Книга Jessica Ek - читать онлайн бесплатно, автор Giovanni Haas. Cтраница 3
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Jessica Ek
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Jessica Ek

«Matteo dunque era il bambino di cui parlava la direttrice?»

«Esatto. Una volta tornati a casa, io non volli più pensare a un'adozione. Marco, invece, dopo qualche settimana cominciò a riparlarne. Arrivammo anche a litigare, ma io ero irremovibile.»

«Poi che successe?»

«Due o tre mesi più tardi, le cose tra Marco e me non andavano più come prima: non dico che eravamo in crisi, ma qualcosa era cambiato. L’orfanotrofio era a più di sei ore di auto da casa nostra e Marco aveva cominciato ad andare a trovare Matteo senza dirmi nulla. Lo fece più volte, e io non lo capii. Una sera mi telefonò e mi disse di essere via per lavoro e che sarebbe rientrato solo il giorno seguente. Io non credetti alla sua storia e pensai che avesse un'amante; solo in quel momento cominciai a pensare alle volte che era partito molto presto e tornato a casa tardi dal lavoro, anche verso mezzanotte, e a come fosse stato strano e misterioso in quelle occasioni. Sembrava più stanco del solito, ma aveva un'aria felice e triste allo stesso tempo, e a quel punto mi fu chiaro che mi nascondeva qualcosa.»

«Quando hai scoperto come stavano in realtà le cose?»

«Decisi di affrontarlo al suo rientro; in realtà, fu lui ad affrontare me. Mi mise sul tavolo alcune fotografie che lo ritraevano con Matteo: ce n’erano alcune al parco giochi, altre dove Matteo stava mangiando una fetta di torta più grande di lui. In quegli scatti mio marito era felice come non lo vedevo da tempo.»

«E… Ti sei arrabbiata con lui per avertelo tenuto nascosto?»

«Non potevo, quelle foto erano troppo belle. E poi ero stata io a non voler più entrare nel merito; quando Marco provava a parlarmi, io cambiavo discorso oppure ci mettevamo a litigare. Mentre guardavo quelle foto, Marco mi disse: “Vuoi davvero rinunciare a tutto questo? E, soprattutto, vuoi che questo bambino debba rinunciare a una vita come l'abbiamo avuta noi, con una cameretta tutta sua, dei nonni che lo possono viziare e dei veri genitori?”»

«E tu?»

«Risposi: “Andiamo a prenderlo!". Tre settimane più tardi, Matteo dormiva nella sua nuova casa.»

Jessica si asciuga gli occhi; durante il racconto ha potuto leggere distintamente le emozioni che Elisa ha provato. Sono ancora molto forti e le hanno ricordato alcune sensazioni colte nei pensieri di sua madre quando le aveva rivelato l'esistenza dei fratelli.

«Avete fatto una cosa bellissima per lui.»

«Matteo era un bimbo magnifico, ed è stata una fortuna averlo con noi. Il suo arrivo ha sistemato in modo definitivo il nostro matrimonio: non abbiamo mai avuto momenti bui con lui in giro per casa.»

Dopo qualche attimo di silenzio, è Jessica a parlare. «Avrebbero dovuto dirvelo. Voglio dire, quando vi avevano proposto l'adozione di Ronaldo, avrebbero potuto chiedervi se non foste disposti a prendere entrambi Non capisco perché non lo abbiano fatto. Povero Ronaldo...»

«A essere sincera, ora che ci penso, prima di darci la notizia che eravamo idonei all'adozione, ci fu chiesto se eravamo disposti ad accogliere due fratellini. Nessun cenno al fatto che fossero gemelli, né ai loro nomi. Ma noi non ce l'eravamo sentita.»

Elisa intuisce la domanda che Jessica sta per farle.

«Ora vorresti sapere di Ronaldo, vero?»

«Sì ti prego.»

«Nelle due occasioni in cui vidi ancora la direttrice non affrontammo mai l'argomento, lei non fece nessun accenno a Ronaldo e io sinceramente non feci nulla per forzarla a parlare. Credo fosse stato mio marito a chiederle di tacere. Comunque il fatto che Matteo sia arrivato da noi può solo voler dire che la meningite non ha dato scampo a quel povero bimbo. Adesso, sapere che era il fratellino di Matteo è come ricevere un colpo al cuore.»

Forse è questo il significato della visione di morte che Matteo ha avuto quando ci siamo incontrati. Forse ha unito il mio arrivo con il dolore provato da Elisa e la morte di Ronaldo. Pensa Jessica, con una gran pena nel cuore.

«Credo che dovremmo dirglielo, è giusto che sappia che suo, che nostro fratello potrebbe essere morto.» Jessica lo dice in tono sconsolato, ma in lei c’è ancora una piccola speranza che le cose siano andate diversamente.

«A questo punto, non credo ci sia altro da fare. Per favore, lascia che sia io a farlo.»

«Naturalmente. Però io voglio ancora parlargli, vorrei che ci potessimo conoscere meglio… secondo te sarà possibile?»

«Faremo in modo che abbiate questa possibilità. Magari ci vorrà un po' di tempo, ma funzionerà. Ormai sei anche tu parte della famiglia, e mi dispiacerebbe se ci perdessimo di vista.»

La dolcezza di quella donna conquista Jessica: non si sente più un’estranea, una che ha invaso il terreno sacro di una famiglia con la sua presenza scomoda. Adesso è più tranquilla.

Dopo avere passato un'oretta a guardare gli album di fotografie dei Balestra, Jessica fa un gran respiro e chiede:

«Ti ricordi il nome della direttrice dell'orfanotrofio? Magari lavora ancora là.»

«Oh, ormai sarà sicuramente in pensione, è passato molto tempo. Comunque, era qualcosa come Di Baggio, o…aspetta, aspetta… era Del Biagio, sì, Del Biagio.»

«Grazie. Vorrei sapere qualche cosa di più sul loro arrivo in orfanotrofio: chi ce li ha portati, se c'era una persona di riferimento in caso di bisogno.»


Capitolo 3

23 novembre 2011

Nico è in piedi di fronte alla vetrata che dal suo ufficio guarda il magazzino sottostante, probabilmente a suo tempo serviva al direttore di quel posto per sorvegliare i dipendenti; lui invece la usa per riflettere, per dirigere lo sguardo dove ormai non c'è più nulla da vedere e nulla che lo possa distrarre.

Sta pensando a Elia, il dodicenne che anni prima, in pieno giorno, era stato caricato su un furgone all’uscita di una sala giochi e di cui si erano perse le tracce per giorni. Per un breve periodo quel povero ragazzino era stato rinchiuso in un granaio come ce ne sono a decine; e per passare il tempo, e per scongiurare la paura, raccoglieva e faceva scivolare dalle mani della semenza. Durante quell’indagine, una mattina mentre faceva colazione, Nico teneva una mano sul diario scolastico del ragazzo, mentre con l'altra si versava i cereali nella tazza.

Quel rumore, proprio come di semi che cadevano, che scivolavano giù, o semplicemente il gesto, o la loro combinazione, gli aveva permesso di vedere quei momenti di vita già passati, ma ancora presenti nell'etere.

I particolari che aveva fornito alle autorità erano stati così dettagliati da convincere la polizia a cambiare i piani e inviare una parte degli uomini destinati alle ricerche nella campagna a nord della città, togliendoli dal luogo che aveva invece indicato Matteo.

E ora c'è Francesca da salvare.

Nico si siede a un vecchio tavolo da cucina, ci sono sopra le solite cose da ufficio che generalmente riempiono una scrivania. Accarezza una cuffia di lana color violetto: la sente ruvida e nel contempo morbida, piacevole al tatto.

Si tratta del berrettino di Francesca; aveva chiesto a Silvia un oggetto poco ingombrante che appartenesse alla figlia e al quale fosse legata.

«Sai, Silvia, le persone che come me hanno questo dono, hanno bisogno di un testimone per poter rivivere gli avvenimenti passati. Può trattarsi di qualsiasi cosa, anche di una matita o di un fazzoletto, dove sono impresse le tracce psichiche della personalità e dell'emotività di chi le ha possedute. Queste ci aiutano ad aprire un canale per avere un flashback.»

«Questa potrebbe andare bene?» gli aveva chiesto lei con gli occhi lucidi. «La indossava la sera che me l'hanno portata via. La polizia l'ha trovata per terra nel parcheggio del ristorante, è l'unica cosa che hanno saputo riportarmi.»

Per il momento, la cuffia non ha aperto alcun canale, ma questo non significa nulla; semplicemente non si è ancora trovato nella situazione ideale. Perché le sue capacità si manifestino, non gli è sufficiente tenere in mano il testimone, ha bisogno anche di alcune coincidenze favorevoli: nella maggior parte dei casi, si tratta di vivere e provare le stesse sensazioni che la persona da trovare ha vissuto in quei frangenti.

Per non perdere il contatto con il testimone, indossa il berretto e, visto che non ha ancora acceso la stufa a legna, non sarà una seccatura, come non lo è la felpa in pile portata sopra il pigiama che indossa ancora, malgrado sia già l'ora di pranzo.

Fa spazio sul tavolo, aprendo quello che dovrebbe essere il cassetto delle posate, e ci fa cadere dentro la posta ancora da aprire che si sta accumulando da almeno una settimana. Da uno dei porta documenti di plastica che ha impilato sulla cassettiera laterale, prende il faldone che il papà di Francesca gli ha passato; contiene alcuni rapporti di polizia, i verbali d'interrogatorio delle ultime persone che hanno visto la ragazza, alcuni articoli di giornale e qualche fotografia.

Nico scorre tutto rapidamente e sbuffa. Quanto arriva dal commissariato fornisce poche informazioni in più rispetto a quelle già in suo possesso; probabilmente il commissario Martini ha fatto avere a Edo quei documenti unicamente per soddisfare le sue continue richieste, ma si è tenuto i rapporti con le informazioni che i media ancora ignorano.

Per il momento, nessuno di questi menziona il Killer delle Laureande, anche se sono stati redatti proprio dal team che si sta occupando di quel criminale.

Nico non si scompone. Sono più interessanti gli articoli di giornale: alcuni hanno un paio d'anni, risalgono al periodo in cui vi fu la prima vittima che oggi viene attribuita al Killer.

Evidentemente, Edo ha fatto delle ricerche in internet su di lui. Spesso le notizie si ripetono e sono i soliti quattro o cinque giornalisti a scrivere gli articoli.

Nico afferra un quadernino; prende nota delle informazioni che trova e le analizza; rimarca su una linea del tempo che ha tracciato su un foglio il nome del reporter, quale elemento fornisce e, se disponibile, la sua fonte.

Una cronista è sempre un piccolo passo avanti agli altri; si tratta di Erica Blum, una reporter del Quotidiano, un giornale che il sabato viene accompagnato dal settimanale d’approfondimenti Fatti. Ed è proprio su uno di questi settimanali che la Blum fa un resoconto dettagliato sui primi due delitti legati al Killer delle Laureande, appellativo che da quel momento in poi verrà usato da tutti i media.

Nell’articolo c'è anche un aggancio a Matteo, che non lavorava sul caso ma che, secondo l’autrice, avrebbe potuto dare un impulso alle indagini. Matteo che, guarda caso, ha una rubrica proprio in quel settimanale.

Gli articoli pubblicati dalle altre testate nei giorni seguenti, riportano le medesime informazioni, infoltite con qualche dettaglio in più o con una dichiarazione ufficiale del commissario Martini che conferma quanto scritto dalla donna. Evidentemente, la giornalista ha un contatto importante, qualcuno che ha accesso diretto all'inchiesta. Comunque sia, pensa Nico, ora i suoi resoconti gli vengono comodi.

Martina era stata la prima, il 15 settembre 2009. La poveretta era stata uccisa nella sua camera, in un dormitorio dell'università e trovata senza vita dalla compagna di corso con cui avrebbe dovuto partire per una piccola vacanza premio un paio di giorni dopo.

Era distesa sul pavimento con infilata in bocca la laurea in giurisprudenza ricevuta appena il giorno prima; l'assassino non gliela aveva schiacciata con violenza tra i denti: l'aveva arrotolata e fissata con un nastro per capelli che probabilmente aveva trovato nella camera, le aveva abbassato la mascella e gliel'aveva appoggiata tra le labbra.

L'esame autoptico indicava come causa del decesso il soffocamento; vi erano alcune tracce di colluttazione, ma non di strangolamento, e alcuni segni sul collo lasciavano presumere che fosse stato utilizzato un sacchetto di plastica che, però, non era stato trovato sulla scena del delitto.

A quanto pareva l'attestato di carta le era stato infilato in bocca post mortem. Nel sangue non erano state trovate tracce di stupefacenti o di medicinali. Era ipotizzabile che i due si conoscessero e che Martina avesse permesso al suo assassino di entrare in camera senza discutere; i corridoi di quello stabile erano frequentati da molti studenti e un diverbio sarebbe stato sicuramente notato e soprattutto sentito da tutti.

Il 20 settembre del 2010 era stata invece la volta di Monica, appena laureata anche lei in giurisprudenza e sparita il giorno dopo la consegna dei diplomi. Aveva festeggiato fino al mattino con i compagni neolaureati, ma non aveva fatto rientro nell'appartamento preso in affitto con altre tre ragazze. Fu ritrovata giorni dopo sdraiata su una panchina in un parco, dieci chilometri fuori città; sembrava dormire e per questo motivo solo a mattina inoltrata un giardiniere che stava sistemando un'isola di fiori lì accanto si era permesso di chiederle se si sentisse bene.

Aveva la testa appoggiata su alcuni libri e le mani sul ventre che tenevano un foglio di carta pregiata, arrotolata con un nastro rosso. Si trattava della riproduzione di una laurea in giurisprudenza con il suo nome e le firme del Rettore, del Preside di facoltà e del responsabile.

Vi era anche una nota sotto il titolo:

Per aver voluto supplire alle sue mancanze

cogliendo da sé il frutto del suo peccato

Quello era il messaggio dell’assassino, un indizio su cui inquirenti e psicologi avrebbero avuto da dibattere a lungo. A fondo pagina c’era un’ulteriore scritta: "Con decisione del: 21.02.2010".

Anche nel suo caso, la causa della morte era stata il soffocamento: non vi erano segni di lotta sul corpo, ma solo piccoli lividi sul collo che potevano ricondurre anche questa volta all'utilizzo di un sacchetto di plastica. In questo caso, però, furono trovate massicce dosi di Dormicum nel sangue.

Per una settimana il rapitore aveva mantenuto la ragazza in uno stato costante di dormiveglia e non aveva avuto la necessità di tenerla legata.

Monica non aveva subito nessuna violenza sessuale, non risultava disidratata e nello stomaco aveva del pollo e delle patate consumate poco prima della morte, quindi era, per così dire, stata accudita.

Gli elementi in comune tra i due casi erano evidenti: entrambe neolaureate in giurisprudenza, aggredite il mese di settembre poco dopo la consegna dei diplomi e uccise tramite soffocamento. Sulla carta stampata la prima a collegare questi dettagli fu la Blum.

C'erano, però, anche delle differenze: Martina era stata uccisa in camera sua subito dopo aver incontrato il suo assassino, mentre Monica era morta lontano da casa dopo una settimana di prigionia; la prima aveva in bocca il diploma legato con un elastico per capelli trovato sul posto, la seconda teneva in mano una riproduzione di un diploma legato con un elegante nastro rosso, lavoro che aveva sicuramente richiesto del tempo; nel primo caso non era stato usato nessun medicamento, nel secondo la vittima aveva nel sangue del Dormicum. Questi dettagli indicavano come l'assassino era cresciuto dopo il primo crimine: per l'omicidio di Monica la preparazione era stata più accurata, non c'erano segni d'improvvisazione come l'utilizzo dell'elastico per capelli. Rapire e tenere nascosta per una settimana una ragazza comporta un grande dispiego di risorse: un veicolo per il trasporto della vittima, un luogo al riparo da occhi e orecchie indiscrete, organizzare la sussistenza, procurarsi il sonnifero e, naturalmente, avere molto tempo da dedicarle, forse anche con l'aiuto di complici.

Nico sorseggia il suo caffè.

Nell’anno seguente l’attenzione sul caso non calò, e quando la polizia sentiva un po' meno il fiato sul collo da parte dei media, ci pensava la giornalista a rianimare l'interesse dei colleghi.

Fu lei che arrivò a scoprire e pubblicare il messaggio lasciato dall'assassino tra le mani della povera Monica. Un aggancio al caso di Martina che aveva eliminato qualsiasi dubbio sul fatto che si trattasse del medesimo assassino.

In una prima occasione la Blum rilevò semplicemente che era stato trovato una sorta di messaggio sotto forma di diploma contraffatto, ma la cosa venne smentita dalla polizia. Qualche settimana più tardi, completò l'opera andando nei dettagli: indicò dov'era stato trovato, di chi erano le firme in calce e il testo impresso.

Per questo fu convocata dal procuratore Zappa che conduceva l'inchiesta; le chiese chi era la sua fonte, minacciandola di denunciarla per aver intralciato le indagini se non glielo avesse rivelato. La Blum, però, si era appellata all'obbligo di tutela e segretezza delle fonti ed era riuscita a mantenere il segreto.

Se la talpa fosse stata un poliziotto o un qualsiasi altro collaboratore della polizia o del pubblico ministero – cosa, tra l'altro, molto probabile vista la quantità e qualità dei dettagli a conoscenza della giornalista – oltre a perdere il posto di lavoro, si sarebbe guadagnata una denuncia penale per violazione del segreto d'ufficio.

Il messaggio del killer stimolò la fantasia di giornalisti e psicologi, che facevano a gara per dargli un significato. C'erano due particolari che davano più argomenti di discussione: il testo era vergato in terza persona e non in seconda, quindi non pareva indirizzato a Monica, ma era dedicato a chiunque avesse intrapreso la stessa strada; inoltre, era al femminile.

Qualsiasi cosa avesse voluto dire, il riferimento a Eva e alla mela colta da Adamo era fin troppo facile. Tutti, più o meno, davano il medesimo significato: “a qualunque donna avesse peccato per rimediare alle sue colpe, emettendo da sé la sua condanna a morte". Un giornalista arrivò persino a intitolare un suo articolo “Chi sarà la prossima Eva?”, facendo, con l'aiuto di un famoso criminologo, il profilo della possibile futura vittima.

Il settembre del 2011 fu un mese di paura per le laureande e le loro famiglie, soprattutto per quelle della facoltà di Legge.

L'ateneo aveva ingaggiato servizi di sicurezza privata con lo scopo di dissuadere ogni malintenzionato e di dimostrare di aver fatto tutto il possibile per garantire la sicurezza nei luoghi di loro spettanza.

Dal canto suo la polizia, senza fare pubblicità, aveva messo in atto una serie di provvedimenti, inserendo personale in abiti civili in tutte le cerimonie di consegna dei diplomi, con lo scopo d'individuare ogni possibile elemento sospetto prima che potesse agire.

Nelle strade dove erano organizzate le feste per i laureandi c'erano pattuglie che facevano il giro senza sosta e appostamenti discreti nei punti più a rischio. Cercando di non fare troppo allarmismo, con l'aiuto di radio e televisione, erano state date delle linee di comportamento non solo per le giovani donne, ma per tutti coloro che avessero notato qualcosa d’insolito.

In particolare, la polizia voleva essere subito informata nel caso una laureanda non fosse stata rintracciabile o ci fossero stati movimenti sospetti, così da attivare nel minor tempo possibile un piano di posti di blocco che avrebbero permesso d’intercettare chiunque avesse voluto lasciare la città. L'idea era quella di essere il più discreti possibile; in realtà, le segnalazioni di ragazze scomparse furono così tante che i posti di blocco restarono attivi ventiquattro ore su ventiquattro nei tre fine settimana che avevano seguito i venerdì della consegna dei diplomi.

Alla fine, fortunatamente, si trattò solo di falsi allarmi: ragazze in locali con la musica così alta da non sentire il cellulare, oppure troppo sbronze o stanche per rispondere. Alcune di queste si erano dimenticate di chiamare a casa come promesso e automaticamente le famiglie avevano fatto scattare l'allarme.

A ogni modo, i giornali non smisero di parlare del Killer delle Laureande: dovevano dare una motivazione al mancato atteso omicidio. Avevano sbagliato i criminologi? Forse la polizia con la sua presenza aveva dissuaso l'omicida dai suoi intenti, o lo aveva semplicemente fatto arrabbiare e si sarebbe ripresentato più in là, magari contro più ragazze?

Ci fu addirittura chi lo collegò all’omicidio in Svezia della giovane Ingrid, studentessa in medicina; forse, non potendo agire in casa sua, l'assassino era emigrato all'estero. Un’ipotesi caduta quasi subito, quando si scoprì che la giovane era stata vittima di un omicidio passionale da parte del suo ex ragazzo, che non aveva accettato la sua nuova avventura sentimentale.

In novembre la tensione iniziò a scemare: i giornalisti cominciavano a dubitare che il Killer delle Laureande avrebbe colpito ancora e nella raccolta di articoli del signor Motta non vi erano più articoli della Blum.

Nico a quel punto ha bisogno di una pausa. Appoggia i fogli e si lascia andare contro lo schienale della sedia girevole. Incrocia le dita e mette le mani dietro la testa. Chiude gli occhi.

Mentalmente ripassa le prime informazioni ricavate da quanto letto finora. I rapporti di polizia non sono molti in effetti, è chiaro che non sono tutti, ma deve accontentarsi di quello che ha.

Gli allegati sono invece parecchi: rapporti della scientifica, verbali d'interrogatorio di parenti e conoscenti delle vittime, persino i rapporti sulle condizioni meteorologiche al momento dei fatti.

Nico apre gli occhi e ricomincia a scartabellare; i giornalisti hanno scritto molto, ma le informazioni effettivamente utili sono poche e molto ripetitive. Farebbero comodo degli articoli più recenti della Blum, Nico si prefigge di cercarne altri in internet.

Si sistema meglio sulla vecchia poltrona quasi sfondata, dall’imbottitura lisa e così schiacciata da sembrare marmo. Era già lì quando, anni prima, aveva affittato quel magazzino. E l'aveva sempre ritenuta una sedia comoda, finché a casa di Matteo aveva provato la sua e aveva capito la differenza tra una semplice sedia girevole e una vera poltrona da scrivania.

Nico si alza e si gira verso la parete facendo qualche esercizio di stretching. Appesa al muro, c'è una una pubblicità vintage in metallo: il disegno di una ragazza in minigonna e pattini a rotelle che tiene in mano un vassoio con una bottiglietta di Coca-Cola e un hamburger; poco più a destra un orologio di plastica ingiallito è fermo sulle due e venti. Il resto della parete è spoglio, qua e là ci sono dei chiodi dove un tempo probabilmente erano appesi dei quadri e magari un calendario; Nico ne ha usato uno per appenderci la sua autorizzazione a esercitare come investigatore privato e uno per attaccare una sua fattura non pagata da un cliente, ci aveva scritto con un pennarello rosso: Rintracciare Poretti!!!, ma finora nonostante quel memorandum, non ci ha mai provato. Gli altri chiodi li ha semplicemente lasciati al loro posto e ormai non ci fa più caso.

Per il resto la stanza che funge da ufficio è spoglia e minimale. Una cassettiera di metallo è appoggiata alla parete di fronte la scrivania e una felce finta e coperta di polvere e brandelli d’intonaco che vengono giù dal soffitto campeggia davanti la finestra che affaccia sull’interno della fabbrica.

La vicina ferrovia è il motivo del prezzo bassissimo dell’affitto: le vibrazioni al passaggio di decine di convogli ogni giorno stanno facendo sbriciolare i vecchi intonaci. Nico quando era entrato lì per la prima volta si era innamorato dell’aspetto vintage di quel luogo e, pur proponendosi di dare una restaurata, magari una bella passata di bianco alle pareti e una ripulita al linoleum stinto, poi non lo aveva mai fatto.

Gettato uno sguardo alla stanza si rimette al lavoro. In fondo Matteo crede di essere migliore di lui, solo perché possiede quella graziosa baita vicino al bosco e un discreto buon gusto nel vestire, ma lui gli vuole dimostrare che è perfettamente all’altezza di portare a termine un ingaggio importante come quello. La cosa più importante è ritrovare quella ragazza sana e salva, questo è certo, ma la vorrebbe trovarla lui.

Dal plico che aveva già passato in rassegna, prende la fotografia più grande di Francesca, circa venti per quindici centimetri, e l'appende vicino al promemoria di pagamento con tre punti esclamativi. È un mezzo busto di profilo, ma con il volto girato verso l'obiettivo; lei sta sorridendo e ha una mano all'altezza del petto con il pollice alzato. Indossa un maglione di lana a rombi di tutti i colori e lo sfondo, che non è a fuoco, va dal giallo all'arancione, con qualche sfumatura di rosso; Nico non riesce a capire se si tratti di un muro o di un telo da fotografo, gli è chiaro invece quanto Francesca sia una ragazza fotogenica.