Книга Луна и костры. Прекрасное лето / La luna e i falo. La bella estate. Книга для чтения на итальянском языке - читать онлайн бесплатно, автор Чезаре Павезе. Cтраница 3
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Луна и костры. Прекрасное лето / La luna e i falo. La bella estate. Книга для чтения на итальянском языке
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Луна и костры. Прекрасное лето / La luna e i falo. La bella estate. Книга для чтения на итальянском языке

– Il figlio del Maurino, – disse Cinto, – è un bastardo.

– C’è chi li raccoglie, – gli dissi, – è sempre la povera gente che raccoglie i bastardi. Si vede che il Maurino aveva bisogno di un ragazzo…

– Se glielo dicono, s’arrabbia, – disse Cinto.

– Non devi dirglielo. Che colpa hai tu se tuo padre ti dà via? Basta che hai voglia di lavorare. Ho conosciuto dei bastardi che hanno comprato delle cascine.

Eravamo sbucati dalla riva e Cinto, trottandomi avanti, s’era seduto sul muretto. Dietro le albere dall’altra parte della strada c’era il Belbo. Era qui che uscivamo a giocare, dopo che la capra ci aveva portati in giro tutto il pomeriggio per le coste e le rive. I sassolini della strada erano ancora gli stessi, e i fusti freschi delle albere avevano odore d’acqua corrente.

– Non vai a fare l’erba per i conigli? – dissi.

Cinto mi disse che ci andava. Allora m’incamminai e fino alla svolta mi sentii quegli occhi addosso dal canneto.

VIII

Al casotto di Gaminella decisi di tornare soltanto con Nuto, perché il Valino mi lasciasse entrare in casa. Ma per Nuto questa strada è fuori mano. Io invece ci passavo sovente e capitava che Cinto mi aspettava sul sentiero o sbucava dalle canne. Si appoggiava al muretto con la gamba divaricata e mi lasciava discorrere.

Ma dopo quei primi giorni, finita la festa e il torneo di pallone, l’albergo dell’Angelo si rifece tranquillo e quando, nel brusio delle mosche, prendevo il caffè alla finestra guardando la piazza vuota, mi trovai come un sindaco che guarda il paese dal balcone del municipio. Non l’avrei detto, da ragazzo. Lontano da casa si lavora per forza, si fa fortuna senza volerlo – far fortuna vuol dire appunto essere andato lontano e tornare cosí, arricchito, grand’e grosso, libero. Da ragazzo non lo sapevo ancora, eppure avevo sempre l’occhio alla strada, ai passanti, alle ville di Canelli, alle colline in fondo al cielo. È un destino cosí, dice Nuto – che in confronto con me non si è mosso. Lui non è andato per il mondo, non ha fatto fortuna. Poteva succedergli come succede in questa valle a tanti – di venir su come una pianta, d’invecchiare come una donna o un caprone, senza sapere che cosa succede di là dalla Bormida, senza uscire dal giro della casa, della vendemmia, delle fiere. Ma anche a lui che non si è mosso è toccato qualcosa, un destino – quella sua idea che le cose bisogna capirle, aggiustarle, che il mondo è mal fatto e che a tutti interessa cambiarlo.

Capivo che da ragazzo, anche quando facevo correre la capra, quando d’inverno rompevo con rabbia le fascine mettendoci il piede sopra, o giocavo, chiudevo gli occhi per provare se riaprendoli la collina era scomparsa – anche allora mi preparavo al mio destino, a vivere senza una casa, a sperare che di là dalle colline ci fosse un paese piú bello e piú ricco. Questa stanza dell’Angelo – allora non c’ero mai stato – mi pareva di aver sempre saputo che un signore, un uomo con le tasche piene di marenghi, un padrone di cascine, quando partiva sul biroccio per vedere il mondo, una bella mattina si trovava in una stanza cosí, si lavava le mani nel catino bianco, scriveva una lettera sul vecchio tavolo lucido, una lettera che andava in città, andava lontano, e la leggevano dei cacciatori, dei sindaci, delle signore con l’ombrellino. Ed ecco che adesso succedeva. La mattina prendevo il caffè e scrivevo delle lettere a Genova, in America, maneggiavo dei soldi, mantenevo della gente. Forse fra un mese sarei di nuovo stato in mare, a correr dietro alle mie lettere.

Il caffè lo presi un giorno col Cavaliere, sotto, davanti alla piazza scottante. Il Cavaliere era il figlio del vecchio Cavaliere, che ai miei tempi era il padrone delle terre del Castello e di diversi mulini e aveva perfino gettato una diga nel Belbo quand’io ancora dovevo nascere. Passava qualche volta sullo stradone nella carrozza a tiro doppio guidata dal servitore. Avevano una villetta in paese, con un giardino cintato e piante strane che nessuno sapeva il loro nome. Le persiane della villa erano sempre chiuse quand’io d’inverno correvo a scuola e mi fermavo davanti al cancello.

Adesso il Vecchio era morto, e il Cavaliere era un piccolo avvocato calvo che non faceva l’avvocato: le terre, i cavalli, i mulini, se li era consumati da scapolo in città; la gran famiglia del Castello era scomparsa; gli era rimasta una piccola vigna, degli abiti frusti, e girava il paese con un bastone dal pomo d’argento. Con me attaccò discorso civilmente; sapeva di dove venivo; mi chiese se ero stato anche in Francia, e beveva il caffè scostando il mignolo e piegandosi avanti.

Si soffermava tutti i giorni davanti all’albergo e discorreva con gli altri avventori. Sapeva molte cose, piú cose dei giovani, del dottore e di me, ma erano cose che non quadravano con la vita che faceva adesso – bastava lasciarlo dire e si capiva che il Vecchio era morto a tempo. Mi venne in mente ch’era un po’ come quel giardino della villa, pieno di palme, di canne esotiche, di fiori con l’etichetta. A modo suo anche il Cavaliere era scappato dal paese, era andato per il mondo, ma non aveva avuto fortuna. I parenti l’avevano abbandonato, la moglie (una contessa di Torino) era morta, il figlio, l’unico figlio, il futuro Cavaliere, s’era ammazzato per un pasticcio di donne e di gioco prima ancora di andar militare. Eppure questo vecchio, questo tapino che dormiva in un tinello coi contadini della sua ultima vigna, era sempre cortese, sempre in ordine, sempre signore, e incontrandomi ogni volta si toglieva il cappello.

Dalla piazza si vedeva la collinetta dove aveva i suoi beni, dietro il tetto del municipio, una vigna mal tenuta, piena d’erba, e sopra, contro il cielo, un ciuffo di pini e di canne. Nel pomeriggio il gruppo di sfaccendati che prendevano il caffè, lo burlavano sovente su quei suoi mezzadri, che erano i padroni di mezzo San Grato e gli stavano in casa soltanto per la comodità di esser vicino al paese ma neanche si ricordavano di zappargli la vigna. Ma lui, convinto, rispondeva che sapevano loro, i mezzadri, di che cosa ha bisogno una vigna e che del resto c’era stato un tempo che i signori, i padroni di tenuta, lasciavano in gerbido una parte dei beni per andarci a caccia, o anche per capriccio.

Tutti ridevano all’idea che il Cavaliere andasse a caccia, e qualcuno gli disse che avrebbe fatto meglio a piantarci dei ceci.

– Ho piantato degli alberi, – disse lui con uno scatto e un calore improvvisi, e gli tremò la voce. Cosí civile com’era, non sapeva difendersi, e allora entrai anch’io a dir qualcosa, per cambiare discorso. Il discorso cambiò, ma si vede che il Vecchio non era morto del tutto, perché quel tapino mi aveva capito. Quando mi alzai mi pregò di una parola e ci allontanammo per la piazza sotto gli occhi degli altri. Mi raccontò ch’era vecchio e troppo solo, casa sua non era un luogo da riceverci nessuno, tutt’altro, ma se salivo a fargli una visita, con mio comodo, sarebbe stato ben lieto. Sapeva ch’ero stato da altri a veder terre; dunque, se avevo un momento… Di nuovo mi sbagliai: sta’ a vedere, mi dissi, che anche questo vuol vendere. Gli risposi che non ero in paese per fare affari. – No no, – disse subito, – non parlo di questo. Una semplice visita… Voglio mostrarle, se permette, quegli alberi…

Ci andai subito, per levargli il disturbo di prepararmi l’accoglienza, e per la stradetta sopra i tetti scuri, sui cortili delle case, mi raccontò che per molte ragioni non poteva vendere la vigna – perch’era l’ultima terra che portasse il suo nome, perché altrimenti sarebbe finito in casa d’altri, perché ai mezzadri conveniva cosí, perché tanto era solo…

– Lei, – mi disse, – non sa che cos’è vivere senza un pezzo di terra in questi paesi. Lei, dove ha i suoi morti?

Gli dissi che non lo sapevo. Tacque un momento, si interessò, si stupí, scosse il capo.

– Mi rendo conto, – disse piano. – È la vita.

Lui purtroppo aveva un morto recente al cimitero del paese. Da dodici anni e gli sembrava ieri. Non un morto com’è umano averne, un morto che ci si rassegna, che ci si pensa con fiducia. – Ho fatto molti stupidi errori, – mi disse, – se ne fanno nella vita. I veri acciacchi dell’età sono i rimorsi. Ma una cosa non mi perdono. Quel ragazzo…

Eravamo arrivati al gomito della strada, sotto le canne. Si fermò e balbettò: – Lei sa com’è morto?

Feci cenno di sí. Parlava con le mani strette al pomo del bastone. – Ho piantato questi alberi, – disse. Dietro le canne si vedeva un pino. – Ho voluto che qui in cima alla collina la terra fosse sua, come piaceva a lui, libera e selvatica come il parco dov’è stato ragazzo…

Era un’idea. Quella macchia di canne e, dietro, i pini rossastri e l’erba sotto, rigogliosa, mi ricordavano la conca in cima alla vigna di Gaminella. Ma qui c’era di bello ch’era la punta della collina e tutto finiva nel vuoto.

– In tutte le campagne, – gli dissi, – ci vorrebbe un pezzo di terra cosí, lasciato incolto… Ma la vigna lavorarla, – dissi.

Ai nostri piedi si vedevano quei quattro filari disgraziati. Il Cavaliere fece una smorfia spiritosa e scosse il capo. – Sono vecchio, – disse. – Villani.

IX

Adesso bisognava scendere nel cortile della casa e dargli quel piacere. Ma sapevo che avrebbe dovuto sturarmi una bottiglia e poi la bottiglia pagarla ai mezzadri. Gli dissi ch’era tardi, ch’ero atteso in paese, che a quell’ora non prendevo mai niente. Lo lasciai nel suo bosco, sotto i pini.

Ripensai a questa storia le volte che passavo per la strada di Gaminella, al canneto del ponte. Qui ci avevo giocato anch’io con Angiolina e Giulia, e fatto l’erba per i conigli. Cinto si trovava sovente al ponte, perché gli avevo regalato degli ami e del filo di lenza e gli raccontavo come si pesca in alto mare e si tira ai gabbiani. Di qui non si vedevano né San Grato né il paese. Ma sulle grandi schiene di Gaminella e del Salto, sulle colline piú lontane oltre Canelli, c’erano dei ciuffi scuri di piante, dei canneti, delle macchie – sempre gli stessi – che somigliavano a quello del Cavaliere. Da ragazzo fin lassú non c’ero mai potuto salire; da giovane lavoravo e mi accontentavo delle fiere e dei balli. Adesso, senza decidermi, rimuginavo che doveva esserci qualcosa lassú, sui pianori, dietro le canne e le ultime cascine sperdute. Che cosa poteva esserci? Lassú tra incolto e bruciato dal sole.

– Li hanno fatti quest’anno i falò? – chiesi a Cinto. – Noi li facevamo sempre. La notte di S. Giovanni tutta la collina era accesa.

– Poca roba, – disse lui. – Lo fanno grosso alla Stazione, ma di qui non si vede. Il Piola dice che una volta ci bruciavano delle fascine.

Il Piola era il suo Nuto, un ragazzotto lungo e svelto. Avevo visto Cinto corrergli dietro nel Belbo, zoppicando.

– Chi sa perché mai, – dissi, – si fanno questi fuochi.

Cinto stava a sentire. – Ai miei tempi, – dissi, – i vecchi dicevano che fa piovere… Tuo padre l’ha fatto il falò? Ci sarebbe bisogno di pioggia quest’anno… Dappertutto accendono il falò.

– Si vede che fa bene alle campagne, – disse Cinto. – Le ingrassa.

Mi sembrò di essere un altro. Parlavo con lui come Nuto aveva fatto con me.

– Ma allora com’è che lo si accende sempre fuori dai coltivi? – dissi. – L’indomani trovi il letto del falò sulle strade, per le rive, nei gerbidi…

– Non si può mica bruciare la vigna, – disse lui ridendo.

– Sí, ma invece il letame lo metti nel buono…

Questi discorsi non finivano mai, perché quella voce rabbiosa lo chiamava, o passava un ragazzo dei Piola o del Morone, e Cinto si tirava su, diceva, come avrebbe detto suo padre: – Allora andiamo un po’ a vedere – e partiva. Non mi lasciava mai capire se con me si fermava per creanza o perché ci stesse volentieri. Certo, quando gli raccontavo cos’è il porto di Genova e come si fanno i carichi e la voce delle sirene delle navi e i tatuaggi dei marinai e quanti giorni si sta in mare, lui mi ascoltava con gli occhi sottili. Questo ragazzo, pensavo, con la sua gamba sarà sempre un morto di fame in campagna. Non potrà mai dare di zappa o portare i cavagni. Non andrà neanche soldato e cosí non vedrà la città. Se almeno gli mettessi la voglia.

– Questa sirena dei bastimenti, – lui mi disse, quel giorno che ne parlavo, – è come la sirena che suonavano a Canelli quando c’era la guerra?

– Si sentiva?

– Altroché. Dicono ch’era piú forte del fischio del treno. La sentivano tutti. Di notte uscivano per vedere se bombardavano Canelli. L’ho sentita anch’io e ho visto gli aeroplani…

– Ma se ti portavano ancora in braccio…

– Giuro che mi ricordo.

Nuto, quando gli dissi quel che raccontavo al ragazzo, sporse il labbro come per imboccare il clarino e scosse il capo con forza. – Fai male, – mi disse. – Fai male. Cosa gli metti delle voglie? Tanto se le cose non cambiano sarà sempre un disgraziato…

– Che almeno sappia quel che perde.

– Cosa vuoi che se ne faccia. Quand’abbia visto che nel mondo c’è chi sta meglio e chi sta peggio, che cosa gli frutta? Se è capace di capirlo, basta che guardi suo padre. Basta che vada in piazza la domenica, sugli scalini della chiesa c’è sempre uno che chiede, zoppo come lui. E dentro ci sono i banchi per i ricchi, col nome d’ottone…

– Piú lo svegli, – dissi, – piú capisce le cose.

– Ma è inutile mandarlo in America. L’America è già qui. Sono qui i milionari e i morti di fame.

Io dissi che Cinto avrebbe dovuto imparare un mestiere e per impararlo doveva uscire dalle grinfie del padre. – Sarebbe meglio fosse nato bastardo, – dissi. – Doversene andare e cavarsela. Finché non va in mezzo alla gente, verrà su come suo padre.

– Ce n’è delle cose da cambiare, – disse Nuto.

Allora gli dissi che Cinto era sveglio e che per lui ci sarebbe voluta una cascina come la Mora era stata per noi. – La Mora era come il mondo, – dissi. – Era un’America, un porto di mare. Chi andava chi veniva, si lavorava e si parlava… Adesso Cinto è un bambino, ma poi cresce. Ci saranno le ragazze… Vuoi mettere quel che vuol dire conoscere delle donne sveglie? Delle ragazze come Irene e Silvia?…

Nuto non disse niente. M’ero già accorto che della Mora non parlava volentieri. Con tanto che mi aveva raccontato degli anni di musicante, il discorso piú vecchio, di quando eravamo ragazzi, lo lasciava cadere. O magari lo cambiava a suo modo, attaccando a discutere. Stavolta stette zitto, sporgendo le labbra, e soltanto quando gli raccontai di quella storia dei falò nelle stoppie, alzò la testa. – Fanno bene sicuro, – saltò. – Svegliano la terra.

– Ma, Nuto, – dissi, – non ci crede neanche Cinto.

Eppure, disse lui, non sapeva cos’era, se il calore o la vampa o che gli umori si svegliassero, fatto sta che tutti i coltivi dove sull’orlo si accendeva il falò davano un raccolto piú succoso, piú vivace.

– Questa è nuova, – dissi. – Allora credi anche nella luna?

– La luna, – disse Nuto, – bisogna crederci per forza. Prova a tagliare a luna piena un pino, te lo mangiano i vermi. Una tina la devi lavare quando la luna è giovane. Perfino gli innesti, se non si fanno ai primi giorni della luna, non attaccano.

Allora gli dissi che nel mondo ne avevo sentite di storie, ma le piú grosse erano queste. Era inutile che trovasse tanto da dire sul governo e sui discorsi dei preti se poi credeva a queste superstizioni come i vecchi di sua nonna. E fu allora che Nuto calmo calmo mi disse che superstizione è soltanto quella che fa del male, e se uno adoperasse la luna e i falò per derubare i contadini e tenerli all’oscuro, allora sarebbe lui l’ignorante e bisognerebbe fucilarlo in piazza. Ma prima di parlare dovevo ridiventare campagnolo. Un vecchio come il Valino non saprà nient’altro ma la terra la conosceva.

Discutemmo come cani arrabbiati un bel po’, ma lo chiamarono in segheria e io discesi sullo stradone ridendo. Ebbi una mezza tentazione di passare dalla Mora, ma poi faceva caldo. Guardando verso Canelli (era una giornata colorita, serena), prendevo in un’occhiata sola la piana del Belbo, Gaminella di fronte, il Salto di fianco, e la palazzina del Nido, rossa in mezzo ai suoi platani, profilata sulla costa dell’estrema collina. Tante vigne, tante rive, tante coste bruciate, quasi bianche, mi misero voglia di essere ancora in quella vigna della Mora, sotto la vendemmia, e veder arrivare le figlie del sor Matteo col cestino. La Mora era dietro quegli alberi verso Canelli, sotto la costa del Nido.

Invece traversai Belbo, sulla passerella, e mentre andavo rimuginavo che non c’è niente di piú bello di una vigna ben zappata, ben legata, con le foglie giuste e quell’odore della terra cotta dal sole d’agosto. Una vigna ben lavorata è come un fisico sano, un corpo che vive, che ha il suo respiro e il suo sudore. E di nuovo, guardandomi intorno, pensavo a quei ciuffi di piante e di canne, quei boschetti, quelle rive – tutti quei nomi di paesi e di siti là intorno – che sono inutili e non danno raccolto, eppure hanno anche quelli il loro bello – ogni vigna la sua macchia – e fa piacere posarci l’occhio e saperci i nidi. Le donne, – pensai, – hanno addosso qualcosa di simile.

Io sono scemo, dicevo, da vent’anni me ne sto via e questi paesi mi aspettano. Mi ricordai la delusione ch’era stata camminare la prima volta per le strade di Genova – ci camminavo nel mezzo e cercavo un po’ d’erba. C’era il porto, questo sí, c’erano le facce delle ragazze, c’erano i negozi e le banche, ma un canneto, un odor di fascina, un pezzo di vigna, dov’erano? Anche la storia della luna e dei falò la sapevo. Soltanto, m’ero accorto, che non sapevo piú di saperla.

X

Se mi mettevo a pensare a queste cose non la finivo piú, perché mi tornavano in mente tanti fatti, tante voglie, tanti smacchi passati, e le volte che avevo creduto di essermi fatta una sponda, di avere degli amici e una casa, di potere addirittura metter su nome e piantare un giardino. L’avevo creduto, e mi ero anche detto «Se riesco a fare questi quattro soldi, mi sposo una donna e la spedisco col figlio in paese. Voglio che crescano laggiú come me». Invece il figlio non l’avevo, la moglie non parliamone – che cos’è questa valle per una famiglia che venga dal mare, che non sappia niente della luna e dei falò? Bisogna averci fatto le ossa, averla nelle ossa come il vino e la polenta, allora la conosci senza bisogno di parlarne, e tutto quello che per tanti anni ti sei portato dentro senza saperlo si sveglia adesso al tintinnío di una martinicca, al colpo di coda di un bue, al gusto di una minestra, a una voce che senti sulla piazza di notte.

Il fatto è che Cinto – come me da ragazzo – queste cose non le sapeva, e nessuno nel paese le sapeva, se non forse qualcuno che se n’era andato. Se volevo capirmi con lui, capirmi con chiunque in paese, dovevo parlargli del mondo di fuori, dir la mia. O meglio ancora non parlarne: fare come se niente fosse e portarmi l’America, Genova, i soldi, scritti in faccia e chiusi in tasca. Queste cose piacevano – salvo a Nuto, si capisce, che cercava lui di capir me.

Vedevo gente dentro l’Angelo, sul mercato, nei cortili. Qualcuno veniva a cercarmi, mi chiamavano di nuovo «quello del Mora». Volevano sapere che affari facevo, se compravo l’Angelo, se compravo la corriera. In piazza mi presentarono al parroco, che parlò di una cappelletta in rovina; al segretario comunale, che mi prese in disparte e mi disse che in municipio doveva esserci ancora la mia pratica, se volevamo far ricerche. Gli risposi ch’ero già stato in Alessandria, all’ospedale. Il meno invadente era sempre il Cavaliere, che sapeva tutto sull’antica ubicazione del paese e sulle malefatte del passato podestà.

Sullo stradone e nelle cascine ci stavo meglio, ma neanche qui non mi credevano. Potevo spiegare a qualcuno che quel che cercavo era soltanto di vedere qualcosa che avevo già visto? Vedere dei carri, vedere dei fienili, vedere una bigoncia, una griglia, un fiore di cicoria, un fazzoletto a quadrettoni blu, una zucca da bere, un manico di zappa? Anche le facce mi piacevano cosí, come le avevo sempre viste: vecchie dalle rughe, buoi guardinghi, ragazze a fiorami, tetti a colombaia. Per me, delle stagioni eran passate, non degli anni. Piú le cose e i discorsi che mi toccavano eran gli stessi di una volta – delle canicole, delle fiere, dei raccolti di una volta, di prima del mondo – piú mi facevano piacere. E cosí le minestre, le bottiglie, le roncole, i tronchi sull’aia.

Qui Nuto diceva che avevo torto, che dovevo ribellarmi che su quelle colline si facesse ancora una vita bestiale, inumana, che la guerra non fosse servita a niente, che tutto fosse come prima, salvo i morti.

Parlammo anche del Valino e della cognata. Che il Valino adesso dormisse con la cognata era il meno – che cosa poteva fare? – ma in quella casa succedevano cose nere: Nuto mi disse che dalla piana del Belbo si sentivano le donne urlare quando il Valino si toglieva la cinghia e le frustava come bestie, e frustava anche Cinto – non era il vino, non ne avevano tanto, era la miseria, la rabbia di quella vita senza sfogo.

Avevo saputo anche la fine di Padrino e dei suoi. Me l’aveva raccontata la nuora del Cola, quel tale che voleva vendermi la casa. A Cossano, dov’erano andati a finire coi quattro soldi del casotto, Padrino era morto vecchio vecchissimo – pochi anni fa – su una strada, dove i mariti delle figlie l’avevano buttato. La minore s’era sposata ragazza; l’altra, Angiolina, un anno dopo – con due fratelli che stavano alla Madonna della Rovere, in una cascina dietro ai boschi. Lassú erano vissute col vecchio e coi figli; facevano l’uva e la polenta, nient’altro; il pane scendevano a cuocerlo una volta al mese, tant’erano fuorimano. I due uomini lavoravano forte, sfiancavano i buoi e le donne; la piú giovane era morta in un campo ammazzata dal fulmine, l’altra, Angiolina, aveva fatto sette figli e poi s’era coricata con un tumore nelle costole, aveva penato e gridato tre mesi – il dottore saliva lassú una volta all’anno —, era morta senza nemmeno vedere il prete. Finite le figlie, il vecchio non aveva piú nessuno in casa che gli desse da mangiare e si era messo a girare le campagne e le fiere; il Cola l’aveva ancora intravisto, con un barbone bianco e pieno di paglie, l’anno prima della guerra. Era morto finalmente anche lui, sull’aia di una cascina, dov’era entrato a mendicare.

Cosí era inutile che andassi a Cossano a cercare le mie sorellastre, a vedere se si ricordavano ancora di me. Mi restò in mente l’Angiolina distesa a denti aperti, come sua madre quell’inverno ch’era morta.

Andai invece un mattino a Canelli, lungo la ferrata, per la strada che ai tempi della Mora avevo fatto tante volte. Passai sotto il Salto, passai sotto il Nido, vidi la Mora coi tigli che toccavano il tetto, il terrazzo delle ragazze, la vetrata, e l’ala bassa dei portici dove stavamo noialtri. Sentii voci che non conoscevo, tirai via.

A Canelli entrai per un lungo viale che ai miei tempi non c’era, ma sentii subito l’odore – quella punta di vinacce, di arietta di Belbo e di vermut. Le stradette erano le stesse, con quei fiori alle finestre, e le facce, i fotografi, le palazzine. Dove c’era piú movimento era in piazza – un nuovo bar, una stazione di benzina, un va e vieni di motociclette nel polverone. Ma il grosso platano era là. Si capiva che i soldi correvano sempre.

Passai la mattinata in banca e alla posta. Una piccola città – chi sa, intorno, quante altre ville e palazzotti sulle colline. Da ragazzo non mi ero sbagliato, nel mondo i nomi di Canelli contavano, di qui si apriva una finestra spaziosa. Dal ponte di Belbo guardai la valle, le colline basse verso Nizza. Niente era cambiato. Solo l’altr’anno c’era venuto col carro un ragazzo a vender l’uva insieme al padre. Chi sa se anche per Cinto Canelli sarebbe stata la porta del mondo.

M’accorsi allora che tutto era cambiato. Canelli mi piaceva per se stessa, come la valle e le colline e le rive che ci sbucavano. Mi piaceva perché qui tutto finiva, perch’era l’ultimo paese dove le stagioni non gli anni s’avvicendano. Gli industriali di Canelli potevano fare tutti gli spumanti che volevano, impiantare uffici, macchine, vagoni, depositi era un lavoro che facevo anch’io – di qui partiva la strada che passava per Genova e portava chi sa dove. L’avevo percorsa, cominciando da Gaminella. Se mi fossi ritrovato ragazzo, l’avrei percorsa un’altra volta. Ebbene, e con questo? Nuto, che non se n’era mai andato veramente, voleva ancora capire il mondo, cambiare le cose, rompere le stagioni. O forse no, credeva sempre nella luna. Ma io, che non credevo nella luna, sapevo che tutto sommato soltanto le stagioni contano, e le stagioni sono quelle che ti hanno fatto le ossa, che hai mangiato quand’eri ragazzo. Canelli è tutto il mondo – Canelli e la valle del Belbo – e sulle colline il tempo non passa.