Книга Lia - читать онлайн бесплатно, автор Delio Zinoni. Cтраница 11
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Lia

Il maestro nominò una cifra, molto modesta. Baran lo pagò senza mercanteggiare, e Myrtilla mise cacciagione e vegetali in un cesto. Paradin riavvolse la pelle. I due presero per una delle strade e noi li seguimmo. Non si voltarono mai a guardarci, né ci rivolsero la parola. Di tanto in tanto si scambiavano occhiate, segni, forse un paio di volte una parola sussurrata. Nessuno di noi osò turbare i loro misteriosi colloqui. I pochi contadini che incontrammo salutarono i cacciatori come se li conoscessero, ricevendo in cambio un cenno del capo.

Poco prima di mezzogiorno raggiungemmo una sorta di passo fra le colline. La vegetazione era rada: ginepro, ginestre quasi in fiore, qualche quercia. Molte altre piante di cui un abitatore della città, come me, non conosceva il nome, e probabilmente non lo conoscerà mai.

Oltre il crinale, le colline si adagiavano nella pianura. La calura rendeva indistinti i contorni, ma si intravedeva il nastro grigio-argento di un fiume, macchie più scure che forse erano città, tratti più chiari di strade.

Riskrill indicò. – Ah! – disse Baran, come riconoscendo i luoghi.

Paradin era sparito. Tornò poco dopo con della legna secca. Come per incanto, il fuoco era già acceso. Myrtilla gli sorrise grata e prese le provviste, gli attrezzi da cucina.

Ricordo che faceva molto caldo, le cicale cantavano forte fra l’erba secca, e la strada polverosa aveva accresciuto la nostra sete. Myrtilla prese un fiasco di vino che aveva tenuto in fresco nella botticella dell’acqua.

Paradin si sedette di nuovo accanto a me, per mangiare. Io mi ero tolto la giacca, e l’amuleto di Occhi di Gatto mi usciva dalla camicia slacciata. Me lo tolsi dal collo e lo mostrai a Paradin. Forse perché era l’unica cosa che avessi che potesse interessarlo, pensai.

Lui lo prese e se lo rigirò fra le dita. Era una sfera perfetta, nera, di un materiale opaco e liscio, che non avevo mai visto e di cui non sapevo il nome. Vidi che anche Riskrill la fissava.

– Questo – disse Paradin. – Possiede un grande potere.

– Come lo sai? – chiesi.

– Noi... cacciatori. – Con un movimento degli occhi cercò forse l’approvazione di Riskrill. – Conosciamo la magia. La caccia è magia. Il cibo è magia. La magia... – Non gli avevo mai sentito fare un discorso così lungo. – È sapere le cose.

Riskrill si alzò. Paradin teneva ancora fra le dita la sfera magica. Me la restituì, e nel farlo la sua mano si strinse attorno alla mia.

– Vi ringraziamo – disse Baran.

Fra i cespugli bassi, i due sparirono, in un tempo sorprendentemente breve.

(25) I DUE AMANTI


Il villaggio si chiamava Ardzilla, ed era davvero piccolo. Non doveva capitare molto spesso che vedessero un carro di teatranti, lì fra le Colline Ventose, a parecchie leghe dalla Strada del Mare.

C’era una locanda passabilmente pulita, con una sala comune per gli ospiti e un cortile piuttosto grande, che d’estate doveva servire anche per trebbiare il grano.

Baran fece i suoi calcoli. Si accordò con l’oste. Non c’era bisogno di manifesti, ad Ardzilla. Al calar della sera, il villaggio si era riunito quasi al completo nel cortile della locanda, senza riuscire a riempirlo.

Allestimmo uno spettacolo senza scene, usando come palcoscenico i tavoli della sala comune. In programma: la farsa di Galapin e Pandeimon, con intermezzi musicali e danzati. Astrix faceva Galapin, Myrtilla la servetta astuta, Baran l’avaro. Gertrid era andata a dormire presto, lamentando un mal di testa, e Dumpy Dum suonava una quantità impressionante di strumenti, anche contemporaneamente.

I tre sulla scena improvvisavano quasi tutto. Pandeimon venne abbindolato come di dovere, Galapin e Yvette si sposarono.

I bambini, seduti per terra in prima fila, guardavano con grandi occhi seri, ridendo solo ad imitazione dei grandi. Quello era probabilmente il primo spettacolo della loro vita. Non avevano mai visto la Festa delle Maschere, con duecentoquaranta spettacoli in una sola sera!

Il pubblico adulto rise con moderazione: anche loro non dovevano essere molto abituati alla finzione teatrale. Nondimeno, ci ricompensarono con maggiore generosità dei cittadini di Larissa, in proporzione al loro numero e alla loro ricchezza.

Alla fine, l’oste e Baran divisero il guadagno, con reciproca soddisfazione.

Andammo a letto quando il sole era tramontato da poco, e fummo svegliati all’alba per la colazione: latte cagliato e miele. Cominciavo a pensare che la vita del comico di campagna fosse ciò che faceva per me, dopo tutto.

Phainon è molto diversa da Larissa: posta all’incrocio di due grandi vie di comunicazione, affacciata sulla riva di un fiume pieno di chiatte e di barche, accoglieva chiunque vi entrasse come un’osteria i suoi avventori, come un bazar i clienti, come una fiera i curiosi. Per la verità Dumpy Dum usò un altro paragone, che qui non riferisco.

Non contava moltissimi abitanti, ma, sdraiata ai piedi delle Colline Ventose, occupava la pianura senza curarsi dello spazio: grandi strade, case bianche con giardini davanti e orti dietro, larghe piazze per i mercati e locande, affollate di stranieri; non avevo mai visto tanti abiti di fogge così diverse.

– Qui non dobbiamo badare ai regolamenti – ci comunicò Baran. – Ma alle borse sì: i ladri abbondano.

La locanda dove ci fermammo si chiamava Il Cinghiale Azzurro, e aveva un’insegna con quell’animale e quel colore. Intorno, qualche albero, alla cui ombra riparammo il carro.

Per essere un posto dove i ladri abbondavano, pareva che gli osti non volessero rendere a costoro la vita troppo difficile. – Non sarebbe meglio un cortile chiuso e un paio di cani? – chiesi a Dumpy Dum.

– Aspetta – rispose.

Poco dopo, un garzone dell’osteria si offrì di sorvegliarci il carro durante la notte, in cambio di una modica cifra.

A Phainon rappresentammo Il principe folle, una tragedia che non compariva nella mia raccolta, e che non avevo mai sentito raccontare. Il giovane principe di Erez si finge pazzo per smascherare lo zio che ha ucciso il re suo padre. Ma finisce per immedesimarsi a tal punto nella sua finzione, da compiere atti di vera follia, come uccidere la sua promessa sposa e profanare un cimitero. Alla fine, l’unica salvezza per il regno pare essere la permanenza sul trono dello zio assassino. Ma è veramente un assassino? O è forse la madre ad avere architettato l’uccisione del marito, per gelosia? Oppure la follia del principe è reale, fin dall’inizio? Preso dalle mie varie incombenze, suppongo di essermi perso qualche battuta, perché non riesco tuttora a giungere ad una conclusione.

La storia riscosse comunque molti applausi, tanto che la rappresentammo per due sere. Cominciavo a capire che Baran possedeva il dono principale per un capocomico: quello di saper indovinare i gusti del pubblico.

– Dove ha trovato questa storia? – chiesi a Myrtilla, dopo che era stata trasportata fuori dal palcoscenico, priva di vita.

Lei alzò le spalle. – Ogni capocomico ha il suo repertorio esclusivo. Da quando sono con lui, l’abbiamo sempre rappresentata. Aiutami a slacciare il vestito.

– Cioè da quanto tempo?

– Tre anni.

– Prima cosa facevi?

– Quello che devo fare adesso: la serva. – Rise. – Dammi il costume.

– E come...

– Un cavaliere si era innamorato dell’attrice giovane. Lei ha colto l’occasione al volo, e li ha piantati in asso. Si chiamava Jaline: bionda, la bocca a forma di cuore. – Sospirò. – Era molto bella.

– Anche tu sei bionda, e sei molto bella. Scapperesti con un cavaliere?

– Certamente! – Mi diede un bacio sulla guancia. – Ma tornerei subito!

Di nuovo sulla strada del mare. La sosta a Phainon era stata remunerativa, la mattina limpida e ventosa. Il vento portava un odore sconosciuto, che io immaginai fosse quello della salsedine, finché non scoprii che soffiava dalla parte sbagliata.

Ed ecco, seduti sul ciglio della strada, all’ombra di una quercia, un uomo e una donna.

Lui era biondo, di aspetto gentile, né giovane né anziano, una cicatrice sulla tempia che gli conferiva un’espressione perennemente triste. Lei, reclinata sulla sua spalla, aveva il viso nascosto dai capelli, ma tutta la sua posa suggeriva una qualche forma di sofferenza.

Astrix, che guidava, fermò il carro. L’uomo si alzò. Indicò la sua compagna. – Mia moglie... – disse.

Gertrid si era avvicinata alla donna, seguita da Myrtilla. Lei sollevò il viso, e ci accorgemmo che era molto giovane, pallida, di una bellezza stanca e tenera.

Gertrid le chiese qualcosa che non sentii. La fanciulla mosse le labbra per rispondere.

– Poverina! – esclamò Myrtilla.

– Deve salire sul carro – disse Gertrid con fermezza.

La donna guardò il suo compagno, che non aveva più aperto bocca. Questi guardò Baran e Astrix, poi fece un piccolo cenno col capo. La fanciulla si alzò.

Solo allora mi accorsi che era incinta.

La sera alloggiammo in una locanda a cinque leghe dalla città più vicina, in ritardo sui nostri piani di marcia. La donna soffriva per le scosse del carro, anche se non aveva mai emesso un lamento. Il marito, se tale era, la guardava mordendosi le labbra. E Astrix, anche lui senza dire parola, aveva lasciato che i cavalli se la prendessero comoda.

Nell’ora più calda del pomeriggio avevamo avuto un incontro che ci aveva inquietato.

Ad un incrocio, seduti su un muricciolo di pietre a secco, si riposavano due cavalieri, accanto al tempietto della dea del triplice volto, con le candele accese lasciate in offerta dai viaggiatori.

I due ci salutarono. Indossavano quelle cappe marroni, con due spacchi di fianco per le braccia e il colletto alto, che usano i viaggiatori da un capo all’altro delle Terre di Mezzo. Né i vestiti che si scorgevano sotto i mantelli, né l’accento servivano a identificarli meglio.

Ci fermammo, discorremmo un po’ delle strade, del tempo. Concordemente, prevedemmo pioggia imminente. Poi uno dei due cavalieri chiese: – Non avete visto per caso una coppia, lui biondo, lei più giovane, incinta?

Io, scioccamente, mi guardai alle spalle. Ma il marito che di solito camminava dietro il carro, accanto all’apertura del telone, era sparito.

Prima che potessi voltare la testa, sentii Gertrid rispondere: – Certamente.

La fissai. Non capivo.

– A Phainon – proseguì Gertrid. – Erano diretti a Bassidania. Li ricordo perché sono venuti ad uno dei nostri spettacoli, e poi li abbiamo incontrati per strada.

La via per Bassidania, ricordavo, seguiva per un tratto la strada del mare.

– Ah! – disse il più anziano dei due, un uomo con la barba grigia, occhi di un azzurro metallico.

– E perché volete saperlo? – chiese Baran severamente, con la sua migliore voce da Tiranno, lanciando a Gertrid un’occhiata di rimprovero.

L’uomo con la barba grigia sollevò le due palme aperte.

– Per i migliori motivi! Vedete, lui è mio cugino. Si è innamorato di questa fanciulla, ma il padre di lui si opponeva alle nozze. Potete immaginare il resto. Sono fuggiti insieme. Il vecchio ha un caratteraccio, ma in fondo è di buon cuore, e questo figlio è la pupilla dei suoi occhi. Non può sopportare di saperlo lontano, senza un tetto, con un nipote che forse non vedrà mai. In breve: è disposto a perdonarli. Noi li stiamo cercando ovunque. La notizia che ci date ci riempie di speranza!

Io sorrisi e guardai il carro, aspettandomi di vedere il tendone aprirsi, l’uomo e la fanciulla scendere insieme, emozionati, con le lacrime agli occhi. Ecco un caso in cui la vita rivaleggiava con il teatro.

Ma niente di questo accade. Ricevetti solo un calcio negli stinchi da Dumpy Dum, che mi era vicino.

– Correte dunque a raggiungerli! – esclamò Myrtilla, arrossata come se dovesse lei stessa balzare a cavallo.

– Non sappiamo come ringraziarvi – disse l’uomo.

Baran fece un gesto magnanimo. – Di nulla. La coscienza di una buona azione è ricompensa sufficiente. Ma chissà che un giorno non possiate venire ad applaudirci!

– Con piacere! – disse il più giovane dei due, inchinandosi a Myrtilla, con il cappello sul petto.

I due salirono a cavallo, e corsero via fra una nuvola di polvere.

E adesso, nella locanda, in una stanza che avevamo per noi soli, davanti al fuoco acceso nel camino, guardavamo i due amanti, in attesa di una spiegazione.

L’uomo sospirò, e prese la mano della sua compagna.

– Adesso ho tre motivi per ringraziarvi – disse. – Vedete, io sono Lektos Ly.

(26) LA STORIA DI LY


Lektos Ly! Il monarca, il tiranno, l’affamatore del popolo, il violentatore di fanciulle!

Guardai con occhi spalancati l’uomo biondo e la sua cicatrice, poi la donna che gli sedeva accanto, con un’espressione allarmata, e infine i miei compagni, che in verità non mi parevano stupiti quanto la situazione sembrava richiedere.

– Ho saputo della vostra recita a Larissa – iniziò il tiranno. – No, no, non dovete scusarvi – (nessuno, mi pareva, aveva accennato a scusarsi). – Questo è il primo motivo per cui devo ringraziarvi. È stata un’occasione per dimostrare che non tutti a Larissa sono disposti a chinare la testa davanti al nuovo regime. Il nome di Lektos Ly non è solo esecrato e vilipeso, il fango della menzogna non l’ha ancora ricoperto del tutto.

Si andava infervorando.

– Scusatemi. So che le vostre intenzioni erano altre, e non posso certo farvene una colpa. Ho imparato anch’io, e molto in fretta, questa lezione: che chi vive sulla strada non può permettersi di guardare se la mano che gli porge il cibo abbia le unghie curate. Forse un giorno potrò ricompensarvi per il rischio che, mi pare di capire, avete corso a causa dell’azione messa in atto dai miei sostenitori. Oltre, naturalmente, ad aver salvato me e la mia compagna dai sicari dei Dieci, poco fa. Suppongo faccia parte della nobile arte dell’attore riconoscere la vera natura degli uomini sotto le apparenze. Voi avete riconosciuto la nostra e ci avete protetto, e quella dei cavalieri, e li avete mandati su una falsa pista. Sì: erano sicari incaricati dai tiranni di Larissa di cercarci. Per uccidermi, suppongo. E non oso pensare a ciò che avrebbero fatto a mia moglie e alla creatura che...

Prese la mano della donna senza finire la frase.

– Non si accontentano più del mio esilio!

La sua compagna gli lanciò un’occhiata che pareva vagamente di rimprovero. Intuii che volesse dire: non sei davanti a qualche assemblea! Sta di fatto che da quel momento l’esposizione di Lektos Ly divenne un poco meno magniloquente.

Ma ecco, così come la ricordo, la sua storia.

Sono stato Tecnarca di Larissa. Non per mio merito, ma per intrighi altrui. Una comparsa destinata a lasciare la scena poco dopo il levarsi del sipario, giusto il tempo di intrattenere con qualche lazzo gli spettatori, mentre dietro le quinte gli attori veri si disputavano la parte principale. Le grandi famiglie che governano Larissa si erano accordate su di me come male minore, burattino, capro espiatorio se fosse stato necessario. Un animale ammaestrato, ecco cos’ero per loro!

Ly tratteneva a fatica la rabbia. Si era alzato, e solo la mano della sua compagna lo indusse a risedersi.

Sono stato Tecnarca di Larissa per nove anni. Gli attori veri non si aspettavano che durassi tanto a lungo. Ma gli accidenti della fortuna, lo stallo delle forze, il favore del popolo... da burattino a burattinaio.

Come sempre l’esercizio del potere crea nemici. Rancore in chi se l’è visto sfuggire di mano, invidia in chi pensa di possedere meriti superiori, e tante altre sfumature di odio.

Concepii, iniziai ad attuare un piano audace: liberare Larissa dalla cappa soffocante della sue tradizioni, dei patetici rituali che ci rendono oggetto di riso nelle città all’intorno, che ci impediscono di trarre giovamento dalle ricchezze del nostro territorio e dall’ingegno del nostro popolo.

Pensavo di poter iniziare quest’opera dai luoghi stessi del potere, dalla cerchia di persone che mi era più vicina, dai costumi che sovrintendono ai legami di parentela della nobiltà.

Dovete sapere questo: diventando Tecnarca mi ero fidanzato. Poiché non ero sposato, la scelta era stata quasi obbligata. La fanciulla apparteneva ad una delle famiglie che avevano stretto il patto sulla base del quale ero giunto al potere. Costei, in effetti, era solo una nipote acquisita del capo di una delle famiglie in questione: segno della considerazione in cui mi tenevano! Comunque, non devo lamentarmi: fra la nobiltà di Larissa, i matrimoni vengono combinati in funzione delle alleanze politiche. Suppongo accada in molti altri posti.

Ho detto fanciulla, ma dovrei dire bambina. All’epoca del nostro fidanzamento lei aveva otto anni. L’età minima per sposarsi da noi è di quattordici, per le femmine. Per sei anni, dunque, il matrimonio rimase una promessa. Un altro trascorse nell’attesa: se l’età minima è quattordici, il costume l’allunga normalmente di un anno. Nel frattempo, lei era cresciuta: una creatura pallida e fragile, che a fatica si poteva immaginare potesse procreare dei figli. Aveva grandi occhi neri e l’ombra violacea delle vene dietro la pelle color cera. Questo è quanto ricordo di lei. Il suo nome non ha importanza.

Le facevo visita una volta alla settimana. In presenza delle sue dame di compagnia, conversavamo: del tempo, di etichetta, dei colori dei vestiti da indossare durante una caccia alla volpe, e di quelli per una gita in collina a mezza estate.

Tra le sue dame di compagnia...

Ly gettò un’occhiata alla sua donna, che arrossì leggermente.

Avrete compreso. I nostri occhi spesso si incontravano. Il suo saluto, cominciai ad immaginare, era diverso da quello che rivolgeva a chiunque altro. Giunsi ad attendere con ansia quegli incontri con la mia fidanzata!

Ly fece una lunga pausa. Poi riprese bruscamente.

In breve: diventammo amanti. Blanche ed io.

La cosa, inevitabilmente, si riseppe. Questo, di per sé, non era motivo di scandalo. A un Tecnarca, come ad ogni potente, sono consentite delle distrazioni, soprattutto se non ancora sposato, e a patto che ad esse indugi con discrezione.

Ma io e Blanche non eravamo solo amanti. Ci amavamo. E questa, questa era una inconcepibile infrazione all’etichetta!

Blanche rimase incinta. Anche questo si sarebbe potuto accomodare. Una periodo di vacanza in qualche villa di campagna... Le famiglie nobili di Larissa sono piene di bastardi.

Fu a questo punto che concepii il mio piano. Audace, folle, ingenuo: giudicate voi.

La mia politica di riforme mi aveva creato molti nemici, ma anche un seguito di sostenitori entusiasti: mercanti, cadetti, qualche nobile dalle idee aperte, letterati imbevuti di antiche dottrine, popolani che non avevano nulla da perdere. Sfidai il Senato. Ripudiai la mia promessa sposa. Contemporaneamente, proposi leggi innovative, rivoluzionarie: dal condono dei debiti, alla ridistribuzione delle terre. Fidavo nel sostegno di chi mi aveva manifestato simpatia durante gli anni di regno, e del popolo che non poteva non vedere in me un difensore, nello scarso peso familiare della mia ex-fidanzata.

Si sa: gli amici si trovano nella buona sorte, si perdono nella cattiva.

Molti che credevo fidati si tirarono indietro. Alcuni presero le parti dei miei avversari. Pochi mi rimasero fedeli. Perfino lei, la mia promessa sposa, trovò parole eloquenti per accusarmi davanti al senato. Tanto può l’orgoglio ferito; o forse qualcuno le aveva preparato il discorso.

Quanto al popolo, per lo più, rimase a guardare. Mi resi conto che per loro ero solo un nobile come gli altri, forse con idee un po’ bizzarre. Non mi avevano mai capito, né io avevo capito loro, suppongo.

Ecco, la mia storia è già finita.

Alzò le spalle.

Hanno decretato il mio esilio, sotto una qualche accusa di tradimento. I pochi amici che mi sono rimasti sono costretti a muoversi nell’ombra... come nell’occasione del vostro spettacolo. Ed ora si cerca anche la mia morte, temo. E forse quella di...

Non riuscì a continuare, forse per le lacrime, ed abbracciò la sua compagna, Blanche.

Il racconto di Lektos Ly ci lasciò grandemente commossi. Myrtilla aveva gli occhi lucidi. Gertrid abbracciò Blanche. Astrix si lisciava i baffi, e Dumpy Dum era singolarmente taciturno. Baran cercò di rincuorare Ly.

– Se davvero cercano di uccidervi, vuol dire che vi temono. Forse i vostri seguaci sono più numerosi di quanto immaginiate.

Ly sospirò. – Ahimè, non credo. Le famiglie di Larissa sono note per la pertinacia dei loro rancori, e l’acutezza dei loro sospetti.

Quanto a me, meditavo con emozione sul fato straordinario di trovarmi ad assistere ad una tragedia vera, non recitata ma vissuta! C’erano tutti gli ingredienti: scontri di potere, intrighi, amore, tradimento, morte...

Morte?

Guardai Blanche. Il suo viso portava i segni di quella bellezza stanca e tenera che è propria delle donne in attesa del loro primo figlio. Osservai Ly: la bella fronte sfigurata dalla cicatrice, che non ci aveva raccontato come si fosse procurato, e che gli dava un’espressione di fiera tristezza. Forse, pensai, era meglio che la vita non assomigliasse in tutto ad una tragedia. A quali spettatori poteva interessare un matrimonio felice, qualche figlio, una tranquilla vecchiaia, la morte nel proprio letto?

Ma se non parlava della vita, di cosa parlava la tragedia? Forse i suoi personaggi vivevano in un altro universo. In quello del mito, o del sogno, o del palcoscenico.

(27) LA LEZIONE DI BARAN


È possibile che queste riflessioni, o altre analoghe, si fossero presentate anche a Baran. Perché quella sera stessa, dopo avere abbondantemente bevuto, e forse anche per distrarre Ly e la sua compagna da pensieri più tristi, ci intrattenne con alcuni ammaestramenti sul teatro e sulla vita.

Non rammento esattamente come ci arrivò, ma ecco il succo della sua lezione, che, benché opinabile non mi pare del tutto priva di interesse.

Se volete che il pubblico pianga (iniziò Baran), è necessario innanzi tutto che gli attori piangano, e prima di loro chi ha trovato la vicenda. Vi chiederete perché abbia usato la parola “trovato” e non “inventato”. È presto detto: creare storie in realtà è come pescare nel fiume immenso dell’esistenza umana. Poeta è chi sa scegliere l’esca migliore, e il punto esatto della corrente.

Ma cosa pesca il poeta? Parole! Nient’altro che parole!

Questo disse Baran, e lo ripeté il naufrago venuto dal deserto, e se ben ricordate non è molto diverso da ciò che ho detto io, il vostro umile scrivano, all’inizio di questa mia relazione.

Cosa ci mette di suo, allora, il poeta? L’ordine. L’ordine è tutto. Ciò che viene prima e ciò che viene dopo. Il fiume della vita scorre confuso e torbido. Il poeta lo rende limpido, come un torrente di montagna in cui potete contare i sassi del fondo.

Ma l’attore può aggiungere qualcosa alle parole del poeta. Qualcosa di unico e irripetibile. Cosa? So già quello che state pensando: il tono della voce, l’espressione del viso, l’incedere e il gesto. Tutto vero. Ma ciò che più conta, ciò che veramente conta, è altro.

Qui fece una pausa d’effetto.