Prima di tornare a sedersi stacca il foglio con la scritta in rosso e lo infila nel cassetto con la posta non aperta, poi apre il suo portatile e va alla ricerca degli ultimi lavori di Erica Blum, solo per rendersi conto che Edo è stato molto efficiente: nella cartella che gli aveva passato non mancava neppure un articolo che facesse riferimento al serial killer.
Gli articoli più recenti che trova nel web scritti dalla giornalista del Quotidiano si riferiscono però a tutt'altro, un argomento decisamente più leggero: le micro comunità contadine.
L'estate precedente il suo reportage l'aveva portata un paio di settimane in Sudamerica, e al suo ritorno aveva raccontato la storia di alcuni ecuadoriani che ogni autunno giungevano in città, occupando le uscite dei grandi magazzini e chiedendo soldi in cambio di un po' di musica suonata con il flauto di Pan. Con l'appoggio del suo editore, interessato a realizzare una serie di servizi per il settimanale Fatti, aveva poi sostenuto e realizzato una piccola comunità di sudamericani nelle colline del Piemonte. Là riescono a vivere coltivando e imparando differenti metodi di produzione. Alla scadenza del permesso di soggiorno rientreranno nella loro terra e insegneranno ad altri quanto appreso in Italia, e al loro posto giungeranno altri connazionali.
Nico sorride tra sé e sé.
Quel ciclo si sarebbe ripetuto finché il giornale avrebbe avuto un riscontro in termini d'interesse da parte dei lettori, poi il finanziamento, seppur di rilevanza minima, sarebbe andato a farsi benedire .
Secondo quanto scritto nella copia dell'ultimo rapporto di polizia comunque, il 15 novembre 2011 era giunta al centralino della polizia la telefonata di una madre preoccupata: la figlia di ventiquattro anni non era rientrata a casa dopo una cena con i nuovi colleghi dell’Ufficio tecnico della città, dove aveva appena trovato lavoro come ingegnere civile.
Inizialmente il caso fu sottovalutato: una direttiva interna disponeva che ogni denuncia di scomparsa che poteva rientrare nel caso del Killer delle Laureande doveva essere passata al team appositamente creato. Il fatto che fossimo a metà novembre e che la ragazza fosse già inserita a tutti gli effetti nel mondo del lavoro, fece sì che solo durante la denuncia formale – più di trentasei ore dopo la sua scomparsa – l'agente si rendesse conto che si trattava di una neolaureata in architettura e che, quindi, doveva dare subito l'informazione ai colleghi, con un ritardo di quasi due giorni.
Il mattino seguente la Blum – e il giorno dopo tutti gli altri giornalisti – fece riesplodere la paura, parlando della povera Francesca.
Nico si alza e passeggia nervoso per la stanza.
Martina l'ha uccisa subito, Monica dopo sette giorni e oggi sono nove giorni che è sparita Francesca. Se è stato lo stesso assassino a rapirla, significa che sta prendendo coraggio: si prende più rischi e non ha fretta di ucciderla. Ma perché aspettare? Certo che se quello che vuole è far passare un messaggio, più giorni passano e più la gente parla di lui e della falsa laurea di Monica. Ma se non lo fermiamo, alla fine ucciderà anche lei. Dobbiamo trovarla al più presto.
***
Scesa dalla macchina, Jessica prova sensazioni particolari: riconosce l'ingresso dell'istituto Santa Margherita dalle foto viste su internet, ma non le sembra di trovarsi in un posto dove possano essere stati cresciuti dei bambini piccoli, come erano Ronaldo e Matteo.
Il prato incolto che vede, con l'erba ormai divenuta fieno e con i cespugli spinosi che hanno attecchito qua e là, una volta doveva essere stato un gioioso parco giochi, con un tappeto verde, un’altalena, uno scivolo e magari una vasca riempita di sabbia, il tutto guarnito dal baccano di bambini che s'inseguivano e si divertivano.
Sul cortile di sabbia e ghiaia dove ha parcheggiato vi sono uno scooter e un paio di motorini, uno dei quali con parti del motore smontate e degli attrezzi da meccanico accanto.
Grazie alle ricerche fatte in internet, si è documentata sulla storia dell'orfanotrofio: era una struttura all’avanguardia e molto apprezzata, grazie ai metodi di lavoro con i bambini. Con gli anni, aveva saputo adeguarsi alle nuove esigenze dei suoi ospiti, cercando di essere moderno ed efficace. La direttrice Del Biagio aveva raccolto molte simpatie tra la gente e le aziende della regione che, oltre a qualche piccolo contributo finanziario, si offrivano per ospitare alcuni ragazzi in laboratori, officine o fattorie, così da insegnare loro un mestiere da mettere in pratica una volta lasciato l’istituto. Ogni anno al più dotato la provincia di Frosinone offriva anche una borsa di studio per l'università, e nessuno dei ragazzi aveva mai deluso le aspettative.
Purtroppo, la percentuale di quelli collocati nelle famiglie non era molto alta: fino agli anni 50, le famiglie senza figli adottavano un ragazzo o una ragazza per necessità, per dare una mano nei campi, nell'azienda di famiglia o in casa. Ora i tempi sono cambiati e a rivolgersi agli orfanotrofi sono solo le coppie che non possono avere figli, ma sentono che è quello che manca loro per dare un senso al matrimonio e potersi definire una vera famiglia.
Comunque, i ragazzi che restavano a vivere presso l'istituto ricevevano più che una semplice educazione e istruzione: avevano intorno una grande famiglia che li amava e li sosteneva.
Negli anni le richieste di alloggio per orfani erano calate drasticamente, ma nel contempo aumentavano i ragazzi che vivevano situazioni familiari difficili, magari cacciati da casa o con uno o entrambi i genitori in carcere.
La signora Del Biagio non era rimasta indifferente a questa nuova necessità e aveva cominciato ad accogliere anche loro. Spesso si trattava di persone più grandi degli ospiti abituali, con un carattere difficile da conciliare con il clima di serenità che si tentava di mantenere nell'istituto, ma lei faceva tutto il possibile per far funzionare al meglio le cose.
All’inizio degli anni novanta, la regione aveva deciso di convertire l'Istituto Santa Margherita in una casa-famiglia prettamente per minori disagiati.
La direttrice, che era ormai prossima alla pensione, non volle essere presente a questo – per lei – triste passaggio e si ritirò in anticipo.
Pur non vedendo nessuno, a Jessica giungono dei pensieri scomposti, da persone diverse. Anche concentrandosi, non riesce a distinguerne il significato preciso, ma può comprendere che non provengono da persone serene.
Fa un respiro profondo e si dirige alla porta d'entrata, un vecchio portone di pietra, semi coperto dall’edera, sormontato da un fregio raffigurante un adulto che tiene per mano un bambino; e nel varcare la soglia quelli che prima erano stati solo pensieri confusi diventano voci e grida, in particolare quelle di un ragazzo che ride e impreca. Sente anche le urla di una ragazza.
Jessica è indecisa se provare a suonare o aspettare che all'interno si calmino un po' le acque. La porta, però, si spalanca e un giovanotto sui sedici anni con la testa quasi rasata a zero esce come un treno in corsa e le urta la spalla, facendole fare mezzo giro su se stessa. Appena sopra la nuca sembra avere un tatuaggio; lei lo guarda correre via con un libro in mano. Continuando a ridere il ragazzo si gira come per scusarsi, o forse solo per controllare chi lo insegue. Subito dietro arriva alla porta una ragazza che sembra avere la stessa età, il cui abbigliamento consiste in un paio di mutandine e una maglietta rosa raffigurante Hello Kitty. A Jessica viene la pelle d'oca per lei: è vero che non fa molto freddo, ma diamine, siamo in novembre!
Cazzo, il mio diario!
Questa volta il pensiero della ragazza le arriva forte e chiaro.
«Brutto figlio di puttana! Se ti azzardi a leggerlo, ti uccido. E tu che cazzo hai da guardare?» urla in faccia a Jessica. «Lo potevi fermare, no?»
La ragazza corre all'interno, forse a rivestirsi. Jessica la segue con lo sguardo attraverso la porta e la vede prendere le scale che vanno al piano superiore, due gradini alla volta.
«Si può sapere che succede qui? Avevo chiesto solo dieci minuti per parlare con Marco in tranquillità e invece…»
A parlare è probabilmente un educatore; sta arrivando dal corridoio alla sua destra. È sui trent'anni, indossa un paio di Lewis con una cintura in pelle e una fibbia di ferro grande come un limone che raffigura un cavallo rampante; tiene le maniche della camicia color caco arrotolate.
Quando vede Jessica, s'interrompe e riprende a parlare con un tono più gentile.
«Mi scusi, a volte questi ragazzi sono incontrollabili. Non so cos'avessero da strillare tanto.»
«Non c'è problema, capisco benissimo. Piuttosto, sono io che devo scusarmi per la mia intrusione senza preavviso.»
«Io sono Roberto, il responsabile del centro Santa Margherita.»
I due si stringono la mano e la ragazza nota che porta al polso destro un orologio in acciaio cromato con cinturino in pelle.
«Come posso aiutarla?»
Dal piano superiore riappare la ragazza di prima; ora indossa jeans e scarpe. Mentre vola giù per le scale, strilla a Roberto: «È tornato Franco? È tornato?»
«Fermati un attimo e spiegami cosa…»
La ragazza non si ferma e corre all'esterno. Jessica sta bene attenta a non prendersi un'altra botta e nello spostarsi si rende conto che le fa male la spalla. Se la massaggia con la mano e l’uomo le rivolge uno sguardo comprensivo.
«Come le ho detto» le dice Roberto, «non sono facili da controllare.»
«Lo vedo» dice lei sorridendo. «Mi chiamo Jessica Ek, sono venuta qui per cercare delle informazioni sulle origini della mia famiglia.»
«Ah, capisco» Roberto ricambia il sorriso. «Si tratta dell'Orfanotrofio Santa Margherita, immagino. Prego, accomodiamoci nel mio ufficio.»
Mentre lo segue, Jessica lo osserva meglio: non è alto – neppure i tre centimetri della suola in gomma dei suoi scarponi lo aiutano a superarla di statura – ma ha un bel fisico e la tenuta da cowboy gli dona un sacco; inoltre, la barba appena accennata lo rende affascinante.
Pur non avendolo mai visto, Jessica riconosce quel locale: c’è la scrivania dov'era seduta la direttrice Del Biagio quando ancora era in servizio e la finestra dove Elisa era andata a piangere quando le aveva comunicato della malattia di Ronaldo.
Evidentemente, a quel tempo sulla scrivania non c'era il computer e l'ufficio era un po' più ordinato, ma la sensazione è quella di esserci già stata.
«Lei, quindi, era un'ospite qui al Santa Margherita?»
Roberto si siede dietro la scrivania e la fa accomodare su una seggiola di fronte a lui.
«In realtà, lo erano i miei fratelli; io sono stata affidata a un altro istituto.»
«Quindi, le informazioni che cerca riguardano i suoi fratelli, non lei.»
«Esatto, mi piacerebbe sapere alcune cose…»
«I dati degli ospiti della struttura sono protetti dalla privacy… cosa vorrebbe sapere? »
Jessica prende un respiro. Intravede le prime difficoltà, anche se non percepisce pensieri negativi da parte di Roberto. Sente caldo, non sa se per l'agitazione o per il riscaldamento, e le torna in mente la ragazza vestita con la maglietta di Hello Kitty.
«Le cose stanno così: è da poco che sono venuta a conoscenza di avere due fratelli. Uno, Matteo Balestra, l'ho ritrovato tre giorni fa e, tramite sua madre adottiva, ho scoperto che suo fratello gemello Ronaldo si trovava qui con lui al momento dell'adozione. Quindi, eccomi qui con la speranza di ritrovare anche lui.»
Roberto fa uno sguardo desolato.
«Purtroppo le devo dire che noi non abbiamo nulla che fa riferimento a quegli anni, a parte qualche vecchia foto della casa sulle pareti. Quando l'istituto fu trasformato in una casa-famiglia, l'intero archivio fu portato via. Credo che le varie schede dei ragazzi li abbiano seguiti presso i loro nuovi istituti.»
«Ma neppure nel computer avete nulla?»
«No di certo. Abbiamo solo informazioni che riguardano i ragazzi che sono arrivati dal 1991 in avanti. A quando risalgono le vostre adozioni?»
«Beh, quella di Matteo al 1975. Di Ronaldo non so nulla.»
Jessica omette di dire che da quanto ne sa Ronaldo è morto lo stesso anno. Non vuole credere a quella conclusione, almeno finché non ne avrà le prove.
«Allora non posso fare altro che darle gli indirizzi degli istituti che potrebbero aver accolto quei ragazzi. Dovrà rivolgersi a loro se vuole sperare di avere qualche informazione in più. Come le dicevo prima però, ci sono delle regole sulla privacy che dovranno rispettare, non le sarà facile scoprire quello che cerca.»
«Sì, lo so. Però, grazie ai nomi degli orfanotrofi saprò dove cominciare a cercare.»
Jessica in parte è soddisfatta: in fondo non ha ricevuto un rifiuto alla sua richiesta di aiuto e Roberto è riuscito a farle avere delle informazioni importanti.
E non può fare a meno di notare che malgrado l’esterno della struttura faccia pensare a qualcosa di abbandonato da tempo, all’interno l’ambiente è gradevole e pulito. I pavimenti sono lustri e le grandi finestre del pian terreno sono adornate da tende in colori vivaci. Sulle pareti spiccano opere di pittura firmate dagli alunni che le hanno realizzate. Jessica intravede un paio di targhette con l’anno e i nomi e sorride.
In fondo quel posto ha mantenuto il suo carattere positivo nonostante la vecchia direttrice temesse il contrario. Luoghi come quello possono rappresentare la salvezza per ragazze e ragazzi senza famiglie stabili e con disturbi della personalità.
Una volta sulla porta d’ingresso, rientra la ragazza con la maglietta di Hello Kitty. Ha un'aria molto appagata e in mano tiene ben saldo il suo diario. Senza chiedere permesso, passa tra Roberto e Jessica, costringendoli a scansarsi per evitare una gomitata.
«Eh, che modi! Chiedi scusa» le dice seccato Roberto, ma lei non si volta nemmeno.
«Dopo ne riparliamo!» le grida Roberto.
Jessica, per nulla infastidita, riprende il discorso. «Come le dicevo, la ringrazio per la sua disponibilità, e mi scusi se le ho fatto perdere tempo.»
«Nessuna perdita di tempo, è stato un piacere parlare con qualcuno che in qualche modo è stato legato all’Istituto Santa Margherita.»
Roberto sta per chiudere la porta, ma Jessica lo ferma.
«Ancora una cosa, quasi dimenticavo.»
«Mi dica.»
«Mi sa dire che fine ha fatto la direttrice Del Biagio?»
«La Del Biagio è stata direttrice fino al cambio di destinazione dell'istituto.» Roberto alza gli occhi, cercando di ricordare. «Non saprei dirle, io sono arrivato nel 2001, quindi dieci anni dopo la sua partenza. Credo, però, che con alcune telefonate potrei essere in grado di scoprire dove si trovi ora, sempre che sia ancora viva.»
«Sarebbe davvero importante per me. Le lascio il mio numero. Appena scopre qualcosa mi può telefonare?»
Jessica allunga un biglietto da visita corretto a penna come quello che ha dato a Matteo.
«Sarà fatto.»
Sicuro che ti chiamo, trovo la vecchia e ti chiamo. Questo è il primo pensiero di Roberto che lei intercetta; distingue chiaramente un apprezzamento nei suoi confronti e non può che sentirsi lusingata essendo lei di qualche anno più vecchia. Certo le dà abbastanza fastidio il suo apostrofare la ex direttrice “la vecchia” in maniera quasi dispregiativa, ma decide di passarci sopra.
Lo spero, sceriffo, lo spero.
Pensa, mentre gli stringe la mano.
Il tempo di risalire sulla Twingo e viene invasa da un fortissimo sentimento di collera, respira e si guarda intorno fino a intravedere il ragazzo di prima che passa davanti alla sua auto, diretto verso l'entrata dalla casa.
Ora può vedere chiaramente il tatuaggio sopra la nuca: si tratta del numero '10' e, con tutte le stranezze che si vedono oggi, non si domanda il significato. Il giovane dalla testa rasata cammina coprendo dei graffi sul viso con la mano destra, sulla quale sono evidenti i segni di un morso.
Hello Kitty ha tirato fuori le unghie.
***
Sono quasi le due di un pomeriggio uggioso. Nico ha visionato attentamente tutti i documenti ricevuti da Edo ed è riuscito a farsi un’idea a grandi linee sul caso; le informazioni concrete sono troppo poche e gliene manca una fondamentale per riuscire a scovare il Killer delle Laureande prima che possa uccidere Francesca: il movente.
Nico sa bene che senza conoscere il motivo che spinge una persona a compiere un gesto estremo sarà difficile risalire alla sua provenienza, ai luoghi che frequenta, al metodo di adescamento delle vittime e ipotizzare quanto intende tenerle in vita una volta cadute nella sua trappola.
Si guarda intorno, finisce di bere il caffè ormai freddo e sistema le carte sulla scrivania. Un ragnetto scappa via strappandogli un sorriso; è sempre così solo ultimamente.
Il programma della sua giornata è semplice: uscire a mangiare un boccone e tentare di stimolare un flashback. Prima, però, deve accendere la stufa, altrimenti prima di sera quei locali saranno un frigorifero; prende il primo libro da una scatola di cartone appoggiata lì accanto e legge il titolo: “Und dann gabs keines mehr”, chissà che vuol dire.
Lo mette nel vano per la legna con un po' di diavolina e gli dà fuoco, poi riempie lo spazio rimasto con dei pezzi di legna e altri libri e chiude lo sportello che cigola in modo fastidioso. In genere non ama bruciare i libri, ma in tempi di magra pur di lavorare a una temperatura decente gli tocca sacrificare un po’ del suo idealismo.
Anche se gli va un po’ stretta e non si abbina particolarmente al suo cappotto, ha deciso d'indossare la cuffia violetta per andare in giro; in questo modo, il contatto fisico e mentale con Francesca (il contatto non è con il tessuto, ovvero: indirettamente lo è, ma tu devi fare capire che il tessuto serve a captare un contatto con Francesca) sarà costantemente assicurato. Quello che spera è di incappare per caso in un gesto, un odore, un’emozione che possano ricondurlo a lei. Ci spera. Prega che accada e che non sia tardi.
Una volta in centro compra i giornali in tre edicole differenti, mangia un kebab seduto su una panchina in piazza Vecchio mercato e beve un caffè in un bar dove spera di incontrare il tizio che gli deve pagare la fattura. Ma Poretti non si fa vivo. Così Nico paga la consumazione e si mette a girovagare nelle vie pedonali senza un obiettivo preciso.
Al contrario di quello che si potrebbe pensare, non sta perdendo tempo: è in cerca di quell'elemento, quella sensazione che, con l'aiuto del berrettino, gli permetterà di avere una percezione, il suo primo contatto con il passato di Francesca. È per questo motivo che non fa la spesa in un unico negozio, ma la suddivide in più botteghe, per vivere più situazioni in luoghi anche molto differenti tra loro. Così passa dalla macelleria climatizzata con la luce bianca e fredda dei tubi fluorescenti, alla pasticceria riscaldata con le luci calde e soffuse. La frutta la prende al mercato rionale. Cerca di guardare tutti e tutto, di scambiare una parola con più persone possibile per aumentare la possibilità di captare lo sguardo giusto, la parola giusta: il dettaglio che accenda la connessione.
Quando torna al parcheggio, due ore dopo, è un po' amareggiato per non aver ottenuto risultati, ma sa che non è così semplice e non funziona come nei film, dove gli sarebbe bastato toccare la cuffia per conoscere tutto sul passato di Francesca.
Ce la faremo, Francesca. Dobbiamo solo avere pazienza e ce la faremo. Tu, ovunque ti trovi, resisti.
Arrivato alla Mazda prende dalla tasca il mazzo di chiavi che scorre tra le dita in cerca di quella dell’automobile. Nella destra ha i giornali e le riviste appena acquistati. In quel momento la voce di una ragazza lo raggiunge alle spalle.
«Mi scusi, posso disturbarla un attimo?»
Nico alza lo sguardo che era rivolto alle chiavi: c’è una ragazza con in testa una cuffia viola davanti alla macchina, e gli sorride. Per un attimo sbarra gli occhi, non si può sbagliare: quella è Francesca!
Non ha un viso preoccupato, pare serena, tranquilla.
«Mi scusi!» La voce lo fa uscire dallo stato di trance in cui era caduto. Sussulta e sente un rumore di metallo levarsi dall'asfalto.
«No, accidenti!» Nico stringe la mascella e respira profondamente. Il flashback è terminato. È stato breve, troppo breve, e ormai è andato, impossibile recuperarlo.
«E che modi! Non ha neppure visto cosa le volevo offrire. Peggio per lei.» Ancora quella voce, la stessa che gli ha provocato il brevissimo viaggio mentale.
Nico si volta. C’è una ragazza con sciarpa e cuffia bianche che ha in mano dei volantini, forse dei buoni per un fast food. Lo guarda un po' risentita, si gira e se ne va a passo veloce.
«Ehi, scusami… io… » dice Nico, ma lei è già oltre l’angolo.
L’avevo agganciata, cavolo pensa, mentre raccoglie le chiavi che gli erano cadute e sale in macchina; incrocia le braccia sul volante, ci appoggia la fronte, chiude gli occhi e si concentra ancora. Deve riuscire a visualizzare quel momento di vita non suo, vissuto per un solo attimo; è fondamentale recuperare più dettagli possibili. Purtroppo, sono davvero pochi istanti: due, forse tre secondi. Quello che continua a vedere è il sorriso dolcissimo di Francesca e l’aria di non avere nessuna preoccupazione, entrambi indizi che stonano con la realtà dei fatti.
Qualche minuto dopo alza la testa, si spinge contro lo schienale e riapre gli occhi.
Se solo quella ragazza non mi avesse distratto, avrei potuto vedere a chi si stava rivolgendo Francesca. Chi guardava? Perché sorrideva?
In un guizzo di nervi per l’occasione perduta colpisce il volante con un pugno; è tremendamente frustrante sapere di averla agganciata per qualche istante e poi averla persa senza la possibilità di registrare un qualsiasi dettaglio utile a ritrovarla. Imprecando a mezza bocca avvia il motore e si allontana dal parcheggio.
È un inizio: il collegamento c'è stato e ne arriveranno altri.
S’impone di pensare positivo mentre percorre la strada a ritroso in direzione del suo ufficio. E’ una bella giornata di sole, tutti i negozi sono aperti e le persone passeggiano sui marciapiedi, come se niente fosse: come se andasse tutto bene.
Finché i problemi non toccano noi stessi e la sfera delle nostre conoscenze pensiamo che siano solo fatti da ascoltare in radio o al Tg.
Nico scuote la testa. Quella normalità però in fondo gli fa bene. Gli ricorda che fuori dalla dimensione nervosa e oscura del suo lavoro esiste un mondo che va avanti placido per la sua strada, ci sono le stagioni, c’è il sole e, soprattutto, persone che stanno bene e che non sono affatto scomparse. Il giretto in macchina lo calma.
Quella ragazza non ha nessuna colpa; anzi, probabilmente è stata lei a far partire il flashback, quindi dovrei ringraziarla, non avercela con lei per avermi risvegliato.
Tornato nel suo studio, mette da parte i giornali che ha acquistato, si siede alla scrivania senza neppure togliersi l'impermeabile e scrive su un pezzo di carta tutto quello che ha vissuto un quarto d'ora prima.
Con la mente ripassa più e più volte le immagini che via via si fanno più sfocate: si concentra dapprima su Francesca, poi su quanto le stava intorno: colori, luce, sensazioni, suoni. Solo quando è convinto di aver trascritto tutto si rilassa e si toglie il cappotto.
«Santo cielo qui si gela!» dice a voce alta.
Un brivido che parte dalle dita gli sale fino alle spalle; si massaggia le braccia e va a controllare la stufa nell'altro locale: è spenta. A malincuore prende dalla scatola un altro libro, questa volta senza guardare la copertina o leggere il titolo, lo mette nella caldaia con un po' di Diavolina e della legna e dà fuoco.
«Ora il lavoro da fare è capire cosa in quella ragazza dei volantini mi ha provocato la connessione con Francesca, così da cercare di replicarla in qualche maniera… »
Per scaldarsi le membra e i pensieri si mette a camminare a lunghi passi su e giù per la stanza riflettendo tra sé come fa sempre quando deve risolvere un enigma.
«Quella ragazza deve essersi comportata come Francesca: non voleva delle informazioni, aveva qualcosa da offrire. Francesca quindi voleva darmi qualcosa? Chi c'era al mio posto? Con chi stava comunicando?»