Tornai verso sera sullo stradone lungo la ferrata. Passai il viale, passai sotto il Nido, passai la Mora. Alla casa del Salto trovai Nuto in grembiale, che piallava e fischiettava, scuro in faccia.
– Cosa c’è?
C’era che uno, scassando un incolto, aveva trovato altri due morti sui pianori di Gaminella, due spie repubblichine, testa schiacciata e senza scarpe. Erano corsi su il dottore e il pretore col sindaco per riconoscerli, ma dopo tre anni che cosa si poteva riconoscere? Dovevan essere repubblichini perché i partigiani morivano a valle, fucilati sulle piazze e impiccati ai balconi, o li mandavano in Germania.
– Che c’è da pigliarsela? – dissi. – Si sa.
Ma Nuto rimuginava, fischiettando scuro.
XI
Diversi anni prima – qui da noi c’era già la guerra – avevo passato una notte che ogni volta che cammino lungo la ferrata mi torna in mente. Fiutavo già quello che poi successe – la guerra, l’internamento, il sequestro – e cercavo di vendere la baracca e trasferirmi nel Messico. Era il confine piú vicino e avevo visto a Fresno abbastanza messicani miserabili per sapere dove andavo. Poi l’idea mi passò perché delle mie cassette di liquori i messicani non avrebbero saputo che farsene, e venne la guerra. Mi lasciai sorprendere – ero stufo di prevedere e di correre, e ricominciare l’indomani. Mi toccò poi ricominciare a Genova l’altr’anno.
Fatto sta che lo sapevo che non sarebbe durata, e la voglia di fare, di lavorare, di espormi, mi moriva tra le mani. Quella vita e quella gente a cui ero avvezzo da dieci anni, tornava a farmi paura e irritarmi. Andavo in giro in camioncino sulle strade statali, arrivai fino al deserto, fino a Yuma, fino ai boschi di piante grasse. M’aveva preso la smania di vedere qualcos’altro che non fossero la valle di San Joaquin o le solite facce. Sapevo già che finita la guerra avrei passato il mare per forza, e la vita che facevo era brutta e provvisoria.
Poi smisi anche di fare puntate su quella strada del sud. Era un paese troppo grande, non sarei mai arrivato in nessun posto. Non ero piú quel giovanotto che con la squadra ferrovieri in otto mesi ero arrivato in California. Molti paesi vuol dire nessuno.
Quella sera mi s’impannò il camioncino in aperta campagna. Avevo calcolato di arrivare alla stazione 37 col buio e dormirci. Faceva freddo, un freddo secco e polveroso, e la campagna era vuota. Campagna è dir troppo. A perdita d’occhio una distesa grigia di sabbia spinosa e monticelli che non erano colline, e i pali della ferrata. Pasticciai intorno al motore – niente da fare, non avevo bobine di ricambio.
Allora cominciai a spaventarmi. In tutto il giorno non avevo incrociato che due macchine: andavano alla costa. Nel mio senso, nessuna. Non ero sulla strada statale, avevo voluto attraversare la contea. Mi dissi: «Aspetto. Passerà qualcuno». Nessuno passò fino all’indomani. Fortuna che avevo qualche coperta per avvolgermi. «E domani?» dicevo.
Ebbi il tempo di studiare tutti i sassi della massicciata, le traversine, i fiocchi di un cardo secco, i tronchi grassi di due cacti nella conca sotto la strada. I sassi della massicciata avevano quel colore bruciato dal treno, che hanno in tutto il mondo. Un venticello scricchiolava sulla strada, mi portava un odore di sale. Faceva freddo come d’inverno. Il sole era già sotto, la pianura spariva.
Nelle tane di quella pianura sapevo che correvano lucertole velenose e millepiedi; ci regnava il serpente. Cominciarono gli urli dei cani selvatici. Non eran loro il pericolo, ma mi fecero pensare che mi trovavo in fondo all’America, in mezzo a un deserto, lontano tre ore di macchina dalla stazione piú vicina. E veniva notte. L’unico segno di civiltà lo davano la ferrata e i fili dei pali. Almeno fosse passato il treno. Già varie volte mi ero addossato a un palo telegrafico e avevo ascoltato il ronzío della corrente come si fa da ragazzi. Quella corrente veniva dal nord e andava alla costa. Mi rimisi a studiare la carta.
I cani continuavano a urlare, in quel mare grigio ch’era la pianura – una voce che rompeva l’aria come il canto del gallo – metteva freddo e disgusto. Fortuna che m’ero portata la bottiglia del whisky. E fumavo, fumavo, per calmarmi. Quando fu buio, proprio buio, accesi il cruscotto. I fari non osavo accenderli. Almeno passasse un treno.
Mi venivano in mente tante cose che si raccontano, storie di gente che s’era messa su queste strade quando ancora le strade non c’erano, e li avevano ritrovati in una conca distesi, ossa e vestiti, nient’altro. I banditi, la sete, l’insolazione, i serpenti. Qui era facile capacitarsi che ci fosse stata un’epoca in cui la gente si ammazzava, in cui nessuno toccava terra se non per restarci. Quel filo sottile della ferrata e della strada era tutto il lavoro che ci avevano messo. Lasciare la strada, inoltrarsi nelle conche e nei cacti, sotto le stelle, era possibile?
Lo starnuto di un cane, piú vicino, e un rotolío di pietre mi fece saltare. Spensi il cruscotto; lo riaccesi quasi subito. Per passare la paura, mi ricordai che verso sera avevo superato un carretto di messicani, tirato da un mulo, carico che sporgeva, di fagotti, di balle di roba, di casseruole e di facce. Doveva essere una famiglia che andava a fare la stagione a San Bernardino o su di là. Avevo visto i piedi magri dei bambini e gli zoccoli del mulo strisciare sulla strada. Quei calzonacci bianco sporco sventolavano, il mulo sporgeva il collo, tirava. Passandoli avevo pensato che quei tapini avrebbero fatto tappa in una conca – alla stazione 37 quella sera non ci arrivavano certo.
Anche questi, pensai, dove ce l’hanno casa loro? Possibile nascere e vivere in un paese come questo? Eppure si adattavano, andavano a cercare le stagioni dove la terra ne dava, e facevano una vita che non gli lasciava pace, metà dell’anno nelle cave, metà sulle campagne. Questi non avevano avuto bisogno di passare per l’ospedale di Alessandria – il mondo era venuto a stanarli da casa con la fame, con la ferrata, con le loro rivoluzioni e i petroli, e adesso andavano e venivano rotolando, dietro al mulo. Fortunati che avevano un mulo. Ce n’era di quelli che partivano scalzi, senza nemmeno la donna.
Scesi dalla cabina del camioncino e battei i piedi sulla strada per scaldarmeli. La pianura era smorta, macchiata di ombre vaghe, e nella notte la strada si vedeva appena. Il vento scricchiolava sempre, agghiacciato, sulla sabbia, e adesso i cani tacevano; si sentivano sospiri, ombre di voci. Avevo bevuto abbastanza da non prendermela piú. Fiutavo quell’odore di erba secca e di vento salato e pensavo alle colline di Fresno.
Poi venne il treno. Cominciò che pareva un cavallo, un cavallo col carretto su dei ciottoli, e già s’intravedeva il fanale. Lí per lí avevo sperato che fosse una macchina o quel carretto dei messicani. Poi riempí tutta la pianura di baccano e faceva faville. Chi sa cosa ne dicono i serpenti e gli scorpioni, pensavo. Mi piombò addosso sulla strada, illuminandomi dai finestrini l’automobile, i cacti, una bestiola spaventata che scappò a saltelli; e filava sbatacchiando, risucchiando l’aria, schiaffeggiandomi. L’avevo tanto aspettato, ma quando il buio ricadde e la sabbia tornò a scricchiolare, mi dicevo che nemmeno in un deserto questa gente ti lasciano in pace. Se domani avessi dovuto scapparmene, nascondermi, per non farmi internare, mi sentivo già addosso la mano del poliziotto come l’urto del treno. Era questa l’America.
Ritornai nella cabina, mi feci su in una coperta e cercavo di sonnecchiare come fossi sull’angolo della strada Bellavista. Adesso rimuginavo che con tanto che i californiani erano in gamba, quei quattro messicani cenciosi facevano una cosa che nessuno di loro avrebbe saputo. Accamparsi e dormire in quel deserto – donne e bambini – in quel deserto ch’era casa loro, dove magari coi serpenti s’intendevano. Bisogna che ci vada nel Messico, dicevo, scommetto che è il paese che fa per me.
Piú avanti nella notte una grossa cagnara mi svegliò di soprassalto. Sembrava che tutta la pianura fosse un campo di battaglia, o un cortile. C’era una luce rossastra, scesi fuori intirizzito e scassato; tra le nuvole basse era spuntata una fetta di luna che pareva una ferita di coltello e insanguinava la pianura. Rimasi a guardarla un pezzo. Mi fece davvero spavento.
XII
Nuto non si era sbagliato. Quei due morti di Gaminella furono un guaio. Cominciarono il dottore, il cassiere, i tre o quattro giovanotti sportivi che pigliavano il vermut al bar, a parlare scandalizzati, a chiedersi quanti poveri italiani che avevano fatto il loro dovere fossero stati assassinati barbaramente dai rossi. Perché, dicevano a bassa voce in piazza, sono i rossi che sparano nella nuca senza processo. Poi passò la maestra – una donnetta con gli occhiali, ch’era sorella del segretario e padrona di vigne – e si mise a gridare ch’era disposta a andarci lei nelle rive a cercare altri morti, tutti i morti, a dissotterrare con la zappa tanti poveri ragazzi, se questo fosse bastato per far chiudere in galera, magari per far impiccare, qualche carogna comunista, quel Valerio, quel Pajetta, quel segretario di Canelli. Ci fu uno che disse: – È difficile accusare i comunisti. Qui le bande erano autonome. – Cosa importa, – disse un altro, – non ti ricordi quello zoppo dalla sciarpa, che requisiva le coperte? – E quando è bruciato il deposito… – Che autonomi, c’era di tutto… – Ti ricordi il tedesco…
– Che fossero autonomi, – strillò il figlio della madama della Villa, – non vuol dire. Tutti i partigiani erano degli assassini.
– Per me, – disse il dottore guardandoci adagio, – la colpa non è stata di questo o di quell’individuo. Era tutta una situazione di guerriglia, d’illegalità, di sangue. Probabilmente questi due hanno fatto davvero la spia… Ma, – riprese, scandendo la voce sulla discussione che ricominciava, – chi ha formato le prime bande? chi ha voluta la guerra civile? chi provocava i tedeschi e quegli altri? I comunisti. Sempre loro. Sono loro i responsabili. Sono loro gli assassini. È un onore che noi Italiani gli lasciamo volentieri…
La conclusione piacque a tutti. Allora dissi che non ero d’accordo. Mi chiesero come. In quell’anno, dissi, ero ancora in America. (Silenzio). E in America facevo l’internato. (Silenzio). In America che è in America, dissi, i giornali hanno stampato un proclama del re e di Badoglio che ordinava agli Italiani di darsi alla macchia, di fare la guerriglia, di aggredire i tedeschi e i fascisti alle spalle. (Sorrisetti). Piú nessuno se lo ricordava. Ricominciarono a discutere.
Me ne andai che la maestra gridava: – Sono tutti bastardi – e diceva: – È i nostri soldi che vogliono. La terra e i soldi come in Russia. E chi protesta farlo fuori.
Nuto venne anche lui in paese a sentire, e adombrava come un cavallo. – Possibile, – gli chiesi, – che non uno di questi ragazzi ci sia stato e possa dirlo? A Genova i partigiani hanno perfino un giornale…
– Di questi nessuno, – disse Nuto. – È tutta gente che si è messa il fazzoletto tricolore l’indomani. Qualcuno stava a Nizza, impiegato… Chi ha rischiato la pelle davvero, non ha voglia di parlarne.
I due morti non si poteva riconoscerli. Li avevano portati su una carretta nel vecchio ospedale, e diversi andarono a vederli e uscivano storcendo la bocca. – Mah, – dicevano le donne, sugli usci del vicolo, – tocca a tutti una volta. Però cosí è brutto —. Dalla bassa statura dei corpi e da una medaglietta di S. Gennaro che uno dei due aveva al collo, il pretore concluse ch’erano meridionali. Dichiarò «sconosciuti» e chiuse l’inchiesta.
Chi non chiuse ma si mise d’attorno fu il parroco. Convocò subito il sindaco, il maresciallo, un comitato di capifamiglia e le priore. Mi tenne al corrente il Cavaliere, perché lui ce l’aveva col parroco che gli aveva tolta senza neanche dirglielo la placca d’ottone dal banco. – Il banco dove s’inginocchiava mia madre, – mi disse. – Mia madre che ha fatto piú bene lei alla chiesa di dieci tangheri come costui…
Dei partigiani il Cavaliere non giudicò. – Ragazzi, – disse. – Ragazzi che si sono trovati a far la guerra… Quando penso che tanti…
Insomma il parroco tirava l’acqua al suo mulino e non aveva ancora digerita l’inaugurazione della lapide ai partigiani impiccati davanti alle Ca’ Nere, ch’era stata fatta senza di lui due anni fa da un deputato socialista venuto apposta da Asti. Nella riunione in canonica il parroco aveva sfogato il veleno. S’eran sfogati tutti quanti e s’erano messi d’accordo. Siccome non si poteva denunciare nessun ex partigiano, tanto tempo era passato, e non c’erano piú sovversivi in paese, decisero di dare almeno battaglia politica che la sentissero da Alba, di fare una bella funzione – sepoltura solenne alle due vittime, comizio e pubblico anatema contro i rossi. Riparare e pregare. Tutti mobilitati.
– Non sarò io a rallegrarmi di quei tempi, – disse il Cavaliere. – La guerra, dicono i francesi, è un sale métier. Ma questo prete sfrutta i morti, sfrutterebbe sua madre se l’avesse…
Passai da Nuto per raccontargli anche questa. Lui si grattò dietro l’orecchio, guardò a terra e masticava amaro. – Lo sapevo, – disse poi, – ha già tentato un colpo cosí con gli zingari…
– Che zingari?
Mi raccontò che nei giorni del ’45 una banda di ragazzi avevano catturato due zingari che da mesi andavano e venivano, facevano doppio gioco, segnalavano i distaccamenti partigiani. – Sai com’è, nelle bande c’era di tutto. Gente di tutt’Italia, e di fuori. Anche ignoranti. Non s’era mai vista tanta confusione. Basta, invece di portarli al comando, li prendono, li calano in un pozzo e gli fanno dire quante volte erano andati alla caserma dei militi. Poi uno dei due, che aveva una bella voce, gli dicono di cantare per salvarsi. Quello canta, seduto sul pozzo, legato, canta come un matto, ce la mette tutta. Mentre canta, un colpo di zappa per uno, li stendono… Li abbiamo dissotterrati due anni fa, e subito il prete ha fatto la predica in chiesa… Di prediche su quelli delle Ca’ Nere non ne ha mai fatte, ch’io sappia.
– Al vostro posto, – gli dissi, – andrei a chiedergli una messa per i morti impiccati. Se rifiuta, lo smerdate davanti al paese.
Nuto ghignò, senz’allegria. – È capace di accettare, – mi disse, – e di farci lo stesso il suo comizio.
E cosí la domenica si fece il funerale. Le autorità, i carabinieri, le donne velate, le Figlie di Maria. Quel diavolo fece venire anche i Battuti, in casacca gialla, uno strazio. Fiori da tutte le parti. La maestra, padrona di vigne, aveva mandato in giro le bambine a saccheggiare i giardini. Il parroco, parato a festa, con gli occhiali lucidi, fece il discorso sui gradini della chiesa. Cose grosse. Disse che i tempi erano stati diabolici, che le anime correvano pericolo. Che troppo sangue era stato sparso e troppi giovani ascoltavano ancora la parola dell’odio. Che la patria, la famiglia, la religione erano tuttora minacciate. Il rosso, il bel colore dei martiri, era diventato l’insegna dell’Anticristo, e in suo nome s’erano commessi e si commettevano tanti delitti. Bisognava pentirci anche noi, purificarci, riparare – dar sepoltura cristiana a quei due giovani ignoti, barbaramente trucidati – fatti fuori, Dio sa, senza il conforto dei sacramenti – e riparare, pregare per loro, drizzare una barriera di cuori. Disse anche una parola in latino. Farla vedere ai senza patria, ai violenti, ai senza dio. Non credessero che l’avversario fosse sconfitto. In troppi comuni d’Italia ostentava ancora la sua rossa bandiera…
A me quel discorso non dispiacque. Cosí sotto quel sole, sugli scalini della chiesa, da quanto tempo non sentivo piú la voce di un prete dir la sua. E pensare che da ragazzo quando la Virgilia ci portava a messa, credevo che la voce del prete fosse qualcosa come il tuono, come il cielo, come le stagioni – che servisse alle campagne, ai raccolti, alla salute dei vivi e dei morti. Adesso mi accorsi che i morti servivano a lui. Non bisogna invecchiare né conoscere il mondo.
Chi non apprezzò il discorso fu Nuto. Sulla piazza qualcuno dei suoi gli strizzava l’occhio, gli borbottava al volo una paroletta. E Nuto scalpitava, soffriva. Trattandosi di morti, sia pure neri, sia pure ben morti, non poteva far altro. Coi morti i preti hanno sempre ragione. Io lo sapevo, e lo sapeva anche lui.
XIII
Si riparlò di questa storia, in paese. Quel parroco era in gamba. Batté il ferro l’indomani dicendo una messa per i poveri morti, per i vivi ch’erano ancora in pericolo, per quelli che dovevano nascere. Raccomandò di non iscriversi ai partiti sovversivi, di non leggere la stampa anticristiana e oscena, di non andare a Canelli se non per affari, di non fermarsi all’osteria, e alle ragazze di allungarsi i vestiti. A sentire i discorsi che facevano adesso donnette e negozianti in paese, il sangue era corso per quelle colline come il mosto sotto i torchi. Tutti eran stati derubati e incendiati, tutte le donne ingravidate. Fin che l’ex podestà disse chiaro, sui tavolini dell’Angelo, che ai tempi di prima queste cose non succedevano. Allora saltò su il camionista – uno di Calosso, grinta dura – che gli chiese dov’era finito, ai tempi di prima, quello zolfo del Consorzio.
Tornai da Nuto e lo trovai che misurava degli assi, sempre imbronciato. La moglie in casa dava il latte al bambino. Gli gridò dalla finestra ch’era scemo a pigliarsela, che nessuno aveva mai guadagnato niente con la politica. Io per tutto lo stradone, dal paese al Salto, avevo rimuginato queste cose ma non sapevo come dirgli la mia. Adesso Nuto mi guardò, sbatté la riga e mi chiese brusco se non ne avevo abbastanza, che cosa ci trovavo in questi paesacci.
– Dovevate farla allora, – gli dissi, – non è da furbi cimentare le vespe.
Allora lui gridò dentro la finestra: – Comina, vado via —. Raccolse la giacca e mi disse: – Vuoi bere? – Mentre aspettavo raccomandò qualcosa ai garzoni sotto la tettoia; poi si volta e mi fa: – Sono stufo. Andiamocene fuori dai piedi.
Ci arrampicammo per il Salto. Da principio non si parlava, o si diceva solamente: «L’uva quest’anno è bella». Passammo tra la riva e la vigna di Nuto. Lasciammo la stradetta e prendemmo il sentiero – ripido che bisognava mettere i piedi di costa. Alla svolta di un filare incocciammo il Berta, il vecchio Berta che non usciva piú dai beni. Mi soffermai per dir qualcosa, per farmi conoscere – mai piú avrei creduto di ritrovarlo ancora vivo e cosí sdentato – ma Nuto tirò dritto; disse soltanto: – Salutiamo —. Il Berta non mi conobbe di certo.
Fin qui ero salito un tempo, dove finiva il cortile della casa dello Spirita. Ci venivamo in novembre a rubargli le nespole. Cominciai a guardarmi sotto i piedi – le vigne asciutte e gli strapiombi, il tetto rosso del Salto, il Belbo e i boschi. Anche Nuto adesso rallentava, e andavamo testardi, sostenuti.
– Il brutto, – disse Nuto, – è che siamo degli ignoranti. Il paese è tutto in mano a quel prete.
– Vuoi dire? Perché non gli rispondi?
– Vuoi rispondere in chiesa? Quest’è un paese che un discorso lo puoi soltanto fare in chiesa. Se no, non ti credono… La stampa oscena e anticristiana, lui dice. Se non leggono neanche l’almanacco.
– Bisogna uscire dal paese, – gli dissi. – Sentire le altre campane, prender aria. A Canelli è diverso. Hai sentito che l’ha detto anche lui che Canelli è l’inferno.
– Bastasse.
– Si comincia. Canelli è la strada del mondo. Dopo Canelli viene Nizza. Dopo Nizza Alessandria. Da soli non farete mai niente.
Nuto cacciò un sospiro e si fermò. Mi soffermai anch’io e guardai giú nella vallata.
– Se vuoi combinare qualcosa, – dissi, – devi tenere i contatti col mondo. Non avete dei partiti che lavorano per voi, dei deputati, della gente apposta? Parlate, trovatevi. In America fanno cosí. La forza dei partiti è fatta di tanti piccoli paesi come questo. I preti non lavorano mica isolati, hanno dietro tutta una lega di altri preti… Perché quel deputato che ha parlato alle Ca’ Nere non ci torna?…
Ci sedemmo all’ombra di quattro canne, sull’erba dura, e Nuto mi spiegò perché il deputato non tornava. Dal giorno della liberazione – quel sospirato 25 aprile – tutto era andato sempre peggio. In quei giorni sí che s’era fatto qualcosa. Se anche i mezzadri e i miserabili del paese non andavano loro per il mondo, nell’anno della guerra era venuto il mondo a svegliarli. C’era stata gente di tutte le parti, meridionali, toscani, cittadini, studenti, sfollati, operai – perfino i tedeschi, perfino i fascisti eran serviti a qualcosa, avevano aperto gli occhi ai piú tonti, costretto tutti a mostrarsi per quello che erano, io di qua tu di là, tu per sfruttare il contadino, io perché abbiate un avvenire anche voi. E i renitenti, gli sbandati, avevano fatto vedere al governo dei signori che non basta la voglia per mettersi in guerra. Si capisce, in tutto quel quarantotto s’era fatto anche del male, s’era rubato e ammazzato senza motivo, ma mica tanti: sempre meno – disse Nuto – della gente che i prepotenti di prima hanno messo loro su una strada o fatto crepare. E poi? com’era andata? Si era smesso di stare all’erta, si era creduto agli alleati, si era creduto ai prepotenti di prima che adesso – passata la grandine – sbucavano fuori dalle cantine, dalle ville, dalle parrocchie, dai conventi. – E siamo a questo, – disse Nuto, – che un prete che se suona ancora le campane lo deve ai partigiani che gliele hanno salvate, fa la difesa della repubblica e di due spie della repubblica. Se anche fossero stati fucilati per niente, – disse, – toccava a lui fare la forca ai partigiani che sono morti come mosche per salvare il paese?
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