Книга Lia - читать онлайн бесплатно, автор Delio Zinoni. Cтраница 12
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Lia

Il silenzio. Il silenzio fra una parola e l’altra. Ossia, tutto ciò che non può essere scritto. Poiché, dovete sapere, la grandezza si ottiene aggiungendo, ma la perfezione togliendo.

Ma vediamo meglio cosa è quest’ordine di cui parlavo. Un’antica massima dice: simile alla pittura è la poesia, ed io per primo non ho ragione di contestarla. Tutti voi sapete quanta cura dedichi ai costumi di scena e ai fondali, e guai se le lampade non distribuiscono nella maniera più efficace luci ed ombre (qui ammiccò nella mia direzione). Vi chiederete cosa c’entra questo con la poesia propriamente detta, ma era solo per darvi l’idea.

(Se Baran non era molto coerente, dovete ricordare che aveva bevuto un po’. Un po’ più di quanto fosse solito, cioè.)

Ma il silenzio? Ecco, questo la pittura non lo sa riprodurre. Allora, dico io, perché non prendere esempio anche dalla musica? Qualcuno oserebbe negare che la poesia è anche simile alla musica?

Nessuno di noi osò negarlo.

Ma passiamo a quelli che sono i dettami più propri della nostra arte.

Se vogliamo che gli spettatori rimangano fino alla fine della recita, e ricompensino generosamente i nostri sforzi, con applausi, e meglio ancora con monete sonanti, prima cura dell’attore deve essere la ricerca del verosimile. E questa si ottiene osservando i costumi degli uomini, mutevoli a seconda degli anni e delle indoli: quelli del fanciullo che ha appena appreso a parlare e nel giro di pochi momenti passa dal riso al pianto; quelli del giovane ancora imberbe che appena libero dalla sorveglianza dei genitori o del tutore, cerca i piaceri della sfida o dell’amore, pronto ad abbandonare oggi ciò che ieri piaceva. Il fiore dell’età e delle forze virili ricerca onori e ricchezze, amicizie e potere: brame dubbiose, che agitano la vita e lasciano insoddisfatti anche chi le ha raggiunte. Da vecchio infine, assediato da molti affanni, ecco che è timoroso di perdere ciò che ha acquistato, ricorda con nostalgia la sua passata gioventù e condanna i giovani del suo tempo.

Osservare, osservare: questo è il primo impegno dell’attore. Al mercato la servetta che compra verdure, sulla piazza l’incedere di un signorotto, all’osteria i discorsi di un ubriaco, sulla strada un viaggiatore incontrato per caso (qui lanciò un’occhiata a Lektos Ly): tutto questo può suggerirvi come muovere una mano o alzare un sopracciglio nella recita successiva.

I particolari: ecco il segreto dell’artista. In null’altro si distingue il grande attore, o il grande poeta, musicista, pittore, dal mediocre mestierante. Nei particolari si nasconde la divinità.

Soddisfatto di quest’ultima massima, Baran si versò un’abbondante dose di vino e bevve con gusto.

Molti, riprese, si sono chiesti se l’arte del poeta risieda nella dote di un ingegno naturale, oppure nell’attenta cura della propria educazione. A questa domanda, amici miei, vi è una risposta semplice e inutile: in entrambe. E una seconda risposta, complicata e altrettanto inutile: nella giusta misura delle due. La complicazione risiede nel fatto che ciascuno può calcolare a suo modo la giusta misura.

Io seguivo con grande attenzione il discorso di Baran. Approfittai di una pausa per guardarmi intorno. Dumpy Dum, in un angolo, dormiva. Myrtilla cuciva qualcosa. Gertrid pareva immersa in pensieri suoi. Astrix era sparito. Blanche, appoggiata sulla spalla di Lektos Ly, teneva gli occhi chiusi. Soltanto l’ex monarca di Larissa dimostrava la mia stessa attenzione.

– Le vostre parole dimostrano competenza, acume e, cosa più rara di tutte, buon senso – disse l’uomo biondo.

Baran chinò la testa, in segno di modesto assenso.

– Ma vogliate concedermi la grazia di un’ulteriore spiegazione. In che senso avete affermato che le risposte da voi citate sono inutili? Quelle, voglio dire, che riguardano la misura esatta di ingegno ed arte in quel composto ineffabile che è la poesia?

Baran sorrise, come se si fosse atteso la domanda.

– Ineffabile, avete detto bene! E qui è già la vostra risposta. Ma procediamo con ordine. Innanzi tutto, ciascuno dovrà riconoscere che lo studio di norme e dottrine, da solo, non ha mai aiutato alcun poeta a diventare tale: altrimenti accanto alle tante scuole, accademie, collegi, atenei che vantano le nostre nobili terre, ne avremmo anche una, o molte, sospetto, che laurea poeti. Il che non avviene. Al massimo, laureano pedanti commentatori di poeti.

“D’altra parte, si è mai visto un qualsivoglia ingegno illetterato produrre opere degne di memoria? Senza l'attenta e quotidiana familiarità con le opere dei grandi Autori passati? Anche in questo caso la risposta non può che essere negativa, e noi sorridiamo giustamente dei banali e ingenui tentativi di giovani che credono basti essere, o immaginarsi, innamorati per scrivere poesie.

“Dunque, se nessuna delle due qualità da sola consente di raggiungere la vetta, o anche le pendici, di questa ardua montagna che assicura un ricordo più perenne del bronzo, e una terza via non è mai stata suggerita, non ci resta che concludere che la misteriosa essenza di cui andiamo in cerca nasca da una qualche commistione delle due. E fin qui siamo nell’ambito del semplice.

“Il difficile, e l’inutile, arrivano ora. Io vi chiedo – (qui Baran si alzò, per dare maggior enfasi alle sue dichiarazioni. Devo dire che la sua mole oscillava leggermente, ma forse era l’effetto dell’unica candela.) – Forse che qualche poeta, o un adepto in qualsivoglia delle Sette Arti Maggiori, ha mai calcolato prima di accingersi a comporre la proporzione fra ispirazione e istruzione, fra sogno e ragione, fra ciò che gli dicono le sue viscere e ciò che gli consiglia il suo cervello? Nossignore! Si mettesse a calcolare queste cose, non scriverebbe mai un rigo!

Soddisfatto delle sue conclusioni, Baran si permise un piccolo rutto, soffocandolo per rispetto a madama Blanche.

– Ma una volta completata l’opera, essa diventa oggetto pubblico – osservò il falso tiranno.

Baran aggrottò la fronte.

– Voglio dire, diventa oggetto di lettura. Cioè di un esame, più o meno approfondito. In cui non è illegittimo distinguere proporzioni e componenti. Come un esperto di vini sa distinguere l’annata, la qualità, la provenienza, la mescolanza eventuale. – Non so se ci fosse una qualche ironia in questa similitudine, del resto non del tutto appropriata, di Ly.

Baran forse preferì non cogliere l’ironia, ma non si lasciò sfuggire l’inconsistenza dell’argomento.

– Verissimo! Se, come nel caso degli esperti di vini, fosse acquisita la concordanza, e verificabile l’esattezza delle diagnosi. Ma vi è mai capitato di trovare due di questi vostri lettori esperti che vadano d’accordo fra loro? O che vi abbiano mai fornito una riprova delle loro affermazioni?

A questo, Lektos Ly non ebbe nulla da ribattere.

– Tuttavia, riflettere sulle proprie creazioni è prerogativa di questo essere razionale che chiamiamo uomo, e ciò che lo differenzia dagli animali.

Ci crediate o no, questa obiezione fui io ad avanzarla.

Baran mi guardò con accigliato stupore. Poi sorrise.

– Il nostro Arquin è un ragazzo sveglio. Del resto già me n’ero accorto. Lo sapete che conosce ben nove stili di scrittura? Ha studiato.

– E dove, posso chiedere? – volle sapere Lektos Ly.

Questo, con mio grande imbarazzo, mi aveva portato al centro dell’attenzione.

– Qua e là... – farfugliai.

– Arquin legge molto – disse Myrtilla.

– La strada e i libri sono la scuola migliore che esista – sentenziò Baran.

Lusingato da questi complimenti, non insistetti per ottenere una risposta alla mia domanda. Blanche, del resto, dava evidenti segni di stanchezza.

Così, dopo che Baran si fu versato ciò che restava nel boccale, ci disponemmo a dormire.

(28) GYENNA


E infine giungemmo al mare.

Ventre immenso della creazione, utero insaziabile

come dice non so più quale poeta.

Il mare, per me, fu Gyenna.

Gyenna era la città più grande che avessi mai visto, e la più sporca. Da allora ho appreso che tutte le città di mare, quale più quale meno, lo sono. Sporche voglio dire. Vi arrivammo dopo inesauribili ed estenuanti salite e discese, valichi che erano solo preludio a valichi successivi, polvere e sassi. Lungo le salite, tutti a piedi a spingere il carro. Nelle discese, a piedi per impedire che rotolasse giù. Solo Blanche veniva risparmiata.

Ed ecco, dalla cima di un crinale come tanti (nessuno mi aveva avvertito, suppongo per sorprendermi), in un limpido pomeriggio, con un sole arancione quasi davanti agli occhi... il mare.

Ciò che distingue un mare da un deserto, lo dico per voi che non l’avete mai visto, non è l’infinita vicinanza dell’orizzonte, né l’equanime diffondersi della luce. No: è il movimento.

Anche quando il mare è calmo, come lo era quella prima sera che lo vidi dalle montagne, il suo respiro è visibile, come quello di un bambino addormentato. Nella tempesta, il suo ansare è terribile, come antiche divinità che fanno l’amore.

Il deserto è polvere. È morto, non fosse che per il vento che da lontano viene a riscuoterlo.

Questo mi apparve da qual valico di cui ho dimenticato il nome: il respiro del mare, che si rivelava attraverso l’infinitesimo frangersi delle onde. Il respiro della nostra grande madre

Gyenna, adesso. Che è una delle città più belle che abbia mai visto.

Gyenna si protende verso il mare su un lungo promontorio ricurvo, che lo abbraccia quasi tornando su se stesso. Non contenta, Gyenna conficca pali nell’acqua, vi getta sopra pontili e passerelle, su cui poi costruisce stravaganti architetture lignee, che a loro volta cedono il posto a barconi, chiatte, semplici zattere, spesso indissolubilmente unite ai pontili, altre volte ormeggiate come se immaginassero ancora di poter salpare.

Su una di queste prendemmo alloggio.

– Costa meno – spiegò Baran.

La Gyenna acquatica è costruita in legno di ibix. Questo legno, mi informò Baran, ha la proprietà di indurire nell’acqua di mare, assumendo al contempo un colore quasi nero, che alla luce della luna diventa argenteo. Gli spioventi dei tetti sono adorni di draghi intagliati e altri animali fantastici, che hanno lo scopo di tenere lontani gli spiriti maligni.

Lasciammo il carro in un deposito, una cavernosa struttura per metà sulla terra e metà sul mare, che odorava di spezie, pesce affumicato e altre cose che non riconobbi. Baran pagò un ometto dalla carnagione giallastra, seduto in una specie di gabbia sospesa al soffitto, da cui poteva dominare tutto il deposito, o almeno quanto si scorgeva di esso alla luce delle lampade ad olio disposte apparentemente a caso. Il guardiano prese i soldi e restituì la ricevuta mediante un cestino calato con una corda.

Percorremmo pontili e passerelle scricchiolanti. Io mi tenevo in mezzo al gruppo, perché non c’erano balaustre e non sapevo nuotare. Era peggio che camminare sui tetti di Morraine, per me.

Lanterne di vari colori punteggiavano l’intrico dei moli. Porte di locande rovesciavano nella notte luci giallastre e suoni di strumenti. L’aria era gonfia di odori: pesce marcio, frittura, incensi. E la salsedine del mare

Nella notte, si aggiravano marinai e prostitute, viaggiatori e mercanti. Indossavano vestiti dalle fogge più strane, parlavano lingue sconosciute.

Il nostro alloggio si chiamava Sirena australe, e costei era rappresentata piuttosto rozzamente con i seni nudi su un’insegna di legno.

Baran, che era conosciuto all’oste, ordinò una cena di pesce per tutti. Il padrone lo invitò in cucina a scegliere. Li seguii. In una grande cesta posata per terra c’erano gli animali più strani che avessi mai visto in vita mia. Alcuni muovevano ancora le branchie, altri le chele; uno di questi venne afferrato e sventrato dal cuoco; altri, più piccoli, tuffati nell’olio bollente. Baran e l’oste discussero del pesce, della cottura, delle salse. Io osservavo le antenne di una creatura grigia, striata di rosso, e pensai: ecco come doveva essere la Tarma Lunare.

Non avevo mai mangiato pesce di mare, ma il vino, che era fresco, e amarognolo, mi aiutò a comprendere i nuovi sapori.

Dovetti berne un po’ troppo, perché al momento di andare a letto cercai di abbracciare furtivamente Myrtilla, che mi respinse ridendo.

La mattina seguente Lektos Ly ci diede il suo addio. Aveva certi amici, a Gyenna. L’avrebbero fatto partire, insieme a Blanche. Per dove? Oltremare. Non poté o non volle essere più preciso.

Ma prima di lasciarci, consegnò a Baran una lettera con il suo sigillo. – In cambio dei favori che mi avete fatto – disse. – È una lettera di presentazione per il Proto-Archivista di Bejzart XII, Arconte di Argyria.

“Come forse saprete, fra sei mesi inizieranno i festeggiamenti per i duemila anni della fondazione dell’Archìa. Il Proto-Archivista, di nome Gyon Balasco, è un mio... amico. Mi deve dei favori, di cui confido non si sia scordato.”

Un silenzio particolare aveva accolto questa dichiarazione. Dire che restammo con il fiato sospeso è poco. Avessimo potuto sospendere il battito del cuore, l’avremmo fatto.

Per parte mia (qui parla il vostro scrivano e notista) potevo ben crederlo. Poiché anche qui nell’oasi, a migliaia di leghe e di dune, a centinaia di fiumi e di foreste, a decine di montagne e di laghi, e a qualche mare di distanza da Morraine e Larissa e Gyenna, e da tutti i luoghi che il viaggiatore ci aveva nominato delle sue Terre di Mezzo (in mezzo a cosa, poi? Se c’è qualcosa che è in mezzo, è questa oasi nel Grande Deserto), anche qui, dico, è noto il nome di Argyria. Anche se, devo aggiungere, la notizia del bi-millenario ci giugeva del tutto nuova. Del resto, il computo degli anni è quanto mai vario da nazione a nazione.

– Ma certo! – disse Baran, e per la prima volta da che l’avevo conosciuto parlò sotto voce. – Argyria! Ho sentito... tutti abbiamo sentito dei duemila anni di Argyria.

– Durante questo viaggio – riprese Lektos Ly – ho potuto apprezzare i vostri meriti... come persone e come artisti. La vastità del vostro repertorio, la molteplicità della vostra esperienza, la qualità della vostra recitazione vi pongono senz’altro al pari delle migliori compagnie itineranti delle Terre. Sono certo che anche il sovrano di Argyria saprà apprezzare i vostri numerosi meriti, e confido che non sfigurerete in quella celebrazione...

– Ly... – Blanche gli sfiorò un braccio con un sorriso di rimprovero.

– Scusate – disse Ly. – Talvolta dimentico di non essere più... – Fece un gesto vago con la mano.

Baran si alzò e gli strinse la mano, con energia. – Non potremo mai ringraziarvi abbastanza! – Aveva ritrovato la sua voce.

Myrtilla lo baciò su una guancia.

Gertrid abbracciò Blanche. – Vedrai, tutto andrà bene! – le disse. Fui sorpreso di vedere due lacrime agli angoli dei suoi occhi.

– Fra sei mesi, ricordate! – disse Ly. Come se fosse possibile che lo scordassimo. – Ad Argyria.

Lektos Ly strinse la mano anche a me, Blanche mi baciò sulla guancia. Ci furono molte altre espressioni di saluto. Poi l’antico Tecnarca di Larissa e la sua compagna uscirono dalla Sirena Australe, e dalle nostre vite.

Quella sera, dopo aver rappresentato con discreto successo Il Mercante di Qom su una piazza della Vecchia Gyenna (quella di terra) né troppo grande né troppo piccola, e piena per metà, disteso su un letto della Sirena Australe, fra il confortevole russare di Baran e quello di Dumpy Dum, ripensai ad Argyria, terra di favole, di principesse e di cavalieri.

Non so qui da voi, nel deserto, ma nella terra di Mezzo non esiste un computo comune degli anni. Molte città, fra queste anche Morraine, prendono come punto di partenza la loro fondazione, reale o leggendaria che sia.

Alcuni regni o principati si affidano a calcoli dinastici. Le repubbliche preferiscono qualche avvenimento decisivo della loro storia. Molte religioni contano gli anni a partire alla nascita di qualche profeta. Fra certi popoli delle montagne è ancora in uso una numerazione che parte da un dio incarnato della Prima Era; la quantità stravagante degli anni così accumulati è per loro argomento di venerazione, per tutti gli altri testimonianza di inattendibilità. Sull’isola di Kyos, gli indovini il primo giorno dell’anno (che naturalmente non è lo stesso primo giorno di altre isole, o città, o nazioni) traggono gli auspici e assegnano a quell’anno un nome particolare. Il sistema è senza dubbio poco pratico, ma per parte mia ho sempre pensato che sia preferibile nascere secondo un nome che secondo un numero.

Per parte sua, il vostro umile copista può aggiungere che qui, nell’oasi, per trovare il luogo che occupiamo lungo il fiume del tempo, noi consideriamo il corso delle stelle e il loro lentissimo declinare.

Ebbene, fra tutti questi calendari, quando ci si deve accordare fra città, principati, confederazioni e repubbliche per trovare una data di riferimento comune, quello di Argyria viene preferito in quanto il più antico e venerabile.

Ma a parte tutto questo, i miei pensieri ruotavano come pianeti attorno ad un’altra stella (se è vero, come sostengono alcuni astronomi, che sono i pianeti a ruotare attorno alle stelle): questa stella era Lia.

Poiché, se alla festa per i duemila anni di Argyria erano davvero invitati (e chi poteva dubitarne?) i più celebri artisti delle Terre di Mezzo, senza dubbio fra questi non sarebbe mancato Lelius Abramus, con i suo carro pieno di giocolieri, saltimbanchi, pagliacci, eccetera, con i suoi burattini. E Lia.

(29) IL MERCATO


Ci fermammo a Gyenna tre o quattro settimane, non ricordo bene.

Una notte prese a soffiare un vento caldo e umido, da sud. Mi svegliai con un senso di oppressione, come se l’aria non bastasse a riempirmi i polmoni.

Gli altri, Baran e Dumpy Dum, dormivano. Astrix aveva trovato alloggio presso amici, a suo dire. Le donne dormivano in un’altra stanza. Non solo avevamo una stanza per noi uomini, ma anche letti singoli. Gyenna è ricca e usa a ricevere molti viaggiatori: benché a buon mercato, la locanda era la più lussuosa in cui mi fossi mai fermato dall’inizio del viaggio.

I miei compagni producevano i soliti rumori di chi dorme; la casa costruita sull’acqua scricchiolava assecondando le onde. Ma c’era un altro suono che veniva da fuori, indefinibile.

Mi alzai, mi vestii in silenzio. Le stanze davano su un ballatoio. La porta aprendosi cigolò, ma non più forte di quanto facesse normalmente la casa.

Fuori, una luna perfettamente rotonda colava la sua luce sul mare, trasformando in argento fino il legno di ibix e le figure di draghi scolpiti, proprio come aveva detto Baran. Alcune nubi, in alto, riflettevano il rosa pallidissimo di un’alba ancora lontana. Io ricordai un’altra luna piena, sui tetti di Morraine.

Mi guardai intorno. All’estremità del ballatoio, nell’ombra di un tetto vicino, una figura era appoggiata alla balaustra. Piangeva. La scrutai a lungo, mentre i miei occhi si abituavano al buio.

Era Gertrid.

Le nuvole si fecero di un rosa più acceso. Gertrid si asciugò le lacrime, rientrò.

Io richiusi la porta alle mie spalle, raggiunsi le scale in fondo al ballatoio, scesi.

Un ragazzo che avrà avuto la mia età stava accendendo il fuoco, sotto un calderone pieno di acqua.

– Non è presto per la colazione? – chiesi.

– È giorno di mercato. I venditori arrivano di buonora, per prendersi i posti migliori. Viaggiano tutta la notte, per mare e per terra, hanno fame. Da noi naturalmente arrivano quelli di mare.

– Da che parte è il mercato?

Il ragazzo mi guardò come se fossi un po’ stupido.

– Dappertutto. Il mercato della luna è il più grande della costa.

– La luna?

– Si tiene il giorno dopo ogni luna piena.

– E cosa si vende?

– Tutto – disse, e mi voltò le spalle, riprendendo il suo lavoro. Io rimasi lì, senza sapere cosa fare.

Dopo un po’ si voltò. – Hai fame?

– Un po’...

Mi portò delle fette di pane, una ciotola di burro giallo. Quando l’acqua del calderone cominciò a bollire preparò del tè. Aveva un profumo di fiori.

– Tu sei con i comici?

– Sì.

– Cosa reciti?

– Oh... – Mescolai il mio tè. – Questo e quello...

– Hai viaggiato molto?

– Oh, sì... Larissa, Phainon... Morraine.

– Io quando sarò più grande mi imbarcherò. Un giorno avrò una nave tutta mia. – Forse vide il mio sguardo sulla sua camicia unta e sporca di cenere, perché dopo un attimo aggiunse: – Spero...

In quel momento entrò il primo cliente, e il ragazzo andò a servirlo. Dalle finestre filtrava la luce dell’alba.

Io uscii, per la prima volta da solo in una grande città.

Recitare a Gyenna rendeva bene: la gabella di ingresso non era troppo esosa, gli spettacoli sempre discretamente affollati. Oltre agli abitanti della città, che è piuttosto grande, c’erano marinai, viaggiatori, mercanti; dopo settimane, talora mesi, confinati su una nave, cercavano svaghi e divertimento. Che non erano in primo luogo quelli del teatro, ma magari in terzo o quarto sì.

Questo per dire che Gost Baran aveva diviso, per la prima volta da quando mi ero unito al carro dei teatranti, i guadagni. Facendo le parti con grande equità, ossia, in misura decrescente: a Gertrid, ad Astrix, a Dumpy Dum, a Myrtilla, e a me. Il resto se l’era tenuto.

Perciò avevo qualche soldo in tasca, oltre a quelli che mi avevano dato i miei genitori alla partenza da Morraine; e quelli di Occhi di Gatto. Questi ultimi avevo giurato di spenderli solo in caso di estrema necessità: per non morire di fame o per salvare qualche principessa in pericolo mortale, ad esempio.

Preferivo pensare che quella borsa appartenesse al passato.

Uscii, dunque.

La città sull’acqua è un unico molo. Accanto alla Sirena Australe due barche stavano scaricando ceste ricolme di pesci che ancora si muovevano, e balle di tela grigia, dal contenuto misterioso, pesanti, che producevano tonfi sordi sulle tavole di legno bagnato.

Mentre il cielo trapassava ad un’altra sfumatura di blu, io raggiungevo il confine fra le due città. Qui barche e carri si contendevano ogni braccio di spazio. I muli soffiavano dalle narici umide. L’acqua oleosa lavava le conchiglie incise sulle pietre.

Dai moli salivano gradini arrotondati da infiniti piedi. La Gyenna di terra è quasi tutta in salita, per chi viene dal mare.

Sorgevano tendoni, alcuni colorati, la maggior parte grigiastri a causa del sale, della pioggia, della sporcizia. I venditori avevano iniziato ad esporre le loro mercanzie, alcuni per terra, altri su bancarelle costruite con i materiali più vari. Le donne cominciavano ad uscire dalle case per le compere.

Lo sguattero della Sirena Australe aveva detto il vero: al Mercato della Luna di Gyenna si vendeva di tutto: ciò che era lecito e, mi parve di intuire, ciò che non lo era; cose che conoscevo e altre che non avevo mai visto; prodotti della terra, del mare, e dell’artificio umano.

Ed ecco, sotto un arco, appese ad una rastrelliera triangolare: delle maschere. Mi fermai, trattenendo il fiato. Erano maschere di Morraine. Non vere maschere, in verità: solo quelle che noi chiamiamo larve. Non mi era mai venuto in mente che potessero diventare oggetto di commercio, in altre città. A che fine, poi? Come ornamento? Per altre feste, in altri luoghi? Non potevo credere che esistesse un’altra Festa delle Maschere, fuori da Morraine.