Quel giorno Samuel cercava nell’armadio di Monica, che era uscita per fare acquisti. Samuel guardò nei cassetti della parte di sotto senza molto successo. Poi prese una sedia per provare ad arrivare alla parte alta dell’armadio, ma tirando un foulard di Monica che era lì, tirò involontariamente una scatola di cartone. Oscar, che era al piano di sotto, salì correndo appena sentì il rumore, pensando che suo fratello fosse caduto.
– Samuel, stai bene? – gridò Oscar, mentre saliva le scale.
– Sì, sto bene.
Oscar entrò nella camera di sua madre. Samuel era seduto a guardare dei fogli, tra i quali c’erano delle fotografie.
– Chi è questo signore? – chiese Samuel.
– È mio padre.
Oscar non voleva intromettersi nell’intimità di sua madre. Così iniziò a raccogliere i fogli e le fotografie e ordinò a Samuel di continuare a cercare in un’altra stanza. All’improvviso il suo cuore accelerò. C’era una foto di sua madre incinta con suo padre. Dietro la foto c’era il nome completo di suo padre, anche lui si chiamava Oscar. Ma in quella scatola c’era molto di più. Chiuse la porta e si mise a guardare tutto. C’erano lettere indirizzate a sua madre da suo padre, dediche, poesie. Quella scatola respirava amore. Trovò un numero di telefono, immaginò che fosse di suo padre. Ma ciò che trovò nel fondo della scatola fu la cosa peggiore per Oscar. C’erano vari giocattoli e figurine, oltre a varie lettere ancora chiuse. Aprì una delle lettere, era indirizzata a lui, tutti i giocattoli erano per lui, regalo di suo padre. Inoltre c’erano foto più recenti. Oscar pianse per tutto quello che si era perso. Prese le lettere indirizzate a lui e mise il resto nella scatola. Quando uscì dalla camera, sorrise e continuò come se niente fosse.
– Samuel, non dire a mamma che abbiamo visto la scatola.
– Perché?
– Perché si arrabbierebbe.
Ore dopo Monica rientrò. Oscar si comportava come se niente fosse. Tutto sembrava normale.
Di notte lesse ogni lettera e con ogni lettera pianse sempre più afflitto, cercando di non far rumore.
Il pomeriggio del giorno successivo Oscar teneva in una mano l’opuscolo del laboratorio e nell’altra il cellulare con il numero di suo padre composto. Decise di chiamarlo. Uscì in strada con il cellulare che squillava. Tre squilli. Quattro squilli. Prima del quinto squillo risposero. Si sentì una voce maschile, calda e tranquilla, come se fosse di una persona della sua stessa età. Oscar si paralizzò. E se avesse avuto altri fratelli?
– Pronto? – ripeté la voce all’altro lato della linea telefonica.
Oscar riattaccò ed entrò in casa. Sua madre lo guardò.
– Qualcosa non va?
– No, niente.
– Non sai mentire. Dai, dimmi, che succede?
– È che ho un compito di Scienze per cui sto facendo fatica.
– Dev’essere difficile perché tu faccia fatica.
Oscar sorrise. Aveva un coefficiente intellettuale alto, prendeva sempre voti alti.
Per cena mangiarono una ricetta della nonna di Samuel e Oscar.
– È molto buono, mamma – disse Samuel.
– Grazie – disse Monica meravigliata.
– Mamma, raccontaci la storia di come hai conosciuto il papà di Oscar.
Monica guardò in direzione di Oscar, lui arrossì.
– Quella di mio papà la sappiamo già, ce l’hai raccontata molte volte – continuò Samuel, dando enfasi a “molte”.
– D’accordo, quando finiamo di cenare, ve la racconto.
3. Quello che succede a Maiorca resta a Maiorca
Era mezzanotte, e anche se Carolina se n’era andata ore prima, Keysi continuava a lavorare come se fosse ancora pomeriggio. Nella stanza si sentiva la musica di Wagner. Mentre nella stanza suonava l’ouverture de L’Olandese Volante, Keysi credette di aver trovato un antigene per il virus indiano. Ci aveva messo cinque giorni. La sua collega non aveva ancora raggiunto nessun risultato definitivo. Keysi osservava nel suo microscopio come il suo virus colpiva l’altro, distruggendolo del tutto. Prese il telefono e chiamò Norberto.
– Ce l’ho – disse la virologa appena rispose al telefono.
– Chi sei?
– Sono Keysi.
– Keysi, hai idea di che ora è? – la voce di Norberto sembrava lontana.
– Mi dispiace molto, spero di non averti svegliato.
– Sì, Keysi, stavo dormendo, ma, dimmi, cosa hai?
– L’antigene per il virus indiano, è pronto affinché un ProHu lo provi.
– Mio Dio, parli sul serio?
– Assolutamente sì.
– Bene. Chiamerò Clara, anche se starà dormendo, così domani mattina presto lo proviamo.
– Domani? È troppo tardi. E se lo provassi io con me stessa?
– Cosa? Keysi, neanche per sogno, te lo proibisco.
– D’accordo, aspetterò.
Nel tempo trascorso da quando Keysi iniziò a esaminare il virus, il numero dei morti salì fino ai settantamila circa, anche se si prevedeva che potevano essercene all’incirca ventimila senza bisogno di contarli. In India regnava il caos. A causa di questo virus tutte le frontiere erano state chiuse. Migliaia di turisti erano rimasti bloccati nel paese aspettando che qualche laboratorio trovasse una cura. Era la solita procedura quando un virus diventava incontrollabile.
Keysi tornò a casa esausta. Incrociò dei turisti inglesi, evidentemente ubriachi, che camminavano mezzi addormentati. Appena entrò in casa, accese la TV e preparò qualcosa da mangiare. Non toccava cibo da circa dodici ore. Cambiò canale per vedere il telegiornale. Keysi restò a bocca aperta. Stavano preparando una nuova legge a livello mondiale, per cui avrebbero dovuto informare la gente su tutti i virus attivi, con ogni dettaglio. Keysi pensò alle parole di Norberto della settimana precedente. Se si fosse venuto a sapere di tutti i virus, laddove ce ne fosse stato uno la gente sarebbe impazzita, avrebbe svuotato i supermercati e si sarebbe trincerata in casa finché il virus fosse sparito.
Keysi si avvicinò al Centro di Controllo della casa, un sistema che controllava praticamente tutte le funzioni della casa, e lo collegò al suo cellulare. Dal cellulare premette “Riempire vasca da bagno”, poi premette le opzioni “Acqua calda” e “Bolle di sapone”.
Quando entrò nella camera da letto per prendere dei vestiti puliti, vi trovò il suo ex fidanzato che stava dormendo. Aprì l’armadio senza far rumore e prese dei vestiti. Doveva trovare un’altra casa, la situazione era sempre più scomoda. Tutte le case che Keysi aveva visto erano vecchie, prive di Centri di Controllo.
Alle sette del mattino successivo, Keysi, dopo aver dormito appena qualche ora, entrò dalla porta dell’ufficio di Norberto.
– L’hai provato? – gli chiese disperata.
– Buongiorno anche a te – Norberto stava guardando dei fogli sulla sua scrivania.
Keysi rimase in piedi a osservarlo.
– Sì – disse dopo aver firmato un foglio —, l’ho provato.
– Prime conclusioni?
– È un successo, per ora – disse cautamente —. Pensavo che Carolina e tu creaste un antigene per ogni virus prima di consegnarmelo – Norberto sollevò la testa per guardare la ragazza inglese.
– Lo so. Vedi, quando Carolina se ne andò, stavo finendo di creare il mio antigene. Così le chiesi se le desse fastidio che te lo consegnassi e mi disse di no.
– Bene, hai fatto un buon lavoro, Keysi. Abbiamo già un antigene, ne mancano quattro, a meno che ci portino più virus. Hai visto cos’è successo a Taiwan?
– No.
– Si è incendiato un laboratorio nel quale si esaminavano virus come questo. L’intera isola è in quarantena. Immagino che si risolverà subito. La cosa che mi dà più fastidio è che la gente sta cominciando a odiare le isole in cui ci sono dei laboratori. Sai che all’inizio permettevano di installare laboratori solo su isole per paura che succedesse qualcosa come l’incendio a Taiwan e che ci fosse un’epidemia virale? È assurdo. È arrivata Carolina?
– Non ancora.
Allora si sentì un rumore di tacchi che si avvicinavano, seguito da un profumo femminile di alta gamma. Dalla porta dell’ufficio entrò una donna scultorea, bruna, alta e magra.
– Buongiorno, Titania.
– Buongiorno, papà.
– Cosa mi porti oggi? Spero che non sia un altro virus.
– Sono passata solo a salutare – Titania sorrise – e a farti vedere questo – Titania mise sul tavolo i fogli che teneva, Keysi e Norberto si avvicinarono e guardarono con attenzione —. È una nuova macchina che rileva la presenza di un virus a distanza di chilometri. Mi hanno chiesto di provarla a Taiwan.
– A Taiwan? Non si può andare a Taiwan, è in quarantena.
– Me l’hanno chiesto loro. Non importa, papà, andrà tutto bene.
Norberto guardava sua figlia con preoccupazione. Anche se sua figlia era la migliore del suo reparto, tuttavia la situazione sull’isola asiatica era instabile.
Keysi uscì dalla stanza per lasciarli soli. Quando entrò nella stanza dove lavorava con Carolina, la Sala 4, si fermò a osservare tutto: i computer oleografici tattili, le numerose macchine e altri aggeggi da laboratorio sui tavoli bianchi attaccati alle pareti, gli sgabelli viola dove si sedevano, il grande tavolo bianco al centro che quasi non usavano, e le pareti, anche loro bianche, che riflettevano la luce che entrava dalla finestra, orientata verso sud, con una vista spettacolare sul Mediterraneo, dato che non c’era nessun edificio davanti.
Keysi iniziò a studiare il virus trovato sul confine tra la Cina e la Mongolia. Per essere un virus, aveva una bellezza insolita. Appena arrivò alle prime conclusioni, seppe che per trovare un antigene per quel virus ci sarebbe voluto tempo e, dato che il numero di morti era basso in confronto agli altri (non era così per il numero di persone infette), decise di lasciarlo da parte, fare un esame preliminare dei restanti tre virus e poi sceglierne uno.
Verso le nove del mattino, mentre la sua collega studiava il virus australiano, arrivò Carolina con una faccia di una che ha dormito poco. Keysi le indicò l’orologio olografico rosso sul muro.
– Ultimamente non dormo, i miei vicini fanno sempre festa, non vedo l’ora che se ne vadano – i vicini di Carolina erano quattro giovani francesi che quell’anno studiavano all’università delle Isole Baleari.
Carolina iniziò a lavorare, nel frattempo Keysi fece un salto alla sala dove i ProHu stavano provando il suo antigene.
– Come stanno? – chiese la ragazza inglese a una giovane infermiera che era appena stata assunta dal laboratorio.
– Stanno tutti bene.
Tornando, Keysi si fermò nel corridoio e guardò la galleria fotografica del suo cellulare. In quasi tutte le foto lei appariva sorridente insieme al suo ex fidanzato. Strinse le labbra e trattenne il desiderio di piangere. In quel momento si sentì impotente. Aveva lasciato alle spalle tutta la sua vita per un uomo che l’aveva abbandonata. Non aveva nessuno sull’isola.
Carolina notò che la sua collega entrava dalla porta con un’espressione triste sulla sua faccia.
– Stai bene?
– Sì, è solo che… Sai… Non mi resta nessuno sull’isola.
– Non dire così, hai me – Carolina non sapeva se avvicinarsi per abbracciarla o no, scelse di non avvicinarsi.
Keysi si sorprese della reazione di Carolina, cosa che avrebbe posto le basi per una futura amicizia tra le due colleghe.
Tutte e due continuarono a lavorare con la musica di Wagner in sottofondo, scambiandosi dati e consigli, in una relazione in cui c’era sempre più complicità.
4. Una storia famigliare
Monica, dopo aver sistemato gli avanzi della cena e pulito il tavolo, si sedette sul divano insieme ai suoi figli e iniziò il suo racconto, mentre Samuel la guardava impaziente e Oscar iniziava a leggere qualcosa sul suo cellulare.
– Conobbi il papà di Oscar molto tempo fa a scuola, quando lui stava per compiere dodici anni e io li avevo già compiuti. Era primavera, mi ricordo che a suo papà – Monica volse lo sguardo su Oscar, che fingeva di essere interessato alla storia che sua madre raccontava al fratellino – piaceva annusare i fiori delle pesche della scuola, cosa che attirò la mia attenzione.
– Avevate dei peschi nella vostra scuola? – chiese Samuel stupito.
– Avevamo alberi di tutti i tipi – Samuel aprì la bocca sorpreso —, sai che avevamo lezioni di agricoltura?
– Ci sono anche adesso – commentò Oscar senza alzare lo sguardo dal suo cellulare.
– Un giorno mi avvicinai a suo papà e gli chiesi perché lo faceva, mi disse che gli piaceva come profumavano. Io mi avvicinai fino all’albero e staccai un fiore per annusarlo, motivo per cui suo papà si arrabbiò con me. Non voleva che nessuno toccasse gli alberi. Non mi rivolse la parola durante tutto il corso.
– Cosa successe dopo? – chiese Samuel interessato.
– Durante il corso successivo mi chiese di aiutarlo con una materia. Studiavamo mappe antiche, dovevamo disegnarle, e io ero molto brava a disegnare. Così un giorno mi si avvicinò e mi chiese se volevo realizzare un lavoro con lui, io gli dissi di sì. Alla fine finii per fare da sola tutto il lavoro. Da allora tutti i giorni ci vedevamo durante l’intervallo e dopo le lezioni tornavamo sempre insieme a casa.
– E allora vi innamoraste? – chiese Samuel curioso.
Oscar alzò lo sguardo interessato.
– Ti ho già detto che sei un bambino molto intelligente? – Samuel iniziò a ridere.
– Per molti anni fummo inseparabili, finché rimasi incinta di tuo fratello.
– E adesso dov’è? – chiese Samuel.
Monica guardò Oscar, che la guardava.
– È in cielo con mio papà?
– No, tesoro, se ne andò.
– Dove? – insistette il piccolo.
– A volte c’è gente che se ne va e sparisce dalla tua vita.
– Come zia Victoria che vive a Londra? – Victoria era la sorella del padre di Samuel.
– Sì, una cosa del genere.
– Allora possiamo andare a vederlo?
Monica stava iniziando a innervosirsi.
– È che non sappiamo dove se ne andò – intervenne Oscar per aiutare sua madre ed evitare che sgridasse Samuel.
Più tardi Monica, dopo aver messo a letto il piccolo Samuel, scese in salotto e si sedette insieme a suo figlio maggiore.
– Grazie per prima.
– Non devi ringraziarmi. So che non ti è mai piaciuto parlare di mio padre e che quando lo fai, finisci per sembrare una persona con disturbi mentali.
***Il giorno dopo Monica svegliò presto Samuel e lo portò nella camera di Oscar.
– Al tre – disse Monica a voce bassa.
– D’accordo.
– Uno, due e… Tre!
Al tre Samuel piombò sul letto di Oscar.
– Buon compleanno! – dissero Samuel e Monica all’unisono, mentre lei lanciava coriandoli colorati al festeggiato.
Erano le nove e mezza del mattino quando suonarono il campanello di casa. Monica aprì la porta, trovando Ignacio con una lettera.
– Mi dispiace, ti avevo avvertito molte volte.
Ignacio consegnò la lettera a Monica e se ne andò. Monica non aspettò di entrare in casa e aprì la lettera rompendo la busta. Era un ordine di sfratto. O pagava l’affitto entro i quattro giorni successivi o poteva già iniziare a fare le valigie.
Monica era esterrefatta, non poteva credere che Ignacio la lasciasse per strada. Forse avrebbe dovuto uscire a cena con lui per ammorbidirlo, cosa che aveva sempre rifiutato di fare perché la disgustava. Pensò a suo figlio maggiore, così tenace, che si preoccupava sempre del benessere degli altri. Lei avrebbe fatto qualsiasi cosa per i suoi figli, perfino perdere la sua dignità. Ma si preoccupava anche di quello che avrebbero potuto pensare di lei. Forse per Oscar non era stata un esempio da seguire, ma non voleva ripetere lo stesso errore con Samuel.
Suonarono di nuovo il campanello. Monica corse verso la porta con la speranza che Ignacio si fosse pentito. Al suo posto trovò Rocío, giusto ciò di cui aveva bisogno in quel momento.
– Ciao, vicina.
– Ciao, Rocío.
– Ho visto Ignacio passare di qui. Cosa voleva? Qualcosa non va?
Monica pensò a tutti gli anni in cui portava pazienza con le sue vicine, ai momenti in cui le sarebbe piaciuto dire loro che pensassero agli affari loro. Invece sospirò profondamente e molto educatamente le disse:
– Voleva solo sapere se ho i soldi per l’affitto.
Rocío sembrava poco soddisfatta.
– Festeggerai il compleanno di Oscar?
– Stasera esce con i suoi amici per festeggiarlo.
– E non organizzerai una festicciola qui?
– Non credo.
– Che peccato, avevo così voglia di una festa! Sai che Maribel sta cercando una fidanzata per Ignacio? Dovresti affrettarti, altrimenti ti sfuggirà.
– Non so di cosa parli – disse Monica confusa.
– Ho visto che ti ha fatto visita varie volte e che c’è un certo flirt innocente tra di voi.
– Sei unica, davvero – disse a voce alta, sebbene non ne avesse l’intenzione.
– Grazie, lo so, sono brava a prestare attenzione ai dettagli – disse tirando in ballo il suo ego —. Allora? Vuoi che gli dica qualcosa da parte tua?
Monica chiuse la porta senza rispondere. Forse cambiare casa non era una cattiva idea dopotutto.
Dopo che ebbe chiuso la porta, iniziò a suonare il telefono, che era in anticamera. Monica lo prese e premette il tasto verde.
– Buongiorno, è lei la signora Ibáñez? La chiamo dal servizio di autisti.
– Sì, sono io – rispose goffamente, mentre si dirigeva verso il divano per sedersi.
– Vede, abbiamo visto il suo curriculum e ci sembra una candidata molto interessante. Non si trovano persone così giovani che sappiano guidare macchine antiche. Certo che quelle moderne non si guidano. Potrebbe iniziare domani?
– Questo significa che sono assunta? – chiese Monica con un tono di voce troppo alto, mentre le si acceleravano i battiti.
– Certo, perché crede che l’abbia chiamata? – l’uomo all’altro lato della linea rise —. So che il lavoro è dal lunedì al venerdì, ma domani il mio cliente deve andare in ufficio per una riunione. Voglio che abbia chiare le regole, non gli rivolgerà la parola a meno che non lo faccia lui. Se un giorno dovrà accompagnare sua moglie o le sue figlie, sarà lo stesso. Il lavoro inizierà alle sette e mezza del mattino, ora in cui dovrà aspettare alla porta di casa del mio cliente. All’una del pomeriggio andrà a prenderlo al suo ufficio e lo porterà dove desideri. Quando scenderà dalla macchina, la sua giornata sarà conclusa. Inoltre è possibile che richieda i suoi servizi in altre date, come nel caso di domani, ma non si preoccupi, quelle ore le verranno pagate come straordinari. Per il lavoro di domani riceverà cinquecentosessanta simeoni. Guiderà una limousine del mio cliente che porteremo a casa sua oggi stesso.
Il simeone era la valuta universale da quando trecento anni prima il calo del valore di diverse monete, tra cui il dollaro statunitense e australiano, il peso messicano e lo yen giapponese, fu alla base di una grave crisi finanziaria in quei paesi e si decise che non aveva senso avere diverse monete nel mondo.
Una situazione simile si ebbe nel caso delle lingue: l’inglese e il russo vennero considerate come lingue universali, ma l’idea venne rifiutata quasi subito, sostenendo che fosse una perdita di valore culturale smettere di parlare le altre lingue. In quell’epoca esistevano centinaia di applicazioni e oggetti che fungevano da traduttori istantanei, senza aver bisogno di conoscere l’altra lingua.
***C’erano due tipi di strade: quelle antiche e quelle automatiche. Le strade antiche erano state costruite molto tempo prima, erano vecchie, erano state asfaltate da molto tempo e in generale si faceva loro poca manutenzione perché erano poco transitate. Dall’altra parte c’erano le strade automatiche che ricevevano una manutenzione costante. Mentre sulle strade antiche le macchine avevano bisogno di un autista che le guidasse, sulle strade automatiche le macchine non avevano bisogno di un autista, dato che erano connesse a un sistema centrale elettromagnetico che portava la macchina da una parte all’altra senza bisogno di fare niente, salvo indicare il posto dove si voleva andare. Inoltre funzionavano con energia solare e non inquinavano.
Ogni tipo di strada aveva i suoi pro e contro. Sulle strade automatiche non si rischiava la collisione. Il sistema informatico stradale al quale si connettevano le macchine tracciava il tragitto, lo introduceva nella mappa e lo configurava affinché non ci fosse nessun rischio. Dall’introduzione delle strade automatiche, cento anni prima, non ci fu nessun incidente su questo tipo di strada. Per questa ragione la maggior parte delle persone viaggiava su questo tipo di strada.
Da qualche tempo era di moda guidare su strade antiche. Questo valeva soprattutto per i benestanti che volevano evitare gli ingorghi delle strade automatiche. Certo che la maggior parte di loro non sapeva guidare e doveva ricorrere ad autisti, un mestiere che era riemerso con questa moda dopo essersi estinto.
Monica non guidava una macchina antica da anni. Per questo era agitata. Decise di trascorrere il pomeriggio a guidare la vecchia macchina che teneva parcheggiata nel parcheggio sotterraneo e che non aveva toccato da quando si erano trasferiti. Se la conservava ancora, era perché correva voce che avrebbero introdotto un’imposta per poter circolare sulle strade automatiche, oltre alla tassa che si pagava annualmente.
Monica guidò fino a una vecchia e abbandonata zona industriale della sua città, Elche. Lì avrebbero installato un nuovo laboratorio per esaminare i virus, dopo la demolizione e la ristrutturazione dello stesso, prevista per la fine dell’anno.
Fino ad arrivare alla zona industriale, a vari chilometri dalla sua casa bifamiliare, la macchina di Monica si bloccò tutte le volte che lei si fermò.
– Bene, Monica, puoi farcela – si disse a se stessa —, fallo per i tuoi figli e, per favore, cerca di non farti licenziare il primo giorno.
Monica continuò a esercitarsi tutto il pomeriggio, andò persino a prendere Samuel a scuola.
***Erano le dodici e mezza di sera quando Oscar entrò in casa.
– Ti sei divertito? – disse Monica dal divano.
– Ciao, mamma, molto.
– Sei tornato presto.
– Dopo tante ore con loro mi sono stancato – si giustificò Oscar sorridente.
– A tuo fratello sei mancato oggi pomeriggio.
– Perché non mi parli mai di mio padre? – chiese cambiando argomento e ricordandosi delle lettere che sua madre teneva nascoste.
– Vuoi davvero parlarne?
– Sì.
– Non sono pronta.
– Mamma, sono passati diciotto anni, voglio conoscerlo.
– Non so niente di lui da molto tempo. Magari potessi darti informazioni! Anzi, magari potessi dirti che tuo padre era meraviglioso o che ti ha cercato, ma non l’ha fatto, non si è mai preoccupato di te – mentì Monica.
Oscar andò in bagno per cercare di calmarsi. Da quando aveva scoperto le lettere di suo padre due giorni prima, aveva la sensazione di aver vissuto tutta la sua vita con un’estranea. Non conosceva più sua madre. Aveva sempre pensato che suo padre fosse la persona peggiore al mondo basandosi su quello che gli aveva detto sua madre, ma ora che aveva scoperto parte della verità, dubitava che sua madre fosse migliore. Quali ragioni poteva avere per non lasciare che gli si avvicinasse?
Monica salì per vedere se Samuel continuava a dormire. Quando scese di nuovo, trovò Oscar che guardava la TV angosciato.
– Guarda, mamma, è esploso un laboratorio di virus a Taiwan.
– È una tragedia. Per questo mi fa paura il fatto che vogliano costruire un laboratorio qui.
– È normale, Elche è la città più importante della Spagna. Il fatto che non ce ne sia uno qui è illogico – disse Oscar emozionato.
– Non andrai avanti con quella stupidaggine dei ProHu, vero?
– Stupidaggine? Ti sembra una stupidaggine rischiare la tua vita per salvare quella di altre persone? Io credo che si debba essere molto coraggiosi per fare qualcosa del genere – Oscar era turbato.
– L’hai appena detto tu stesso, rischi la tua vita. Che bisogno c’è di farlo?
– Qualcuno deve pur farlo, altrimenti tutti moriremmo. Se nessuno rischia, nessuno vince.
– E dev’essere mio figlio?
– Se c’è bisogno, sì.
– Cosa vuoi dimostrare?
– Cerco solo di aiutare, aiutare le persone malate a curarsi e aiutare te e Samuel con i soldi.
– Non devi farlo, ci sono già molti candidati.
– Sei un’ipocrita, mamma. Hai sempre detto che i ProHu sono eroi, ma non ti va l’idea che tuo figlio sia uno di loro. ProHu sì, ma senza sporcarsi le mani. Che coraggiosa che sei, mamma! – Oscar aveva le lacrime agli occhi.
– Vuoi parlare di coraggio a me? Chi ha cresciuto te e Samuel? Chi vi ha dato tutto?
– Immagino la stessa persona che da quando sono nato mi ha sempre negato di conoscere mio padre – disse Oscar cercando di recuperare la serenità.