, vero? â Parve controllare degli appunti presi in precedenza.
â Sì.
â Non c'era una donna per caso? Capelli biondi?
â Io non l'ho vista. Con le maschere poi...
Darko sospirò. â Già ... Ma sei sicuro che... il sole fosse insieme a loro?
â Sembrava di sì.
Sembrava. E pensai: se loro non avevano visto il cadavere, e se il sole era stato lâultimo a uscire prima che io e la sirena lo scoprissimo...
â La maschera, quella da Grifone... ti sembrava fosse caduta da sola? O che fosse stata strappata?
Non ci avevo pensato fino a quel momento. Le nostre maschere di solito sono bene assicurate al volto.
â Non ho guardato bene... e non c'era molta luce. â E l'orrore di quella faccia livida aveva attirato troppo la mia attenzione. Ma questo non lo dissi.
Darko sospirò. â Puoi andare.
Mi sentii deluso. Dopo che mi ero presentato spontaneamente... (Non del tutto: era stato mio zio a convincermi, quando avevo raccontato in casa quello che mi era successo la sera prima. Lasciando da parte la sirena, si capisce.)
â Forse dovrò risentirti â aggiunse.
Mi alzai con una certa riluttanza. Darko mi accompagnò alla porta. Mi strinse la mano.
â Salutami tuo zio.
â Sissignore.
Aveva una mano enorme, le dita grosse come il mio polso, o quasi. Prima di lasciare la mia, aggiunse: â Sei un bravo ragazzo.
E chissà perché, io pensai che si riferisse alla sirena, e al fatto che non avessi detto niente di lei.
Uscimmo, io e mio zio, per una porta diversa da quella per cui eravamo entrati, e ci ritrovammo in un altro cortile.
Procedura normale, quando lâassassino è ancora in libertà , mi spiegò zio Uri.
Il quale mi tenne anche informato sugli sviluppi dellâindagine. Aveva molti amici nella Guardia, oltre a Darko. Alcuni del gruppo degli ubriachi erano stati rintracciati. Nessuno di loro aveva visto un uomo steso a terra, e nessuno ricordava il sole. Ma erano ubriachi, e le loro testimonianze non sempre coincidevano.
Il mistero più oscuro era quello che circondava il cadavere. Non era stato ancora identificato. Nessuno aveva lamentato la scomparsa di qualche congiunto o amico. Durante quella Festa delle Maschere vi erano stati altri tre omicidi. Tutte queste vittime erano state identificate. Uno degli assassini era già stato catturato. Un altro era stato scoperto, ma si nascondeva, o (cosa più probabile) era fuggito da Morraine. Il terzo si era suicidato dopo il delitto.
Lâuomo assassinato nel passaggio dellâUnicorno indossava vestiti di Morraine, fino allâultimo bottone. La maschera non era stata fabbricata da alcun artigiano, ma molti, come ho detto, se la fanno da soli o la ricevono in eredità . Vestiti e maschera erano stati conservati. Il corpo, dopo essere rimasto alcuni giorni in una cripta sotto lâedificio della Guardia, era stato cremato, le ceneri sepolte fuori dalle mura. Un pittore aveva eseguito un ritratto a carboncino del viso, di fronte e di profilo, per lâarchivio color ruggine nellâufficio di Darko Gravosten.
Anchâio ero stato portato nella cripta, per identificare la vittima. Darko mi aveva chiesto se volevo farlo: era una ben macabra incombenza per un ragazzino. Dissi che non ero più un ragazzino. Il corpo era steso su una lastra di marmo, coperto da un lenzuolo. Scostarono un lembo. Era lui, malgrado la faccia grigia e un poâ gonfia. Câerano altri sei tavoli di marmo nella cripta, tutti vuoti. Il lenzuolo lasciò scoperto lâinizio di un tatuaggio, sul petto, con un uccello a due teste.
Andai alla Biblioteca Canonica di Morraine e consultai alcuni libri di emblemi. Trovai parecchi Soli e Grifoni, ma nulla che li collegasse in qualche maniera. Non ebbi miglior fortuna con gli uccelli a due teste (in gran parte aquile). Darko doveva aver consultato gli stessi libri, o altri analoghi. O forse li conosceva a memoria. Poiché, come ho detto, vittima e assassino sono legati dalle rispettive maschere. In un certo senso, sono le maschere ad uccidere e a morire.
Un giorno, era trascorso circa un mese dalla Festa, mio zio mi prese in disparte. â Sanno dove si trova lâassassino.
â Ah! E non lâhanno ancora catturato?
â Non è così semplice.
â Perché?
â Ã nel Cortile Segreto.
â Neppure la Guardia può entrarci?
â Oh, sì... avendo delle prove.
â Che non ha?
â No. Non abbastanza.
â Come hanno fatto a identificarlo?
â Non lâhanno identificato. Sanno solo dove cercarlo. E Darko non mi ha detto come câè riuscito. Vorrebbe parlarti.
â Certamente!
Trovai il Conestabile in unâanonima stanzetta a cui giunsi dopo un giro particolarmente tortuoso, accompagnato da mio zio. Lâunica finestra era quella di un abbaiano, da cui scorgevo tetti anonimi.
Nella stanza câera solo un tavolo e un paio di sedie. Alle pareti, fogli ingialliti, incorniciati senza vetro, con dei ritratti.
Darko e Uri si guardarono per un momento negli occhi, poi mio zio ci lasciò soli.
Il Conestabile slegò i lacci di una cartella appoggiata sul tavolo... Vidi la faccia di un uomo, la barba lunga e lo sguardo corrucciato, disegnata a carboncino.
â Vorrei che tu li guardassi bene â disse Darko. â Nel caso ne conoscessi qualcuno... â Unì le grosse dita sulla pancia, e fissò fuori dalla finestra.
Io cominciai a passare in rassegna i fogli di carta spessa, color avorio. Le facce sembravano tracciate tutte dalla stessa mano: competente ma piatta. I ritratti alle pareti, da parte loro, parevano fissarmi con inquietante intensità .
â Sono ricercati? â chiesi.
Darko vide che guardavo quelli appesi.
â No. â Avevo ripreso a sfogliare i disegni della cartella, quando aggiunse: â Non più.
Dietro ad ogni foglio câera un sinbolo, una lettera e un numero. Scorsi i ritratti lentamente, soffermandomi su ciascuno circa il tempo di un respiro. Non dedicai più tempo neppure a Torre B 12.
Quando ebbi finito alzai gli occhi. Darko mi stava guardando.
â Vuoi rivederli?
Ripresi a scorrerli, in senso inverso. Indugiai su una Corona, un Unicorno, una Lucertola. Giunto alla Torre ebbi qualche esitazione ulteriore. Alzai la testa, e Darko stava fissando fuori dalla finestra.
â Forse... â Talvolta, una sola parola può cambiare il corso della nostra vita. Unâinfinità di cose, del resto, possono cambiare il corso della nostra vita.
Lo straniero pareva molto serio, ma poi sorrise e proseguì.
â Sì? â disse Darko.
â Questo lâho incontrato, una volta.
â Dove?
â In una bottega di libri.
â Quale?
â Quella di Arno Borissein.
â E poi?
â Poi niente... Mi ha detto che era un Adepto.
â Arno?
â Sì.
â Quando?
â Era inverno... La prima nevicata.
â Ha comprato qualcosa?
â No... Cercava delle mappe.
â Poi?
â Niente. Ã uscito.
â E tu cosa hai comprato?
â Fiori di bianco prato.
â Cosâè?
â Un manuale di retorica.
Darko sorrise. â Non hai altro da dirmi?
â Il sole... â Ormai non potevo tirarmi più indietro. â Mentre correva quasi perse la maschera. Ho visto dei riccioli biondi. Chiari. Però non vuol dire niente â aggiunsi subito, inutilmente.
Invece di ridiscendere le scale salimmo ancora una rampa. Darko aprì una piccola porta con una grossa chiave.
Strinse la mano di mio zio, poi la mia.
â Non credo che avrò più bisogno di te.
La cosa un poâ mi dispiacque.
Entrammo in una soffitta immensa. Darko rimase fuori e chiuse la porta alle nostre spalle.
Gigantesche travi incurvate ed annerite sostenevano un tetto altissimo, in cui si aprivano rari lucernari che dissipavano appena le tenebre.
Ci incamminammo. Sparsi qua e là , si ergevano ordigni enigmatici, ricoperti da teli polverosi. Di tanto in tanto, a destra e a sinistra, si spalancavano altre soffitte, ancora più buie; incontrammo anche un paio di scale, che salivano ripide verso qualche torre.
Non avevo mai visto spazi chiusi così grandi, a Morraine. Avrebbero potuto viverci decine e decine di famiglie!
Nessuno di noi due parlò per tutto il tragitto.
Infine, mio zio armeggiò intorno ad una botola. Câera un meccanismo a molla, che, immaginai, serviva a non farla aprire dal basso.
Una stretta scala in pietra conduceva ad un ballatoio, con dei panni stesi ad asciugare. Poi delle scale malandate, dove incontrammo bambini non molto puliti e donne che li chiamavano gridando.
Cominciavo ad immaginare dove saremmo finiti.
Attorno ad una delle due fontane câera un gruppo di ragazzini. Forse erano gli stessi che ci avevano fatto scappare lâestate prima.
Con mia sorpresa, zio Uri si infilò nella porta di unâosteria. Lâoste lo salutò come se lo conoscesse. Ci sedemmo ad un tavolo. Mio zio ordinò un boccale di vino. Io avevo fame, e lâoste mi portò due fette di pane scuro, con una salsa indecifrabile e del pesce sotto sale. Per calmare la sete, bevvi qualche sorso del vino di mio zio.
â Hai detto tutto a Darko?
â Sì... Più o meno.
Mio zio finì il vino, e ce ne andammo.
(17) LA LEZIONE DELL'ACQUA
Lucibello fu li primo ad andarsene, dopo tutto.
Era il Mese-del-Passaggio, una giornata di vento e di pioggia, quando ce lo disse, riuniti nel nostro rifugio segreto.
â Luci, tu sei matto â dissi io, senza sapere bene se crederci o no.
Lui era intento ad evocare una fiamma da qualche ramoscello non del tutto secco.
â No, amico mio. Sono forse più pazzo che se inseguissi un sogno recitato su un palcoscenico?
Ricordai quella sera nel Cortile Segreto. Era stato Lucibello, allora, a chiedermi se ero impazzito. Non potei replicare nulla.
â Quando lâhai saputo? â chiese Jues.
Lucibello mi guardò.
â Alla Festa delle Maschere â dissi io.
Lucibello annuì.
â Eravamo rimasti noi due soli â spiegai a Jues. â Nel Cortile Dorato.
â Sì. Lâeremita.
â Ma lâubu...
â Lâubu si leva in volo al crepuscolo. Vola tutta la notte. E trova quiete solo allâalba. Nella luce è il suo riposo.
Jues sbuffò. Faceva fatica a seguirci.
â Si nutre di falene â osservai io.
â Di animali lunari. Ci si ciba di ciò che appartiene alla notte.
Adesso anchâio facevo fatica a seguirlo.
â Allora lâubu sogna di giorno â provai a cambiare approccio.
â Sì. Nella luce.
â La luce della verità ? â propose Jues.
Lucibello sorrise. â Sì.
I ramoscelli finalmente avevano preso fuoco.
â Questo è il racconto di come lâEremita Ashva apprese la lezione dellâacqua â iniziò il Venerabile dal mantello quasi bianco. Il Venerabile sedeva sullâerba al centro del Cortile dellâEquinozio, che è lâunico in Morraine a non avere un selciato. I membri dellâImmacolata Dottrina non possiedono templi né santuari e preferiscono il contatto con la nuda terra. Forse per questo il loro culto non è molto diffuso a Morraine.
Ed ecco il racconto:
LâEremita Ashva grazie alla sua grande pietà poteva indossare un mantello del settimo grado di splendore. (Lucibello, accanto a me, era avvolto in un mantello quasi del tutto nero, con pochi fili bianchi, che indicava come avesse appena intrapreso il suo viaggio verso la luce.) Nei lunghi anni della sua vita egli aveva appreso la lezione degli uccelli e del vento, della volpe e del bue, dellâerba e della quercia. Ma ancora gli sfuggiva la lezione dellâacqua.