Книга Lia - читать онлайн бесплатно, автор Delio Zinoni. Cтраница 10
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Lia

Ero giunto a metà dei manifesti, quando Gost Baran sporse la testa dal tendone. – Come? Ancora qui? Ad ogni momento che trascorre, chissà quanti cittadini di Larissa passano per la strada senza vedere i nostri manifesti! E chi può dire quanti di costoro sarebbero altrimenti venuti al nostro spettacolo?

Dumpy Dum gli fece cenno con la mano di avvicinarsi. Gost Baran esaminò i manifesti già completati. – Ah... – disse. – Certo, un lavoro ben fatto richiede tempo, e l’eleganza della forma è motivo di attrazione. Ma nelle cose umane, e in particolare in quelle del teatro, ottima cosa è contemperare varie esigenze. In una parola: affrettati. – Tornò dietro il tendone, e Dumpy Dum mi strizzò un occhio.

Completai il lavoro, arrotolai i manifesti e me li infilai sotto un braccio. Dumpy Dum prese pennello e colla. – Avviamoci! – disse il nano, esaminando la lista.

– Sai dove si trovano questi posti?

– Quasi tutti. Per gli altri, chiederemo.

– Sei già stato a Larissa?

– Molte volte... Che stai aspettando?

– Pensavo... tutte quelle regole di etichetta, non sono sicuro di ricordarle.

Dumpy Dum rise. – Non è il caso di preoccuparsi. Un ragazzo e un nano: nessuno baderà a noi. Siamo troppo piccoli! – Stavo per protestare: io non sono piccolo! Ho già indossato la mia prima maschera alla Festa di Morraine! Poi pensai: questa non è Morraine. Io non sono nato a Morraine. Non ho mai abitato a Morraine.

Imboccammo una strada. Alzai lo sguardo, e quasi incespicai. Dumpy Dum mi afferrò per un braccio. – Attento! Che ti prende?

La strada era lunga e dritta. In fondo, si scorgevano le montagne. Le case formavano un imbuto in cui si riversava la luce del sole. In alto, i tetti si inclinavano gli uni verso gli altri. Mi aveva preso una specie di vertigine a rovescio: come se il cielo minacciasse di risucchiarmi in alto. Voltai gli occhi da una parte: uno stretto vicolo, le grondaie che si sovrapponevano, e a metà altezza un arco che doveva servire a far sì che le due case non rovinassero l’una sull’altra.

Chiusi gli occhi. Abbassai la testa. Li riaprii e li tenni fissi sul selciato di ciottoli.

– Andiamo – dissi. Da quel momento mi concentrai sui particolari: gli abiti dei passanti, che erano in genere più fantasiosi, ma spesso anche più stracciati, di quelli abituali a Morraine; le grate delle cantine, che avevano quasi tutte una forma ovale; i rifiuti abbandonati agli angoli delle strade, fra cui frugavano i cani (ci sono pochissimi cani a Morraine: a nessuno piace vedere il proprio cortile sporco, o attraversare androni puzzolenti). Soprattutto osservavo le porte e i portoni: il tipo di legno e le finiture, la grandezza delle teste dei chiodi, la forma delle cornici e degli intagli. La lavorazione non mi sembrava particolarmente curata. Avevo aiutato mio padre a fabbricare o a riparare molti portoni, nella nostra bottega. Quasi tutti i cortili hanno uno stile proprio; c’era un vecchio artigiano, nel Cortile del Nano, che sapeva dire il nome del cortile dopo una sola occhiata ad un portone che gli fosse stato portato per riparare. Si chiamava Arsinon, e aveva delle mani straordinariamente deformate dal lavoro e dall’artrite, ma in qualche modo abilissime. Quando eravamo bambini, ci nascondevamo nella sua bottega, e lui faceva finta di non averci visto...

Basta, mi dissi. Non devo pensare a Morraine. Basta con la nostalgia. Guardati intorno, Iko... no: Arquin. Questa è la tua prima città.

Alzai la testa per guardarmi intorno, e in quel momento Dumpy Dum si fermò. – Ecco: questo è il primo. – Un muro ricoperto da strati di manifesti, nessuno dall’aspetto molto nuovo. Avvisi di spettacoli, annunci di fiere, propaganda politica (questa molto stracciata).

– Saltami sulle spalle – disse Dumpy Dum. Obbedii. Aveva i muscoli duri come pietra. Strappai pezzi di manifesti non bene aderenti, poi il nano mi passò la cola e attaccai il nostro.

Quando fui sceso, Dumpy Dum cominciò a raccogliere i pezzi caduti. – Aiutami – disse.

– Non mi sembra che qui badino molto alla pulizia – osservai.

– Loro no, ma agli stranieri capita di dover pagare pesanti multe per una disattenzione.

Mi misi a raccogliere con lena. Arrivato all’ultimo pezzo, mi fermai. C’erano solo sei lettere leggibili, a caratteri rossi: IUS ABR.

– Che ti succede? – chiese il mio compagno.

Gli mostrai il frammento. – Potrebbe essere Lelius Abramus? – Dumpy Dum sogghignò. – Un Lelius Abramus a corto di soldi potrebbe anche fermarsi a recitare a Larissa. Non è impossibile. – Ci incamminammo.

E così aveva ammesso di conoscerlo, almeno di nome.

– Questa è la strada principale – disse poco dopo Dumpy Dum.

– Come si chiama?

– Campi Elisi.

– Che nome sarebbe?

Dumpy Dum alzò le spalle. – Non lo so.

Sui Campi Elisi la gente vestiva con particolare sfarzo. C’erano molti carri. “Carrozze”, mi corresse Dumpy Dum. Servivano ai signori per passeggiare. A Morraine non c’erano carrozze: a chi poteva venire in mente di passeggiare su un carro per un cortile?

Avevamo gettato i manifesti stracciati in un vicolo dove nessuno poteva vederci, ma io avevo conservato in una tasca il frammento con IUS ABR. Come se potesse servirmi a qualcosa. Avevo incollato altri sette manifesti senza trovare fra gli strati precedenti alcuna reliquia di Lelius. Ormai mi ero abituato alle fenditure vertiginose fra le case, e riuscivo a guardarmi intorno.

Sui Campi Elisi il passeggio assomigliava a un balletto: signori con una piuma di fagiano sul cappello e mantello rosso, donne con le gonne listate di carminio, paggi in livree con gli alamari dorati, servette con cappelli di paglia, dignitari in stivali di vari colori, alti fino al ginocchio. Vidi un signore con il cappello nero, a punta, farsetto marrone da cui spuntavano i pizzi bianchì della camicia, brache di velluto antracite, stivali ocra, spostarsi prima a destra, poi a sinistra, per essere costretto infine ad una giravolta, davanti a piume di fagiano, mantello porpora, e altro che non ricordo.

Due uomini vestiti in maniera perfettamente identica si fronteggiarono a lungo, scrutandosi, fino a quando uno di loro decise di spostarsi a sinistra, in forza di qualche sottile segnale dell’abbigliamento dell’altro.

– Qual è la pena se qualcuno non si comporta secondo le regole? – chiesi a Dumpy Dum.

– Nessuna.

– Perché lo fanno, allora?

– Nella tua città... cioè, in un'altra città ti metteresti a pisciare in pubblico?

– Certo che no!

– Qui è lo stesso: solo un po’ più complicato. Ma c’è da dire che in molte strade i signori non vengono così riveriti. E in certe altre, non ci vanno proprio per niente, perché rischierebbero di ritrovarsi senza borsa e senza mantello.

Mi sembrò che questo, in qualche modo, riequilibrasse l’ordine delle cose, a Larissa.

Le donne indossavano abiti molto scollati, le sommità dei seni cosparse di polveri di vari colori. Molte tenevano in mano cordicelle di cuoio o catenine dorate, a cui erano attaccati cagnolini, mediante un anello attorno al collo. Gli animali erano di fogge e taglie quanto mai bizzarre, tanto che alcuni sembravano a stento cani, e forse non lo erano. Certuni, in maniera che non avrei saputo dire se più penosa o ridicola, avevano il pelo rasato o colorato. Ne vidi parecchi sollevare una zampa contro un muro e fare i loro bisogni, mentre le dame attendevano ostentando indifferenza.

– Noi non lasciamo certo pisciare i cani contro i muri! – mi scappò.

– Questa è Larissa – disse Dumpy Dum.

(23) GRENDEL


Incollato l’ultimo manifesto, Dumpy Dum mi diede una gomitata e con una strizzatina d’occhio e un cenno del capo indicò un’osteria. – Gost può aspettare un po’ – disse.

Ci sedemmo ad un tavolo vuoto. Gli avventori non erano molti, ma l’oste se la prendeva comoda. Forse perché eravamo un nano e un ragazzo, forse perché eravamo stranieri.

Dumpy Dum chiese d’improvviso: – Perché ti interessa Lelius Abramus?

– Oh... Quando ero a... in un posto, ho visto Teseius e Phenissa, rappresentata dalla sua compagnia. Era molto bella.

Dumpy Dum mormorò: – Sì, un’ottima compagnia. Chi erano gli attori?

– Non ricordo i nomi di tutti. Ma Phenissa era interpretata da una certa Lia, mi pare...

Dumpy Dum non disse nulla.

– Poi c’erano delle specie di burattini.

– Ah! Questo è un segreto di Lelius. Nessuno sa come li faccia muovere... Vino di Lark e prosciutto di cinghiale. – Questo all’oste, che era finalmente arrivato.

Quando tornammo al Foro delle Capre, il sole era quasi tramontato ed io leggermente ubriaco. Myrtilla stava danzando sul palco, accompagnata da Gertrid ed Astrix, rispettivamente all’arciliuto e al flauto. Baran, dietro le quinte, aveva già indossato il costume da tiranno. Ci accolse come se volesse farci tagliare la testa.

– Perché un simile ritardo? È inammissibile! Dumpy Dum, un’altra come questa e verrai cacciato! Preparati subito per il tuo numero! Arquin, la puntualità è essenziale nella nostra professione! Riempi d’olio quelle lampade, prendi dal baule il costume di Astrix, quello nero, c’è una manica da cucire, alza il fondale con la scena di palazzo.

Corse ad osservare il pubblico da dietro le quinte. A mia volta sbirciai da sopra le sue spalle. Si erano raccolte forse cento persone. Gli uomini osservavano con molto interesse Myrtilla, che indossava un’ampia veste color smeraldo, con lunghi spacchi. A mo' di introduzione intonò una canzoncina che diceva:

Ecco arrivano i pupazzi,

un due tre, via!

con i musici e i pagliacci.

Tutti bravi in fede mia,

nonostante i loro stracci.

Hanno grande fantasia,

dategli un soldo per cortesia!

Dumpy Dum mi tirò per la giacca. Mi strizzò un occhio e indicò con un cenno del capo le lampade e la fiasca dell’olio. Mi misi al lavoro.

Si sentirono degli applausi. Myrtilla aveva terminato il suo numero, e Dumpy Dum salì sul palco. La musica si fece più veloce, accompagnata da tamburi. Baran era sparito, e doveva essere lui a suonarli.

Myrtilla, arrossata ed ansimante, mi sorrise e mi diede un buffetto sulla guancia. Poi si infilò dietro un paravento per cambiarsi. Sbirciai dentro e arrossi, poi mi allontanai prima che potesse vedermi.

Dal palcoscenico provenivano tonfi frequenti: Dumpy Dum che eseguiva le sue capriole. Ogni tanto delle risa e qualche applauso.

Il nano tornò dietro le quinte con un salto mortale rovesciato. Si sedette su una cassa per riprendere fiato, ma Gost non gliene lasciò il tempo.

– Presto! La musica! – Gli porse uno strumento a fiato che non avevo mai visto, con una specie di mantice di pelle e dei tubi forniti di buchi, mentre lui stesso imbracciava un olifante e Astrix una bombarda.

Attaccarono una melodia vivace e allegra, ma il cui impeto si smorzava proprio nei momenti culminanti, come per una segreta incertezza del futuro.

Myrtilla sbucò dal paravento, allacciandosi l’abito da principessa. Si fermò dietro alle quinte, tirò un profondo respiro, poi uscì sul palco.

Sentii applaudire. Scostai un lembo del fondale. Con la coda dell’occhio vidi Gost Baran che mi guardava torvo, ma era troppo occupato a soffiare nel suo strumento per richiamarmi, ed io feci finta di niente.

Myrtilla attaccò il suo monologo. Alla luce delle lampade i vetri colorati dei suoi gingilli scintillavano come gioielli veri, e il trucco che si era data sulle guance pareva trasformarla in qualche creatura non terrestre.

Parlò delle sue speranze d’amore, di sposa promessa ad un principe straniero, famoso per prodezza e cortesia. Senza averlo mai visto prima, ella già cominciava ad amarlo.

La recitazione mi lasciò un po’ deluso. Forse perché la paragonavo, inevitabilmente, a Lia? La voce, pensai, la voce è ciò che più conta in un attore. La voce di Myrtilla non era abbastanza... da principessa. Da principessa appena adolescente e quasi sposa. La dizione era un po’ troppo veloce, talvolta leggermente stridula. Forse pretendevo troppo. E forse, ponendomi dalla parte del pubblico, avrei ricevuto un’impressione diversa.

Un brusco strattone pose fine alle mie riflessioni teatrali. Un viso tremendo mi minacciò: occhi di brace, sopracciglia nere come carbone e gigantesche, una bocca crudele.

Era Gost Baran, nel suo costume e trucco da tiranno, che con una mano dai lunghi artigli mi indicava certi tamburi e gong che dovevo battere al suo ingresso in scena. Avevo scordato le mie istruzioni. Astrix e Dumpy Dum soffiarono dentro le loro trombe. Gertrid era ancora dietro la sua tenda, ad abbigliarsi.

Pestai sui miei strumenti con convinzione sufficiente a favorire un maestoso ingresso per Grendel, che si guadagnò una buona accoglienza dalla platea. Visto che adesso Gost era sul palco, tornai senza timori al mio posto di osservazione.

Dovetti ammettere, con qualche riluttanza, che la recitazione di Gost era di un livello superiore a quella di Myrtilla. Forse un poco caricata, ma suppongo fosse quanto si aspettava il pubblico di Larissa.

Mentre il duetto proseguiva, mi resi conto di una particolare che aumentò il mio rispetto per l’attore: insensibilmente, il tiranno non era più tiranno. Padre affettuoso, ancorché severo. Monarca inflessibile, ma giusto. Guerriero coraggioso, seppure spietato. Tutto questo espresso mediante l’inflessione della voce, la scelta delle parole, la mimica: minime alterazioni rispetto al canovaccio corrente, ma sufficienti.

Gli sforzi di Baran non furono spesi invano. Gli applausi scattavano nei momenti giusti. Anche se, come potei constatare dopo essere scivolato giù dal carro-palcoscenico per poter meglio osservare il pubblico, l’iniziativa veniva sempre presa da un gruppetto di spettatori in prima fila: personaggi dall’aspetto dignitoso, vestiti riccamente, e seduti su seggi che dovevano essersi fatti portare appositamente dai servi, perché di sicuro non erano saltati fuori dal nostro carro.

Il primo atto si concluse felicemente, come testimoniarono anche le facce distese degli attori. Gost Baran arrivò a sorridermi e a darmi un colpetto di approvazione sulla spalla.

Il secondo atto si apriva nel castello del re Karmak di Freija, interpretato da un Astrix Palemon cui la magrezza conferiva una subdola malignità.

Ma, sorpresa! Al suo apparire, dal fondo della piazza, vicino all’imboccatura di un vicolo, si udì uno scroscio di applausi. Costernazione fra il pubblico, soprattutto della prima fila. I dignitari si voltarono corrucciati. Uno di loro, dotato di una pesante catena d’argento intorno al collo, si alzò in fretta e furia e si allontanò.

Io mi arrampicai sulla sponda del carro per vedere meglio. Il dignitario che si era alzato faceva grandi gesti, mentre gli applausi continuavano. La zona da cui provenivano era scarsamente illuminata, ma il gruppetto non poteva comprendere più di una dozzina di persone. Da qualche parte, forse richiamate dal gesticolare dell’uomo con la catena d’argento, giunsero delle guardie, che accorsero con un tintinnio di armi verso il vicolo buio. Prima che potessero agguantarli, i dissidenti si erano dati alla fuga. Evidentemente il piano era stato preparato con cura.

Per tutta la durata dell’incidente, Astrix non perse una battuta, né tradì esitazione alcuna.

Il dignitario con la catena tornò verso la fine dell’atto, con un’espressione scornata. Anch’io tornai al mio posto, e trovai un Gost Baran con un’aria molto meno soddisfatta di prima, benché gli applausi a Grendel, forse per fare dimenticare quelli tributati a Karmak, fossero stati abbondanti e insistenti.

Sentii il nostro capocomico consigliare agli altri di tagliare certe scene.

L’atmosfera di tensione si allentò solo alla fine, quando Myrtilla (cioè Ergrid) morì. Forse per caso, o forse per calcolo, nel lasciarsi cadere la veste le si aprì lungo un fianco, e la fanciulla rimasse stesa sul palco con le gambe scoperte. Questa volta gli applausi mi parvero spontanei. Del resto il monologo finale era stato recitato in maniera quasi perfetta, con la giusta dose di strazio e rassegnazione, quantunque mancasse delle espressioni di perdono per l’ex-sposo, e di ogni accenno ad un amore non ancora spento, come nell'originale (ma quale poteva dirsi l'originale?).

Calai il sipario. Mentre gli attori si apprestavano a ringraziare il pubblico, io uscii con un piattino per intercettare quelli che cercavano di svignarsela in anticipo. Non avevo modo di fare paragoni, ma non mi parve che le offerte fossero particolarmente generose.

Intravidi Gost Baran che parlava con i notabili, e Dumpy Dum che a sua volta raccoglieva l’obolo.

Quando tornai, Gost neppure guardò il denaro. Lo infilò in una borsa e disse: – Partiamo.

Gli altri si stavano già togliendo i costumi.

Mi toccò andare a prendere i cavalli, che erano stati messi in una stalla non lontana.

Quando tornai il carro era già stato caricato, in qualche maniera.

Aggiogammo i cavalli e partimmo. Le strade erano deserte e buie. Una lanterna accanto alla cassetta e una luna incerta ci aiutarono a ritrovare la strada. Due volte incontrammo una ronda. Baran mostrò loro una carta, che le guardie fecero finta di esaminare: forse non sapevano leggere, ma riconobbero il sigillo.

Raggiungemmo la porta opposta a quella da cui eravamo entrati. L’ufficiale di servizio lesse con attenzione, volle ispezionare il carro, ma rinunziò ben presto ad addentrarsi nella massa disordinata degli attrezzi di scena. Io osservavo tutto con un’ansia che non sapevo spiegarmi, se non che la respiravo nell’aria.

Due guardie sollevarono la sbarra, che era di rovere largo un palmo. La porta si aprì lamentosamente. Uscimmo.

Solo quando la porta si fu richiusa alle nostre spalle, mi sentii di chiedere: – Perché tanta fretta? – (ma pur sempre con un sussurro) a Dumpy Dum, che camminava vicino a me.

Poi Baran, che sedeva a cassetta, sferzò i cavalli e noi tutti che seguivamo a piedi, perché a causa del disordine non c’era posto sul carro, fummo costretti ad affrettare il passo fin quasi a correre, e la mia risposta dovette attendere.

Per la seconda volta lasciavo una città di notte.

(24) I CACCIATORI


– Ma noi che colpa potevamo avere?

– Si erano preparati, non ti pare? Dovevano saperlo in anticipo.

– Avevamo attaccato manifesti per tutta la città! – Dumpy Dum alzò le spalle, o immagino che lo facesse, nel buio.

– I nuovi regimi sono sempre sospettosi. – Dopo un istante aggiunse: – E anche quelli vecchi.

Sebbene fosse trascorsa da tempo la mezzanotte, il carro non si era ancora fermato. Procedeva lento sulla strada tortuosa e in salita, in una notte appena rischiarata dalle stelle, fra le colline a sud di Larissa.

– Gost ha paura che ci inseguano?

– Che ci ripensino – rispose laconico il nano.

Ad una lega dalla città, il nostro impresario aveva abbandonato la strada maestra, quella che conduceva ad oriente, verso il regno di Ichomene, per imboccare un viottolo che, sospettavo, neppure lui conosceva bene, perché ad ogni bivio o incrocio si fermava, e poi aveva l’aria di riprendere il cammino a caso.

– Dove stiamo andando?

– Credo che voglia trovare la strada per il mare.

Il mare!

All’alba, ci eravamo appena svegliati, ricevemmo la visita di due cacciatori. Apparvero nel nostro campo come un lento manifestarsi di ombre e di foglie e di rocce, finché non assunsero forma umana. Uno era anziano e piccolo e nodoso. L’altro giovane e piccolo e magro. Non dissero una parola. Il primo ci porse una sorta di collana: uccelli infilati per il collo in un giunco, già spennati.

Gost Baran, con notevole prontezza di spirito, li ringraziò e fece segno a Myrtilla di tirare fuori le nostre provviste, quel poco che c’era. Invitò i due cacciatori a sedersi. Il più giovane, con poche mosse, risveglio di muovo le fiamme dalle ceneri della notte. Myrtilla infilò gli uccelli in uno spiedo, insieme a dei pezzi di lardo, e li pose sul fuoco; poi tagliò il pane e del formaggio che aveva acquistato a Larissa la sera prima. Baran cavò da un nascondiglio del carro una bottiglia di vino e la stappò con sussiego, come avevo visto a fare da certi camerieri nelle locande dei cortili ricchi di Morraine.

I due non dissero nulla, mentre gli uccelli rosolavano. Ringraziarono con cenni del capo per il vino e il pane, bevvero, aspettarono. Avvolti nei loro mantelli grigio-verdi, assomigliavano a quei cacciatori che venivano a Morraine nei giorni di mercato.

Risposero ad una sola domanda: i loro nomi. Riskrill il vecchio, Paradin il giovane. Ben presto, anche la loquacità di Baran si arrese.

Una sola volta si mossero: il vecchio sfiorò con la mano il polso del suo compagno più giovane, con l’altra indicò un punto sopra la cima di certi alberi. Dopo qualche battito di cuore, un uccello dalla lunga coda bianca si alzò in volo.

Mangiammo. Del primo uccello, Riskrill gettò nel fuoco la testa, si lanciò alle spalle le ossa, seppellì in un buco praticato in terra con un dito il fegato. Paradin lo imitò con cura.

Il giovane era seduto vicino a me.

– Perché? – chiesi, senza molta speranza di ricevere una risposta. Ma forse il cibo e il vino, oppure l’esecuzione della cerimonia, avevano rotto la consegna del silenzio.

– Per conciliare. Il loro spirito – rispose. La sua voce era bassa, leggermente roca, come il fruscio del vento fra le foglie secche. Mi venne in mente che era come il suo mantello: adatta a confondersi con il bosco. – Lo spirito degli animali. Ha quattro forme. Fuoco. Aria. Terra. Acqua – aggiunse inaspettatamente.

Ci misi un momento a capire. Ma... – Acqua? – chiesi, parlando anch’io a voce bassa.

– La saliva – rispose lui.

Il ragazzo aveva più o meno la mia età. – È tuo padre?

– No. Maestro.

– Come faceva a sapere che quell’uccello si sarebbe levato?

– Il maestro è un grande cacciatore. Conosce la natura degli animali. – E dopo una pausa, a voce ancora più bassa: – Un giorno anch’io sarò un grande cacciatore.

Osservai il giovane Paradin con una certa invidia. Lui sapeva cosa sarebbe diventato. O almeno cosa voleva diventare. Il suo sguardo incrociò il mio.

Baran disse: – Stiamo cercando la strada per il mare.

Riskrill disse: – Vi accompagneremo. Per un tratto.

– Da dove vieni? – chiesi a Paradin.

– Gaskill. È un piccolo villaggio. – Indicò una direzione. Non chiese da dove venissi io.

Notai un movimento con la coda dell’occhio. Riskrill si era alzato, senza produrre il più piccolo rumore. Paradin lo imitò dopo la pausa di un respiro.

Il vecchio indicò – Di lì. Vi raggiungeremo. Volete comprare cibo?

– Sì, certo! – disse Myrtilla.

I due se ne andarono senza voltarsi. Appena superati i primi alberi, svanirono del tutto alla nostra vista.

Due ore dopo, e una lega circa di strada, ad un crocevia: eccoli ad attenderci.

Paradin appoggiò a terra un involto di pelle. Lo srotolò. Carni rosse, scuoiate. Forse due lepri e qualche uccello che non riconobbi. Alcune radici e delle erbe, raccolte in mazzi.

Myrtilla si inginocchiò per guardare. – Quanto? – chiese.